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Full text of "Rime de Francesco Petrarca : Rerum vulgarium fragmenta"

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ao 


RIME 
DI 
FRANCESCO  PETRARCA 


RERUM   VULGARIUM 
FRAGMENTA 


Strasburgo 
J.  H.  Ed.  Heitz    (Heitz  &  Mundel) 


■^ r/)Ì-v<5iTmfl1l.'(/'iIlliiilli  tiiliiilimniiiHiiiin  iiiniiiiiii  hiìimiihì,:  iììi;!!i:!i  .uiìiii  mi  ,!'.uiiiÀ  Xfri^Ln- 


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FRANCESCO  PETRARCA 


RERUM 
JLGARIUM  FRAGMENTA 


TUTTI    1    DIRITTI    RISERVATI 


'J«N    l7  1939 

lii7i 


PREFAZIONE 


Francesco  Petrarca  (i3o4 — ^3^4)  e  V unico 
irico  grande  dell  Evo  Medio  e  uno  dei  grandi  e 
ndimenticabili  della  letteratura  d'ogni  tempo, 
"^erto  e  che  più  d'ogni  altro  poeta  medioevale,  più 
a  Dante  stesso,  il  Petrarca  volle  e  potè  giungere 
i  conoscere  i  moti  più  profondi  del  suo  cuore  e 
id  esprimerli  da  artista.  Invece  i  lirici  francesi 
iell'  Evo  Medio  e  così  i  provenutali,  quando  vole- 
vano esprimere  il  loro  stato  d'animo  sotto  l'impulso 
iei  loro  desideri,  riuscivano  superficiali  e  non  ebbero 
ne  chiare^^a  di  concessione  ne  profondità  di  pen- 
siero, cosicché  non  poterono  togliere  alla  loro 
maniera  di  manifestare  e  di  considerare  la  gioia 
3  il  dolore  quel  carattere  d'immaturità  dello  spirito 
e  queir  impronta  convenponale  nella  lingua    che 


-    6    — 

dovevano  portare  i  loro  versi,  quando  la  loro 
poesia,  ch'era  quasi  un  giuoco  di  società,  doveva 
esser  confinata  nella  cerchia  delle  idee  e  delle 
espressioni  di  quelle  solla:{!{evoli  accolte.  Per  entro 
allo  stesso  conven-^ionalismo  si  aggira  piti  tardi  la 
lirica  portoghese,  e  quella  dei  trovatori  tedeschi 
(Minnesanger)  ha  certo  il  fine  di  destare  le  simpatie 
ma  non  di  considerare  e  anali^^^are  quanto  il  poeta 
internamente  ha  vissuto. 

Questo  fine,  anji  la  manifestatone  di  tutto  un 
mondo  di  sensa:(ioni  sue  proprie  e  molteplici,  espresse 
nella  loro  profondità  e  pur  con  chiare^^a,  tenendo 
sempre  viva  Vattenpone  e  spesso  destando  la  com- 
mozione, questo  il  fine  che  raggiunse  per  la  prima 
volta  il  Petrarca,  il  cantore  di  Laura.  Prima  di 
lui  e  per  varie  generazioni,  i  migliori  di  sua  gente 
s'erano  provati  a  ideali^^'^^^  l'amore  e  a  dimo- 
strarlo rivelato  dall'  amor  divino,  e  perà  erano 
intenti  a  studiare  l'essenza  di  quell'amore  in  gene- 
rale, piuttosto  che  a  comprenderne  gli  effetti  par' 
ticolari,  nel  proprio  io,  e  rappresentarli  altrui. 
Ciò  volle  e  fece  primo  il  Petrarca  nel  suo  can- 
noniere dedicato  a  Laura,  dove  il  poeta  comunica 
ciò  che  gli  dettavano  il  cuore  e  la  mente,  domi- 
nati da  un  amore  idealistico,  ciò  ch'egli  aveva 
sperato  e  sofferto,  nelV  intento  di  glorificare  se 
stesso,  quasi  all'  altezza  di  un  dio. 

A  quel  compito  era  preparato    il  Petrarca,   col 


suo  lungo  studio  che  non  conosceva  confini,  col 
suo  acume  e  colla  sua  cultura  letteraria  e  lingui- 
stica, acquistata  in  celebri  scuole,  quali  le  uni- 
versità di  Bologna  e  Montpellier,  mentre  i  poeti 
della  lirica  d'amore  in  Francia,  Portogallo  e  Ger- 
mania restarono  chiusi  nello  stretto  ori^:^onte  della 
cultura  cavalleresca  e  cortigiana.  L'intima  cono- 
scem^a  dei  poeti  romani  arricchiva  la  lingua  del 
Petrarca  di  me^!{i  ben  diversi  da  quelli  noti  ai 
poeti  d'oltr'Alpe,  In  Ovidio  e  Vergilio  ei  trovava 
finej^a  e  delicate^^^a  del  sentire,  quali  non  rag- 
giunse per  anco  l'uomo  dell'  Evo  Medio  in  gene- 
rale, e  trovava  negli  storici,  nei  retori  e  nei  filo- 
sofi romani  tali  e  tanti  alti  ideali  d'umanità,  tale 
potenza  di  pensiero  e  insieme  di  parola,  tale 
attività  molteplice  di  senso  speculativo,  quali  a 
nessun  poeta  medioevale,  ne  prima  né  durante 
l'età  sua,  può  attti^uirsi  giustamente.  Ed  è  natu- 
rale che  il  Petrarca  nelle  sue  aspirazioni  alla 
gloria  imperitura  dovesse  seguire  gli  antichi.  In- 
fatti egli  informò  alla  loro  la  propria  maniera 
di  poetare  e  di  pensare,  rivaleggiò  con  lirici,  epici, 
epistolografi  e  storici  dell'  Età  romana,  nella  loro 
lingua,  e  an^^i  appunto  per  un  suo  poema  latino, 
/'Africa,  fu  coronato  poeta  in  Campidoglio  a 
Roma  (i34i),  salendo  in  fama  presso  i  contem- 
poranei che  lo  eguagliavano,  qual  nuovo  «poeta 
laureatus»,   ai  poeti  romani    dell'  Età  imperlale. 

13  0^ 


—    8    — 

Dal  lungo  studio  e  dal  grande  amore  dei  volumi 
romani  che  vinsero  il  silenpo  dei  secoli,  trasse 
profitto  e  se  ne  valse  nella  sua  poesia  in  lingua 
italiana.  Il  poetare  in  lingua  materna  divenne 
per  lui,  nel  concetto  e  nella  forma,  un'  arte  conscia 
di  se  e  del  suo  fine,  come  quella  di  un  Vergilio  e 
di  un  Ovidio,  una  poesia  di  pensieri  che  tendeva 
a  dar  corpo  a  un  ideale  letterario  di  Belle^^'^a. 
Perciò  dei  concetti,  dell'  espressione  e  della  forma 
metrica  diffìcilmente  si  appagava  il  Petrarca,  e 
ne  fanno  fede  i  manoscritti  di  alcune  sue  poesie; 
ei  s'affannava,  e  riusciva,  a  imprimere  ne'  suoi 
versi  a  Laura  che  spirano  purissimi  sentimenti, 
la  impressione  di  grande!{^a  seria,  di  alte^^^a  spiri- 
tuale, facendo  devoto  omaggio  alla  donna,  dall'a- 
more glorificata  in  un  nimbo  d'idealità. 

Chi  era  dunque  questa  Laura,  che  da  lui  fu  a 
tali  alte^!(e  elevata  e  lui  elevò  spiritualmente, 
inspirandogli  nobili  sensi  e  vaste  conca^ioni,  renden- 
dolo di  sé  tanto  fiderò  e  da'  suoi  coetanei  tanto 
lontano  ? 

Egli  stesso  ce  l'ha  fatta  conoscere,  in  una  nota 
sopra  una  pagina  di  memorie  da  lui  unita  a  un 
codice  di  Vergilio,  il  suo  volume  prediletto  che 
portava  seco  anche  in  viaggio.  Quella  pagina  con- 
tiene, fra  altro,  alcune  necrologie  latine  di  amici 
del  j>oeta  ch'egli  aveva  scritte  li  per  averli  presenti 
ognora  allo  spirito,  e  dice  questo  di  Laura  : 


-    9    — 

«Laura,  per  sue  virtù  chiara  e  ne'  miei  versi 
celebrata  a  lungo,  la  prima  volta  agli  occhi  miei 
apparve  sul  principio  della  mia  adolescem^a,  nel- 
Vanno  del  Signore  i32j,  il  di  sesto  del  mese  di 
aprile,  tiella  Chiesa  di  Santa  Chiara  ad  Avignone, 
in  una  mattina  ;  in  quella  stessa  città,  nello  stesso 
mese  di  aprile,  nello  stesso  giorno  sesto,  nella 
stessa  ora  mattutina,  ma  nell  anno  1848,  la  luce 
di  quella  stella  tramontò.  Allora  mi  trovavo  per 
caso  a  Verona,  ignaro,  ahimè  !  del  mio  fato.  La 
triste  nuova,  comunicatami  da  una  lettera  del  mio 
caro  Lodovico,  mi  raggiunse  a  Parma  l'anno  stesso, 
ai  diciannove  di  maggio,  nella  mattina.  Quel  corpo 
di  lei,  si  casto  e  bello,  fu  deposto  in  luogo  sacro, 
presso  i  Frati  Minori,  nello  stesso  giorno  della 
morte,  in  sulla  sera.  Ma  l'anima  di  lei,  che  sia 
tornata  (come  di  Africano  dice  Seneca)  in  cielo, 
onde  era  venuta,  sono  convinto.  Questa  memoria 
dolorosa,  amara  e  dolce  insieme,  avvisai  di  scrivere 
su  queste  carte  appunto,  che  ho  spesso  sotto  a  miei 
occhi,  perche  niente  piìi  mi  debba  piacere  in  questa 
vita  e  per  la  frequente  vista  di  queste  parole  e  la 
giusta  estimatone  della  fugacità  della  vita  mi 
ricordi  che,  infranto  coni'  e  il  vincolo  che  piii 
tenacemente  mi  vi  teneva,  è  giunta  l'ora  di  fuggire 
di  Babilonia,  il  che  sarà  facile,  colf  aiuto  di  Dio, 
a  chi  acutamente  e  virilmente  medita  le  cure  super- 
flue, le  sperante  vane  e  le  delusioni  del  passato. y) 


—      IO      — 

Questa  nota  che,  come  s'è  provato,^  e  di  mano 
del  Petrarca,  contiene  tanti  particolari  di  tempo 
e  di  luogo,  tali  notizie  riguardanti  solo  persone 
reali,  che  non  si  può  dubitare  dell'  esistenza  di  una 
Laura,  veduta  dal  Petrarca  in  Avignone.  Eppure 
ancor  oggi  pili  d'uno  s'attiene  all'  opinione,  già 
espressa  nel  secolo  XIV,  che  Laura  valesse  per 
il  Petrarca  solo  quale  figura  allegorica,  quale 
simbolo  del  suo  amore,  am^i  del  suo  amare  in 
generale  o  del  suo  desiderio  e  delle  lotte  per  l'alloro 
della  gloria  :  per  il  lauro. 

Certo,  il  Petrarca  non  parla  mai,  ne'  suoi  versi 
a  Laura,  di  abboccamenti  colla  persona  amata  o 
di  una  corrisponden^^a  di  lei  al  suo  amore  o  di 
una  buona  accoglienza  fattagli  da  lei  :  ella  è  per 
lui  inacessibile.  Padre  di  due  figli  illegittimi 
prima  del  1848,  ei  si  limita  ad  esprimere  il  desi- 
derio di  veder  Laura,  il  dolore  se  la  vista  di  lei 
gli  e  tolta  0  il  piacere  se  gli  fu  concessa.  Ma 
questo  amore  ideale  non  fa  meraviglia  se  rifiet- 
tiamo  ai  tempi  del  poeta,  ai  quali  era  famigliare 
la  concezione  mistica  dell'  amore,  già  nota  ai  poeti 
predanteschi,  e  se  consideriamo  il  temperamento 
del  Petrarca  e  la  sua  aspirazione  ai  piii  alti  fini 


1  V.  G  ro  ber,  Von  Petrarcas  Laura,  in  «Miscel- 
lanea di  studi  critici  edita  in  onore  di  Arturo 
Graf»,  Bergamo  igo3. 


—    II    — 

spirituali.  Laura  d'Avignone  era  la  sua  amata 
e  anche  la  sua  Musa,  la  sintesi  del  suo  ideale  di 
belle:{^a  di  corpo  e  d'anima,  di  queir  ideale  che 
gli  fu  rivelato  quando  vide  Laura  la  prima  volta, 
nelV  anno  i32'j,  all'  età  di  28  anni,  un  ideale 
che  gli  parve  incorporato  in  Laura,  ch'egli  tentò 
riprodurre  dentro  di  se,  che  lo  fece  diventar  poeta 
creatore  del  Bello,  poeta  e  scrittore  idealistico: 
la  sua  Laura  è  Madonna  Laura  e  anche  il  lauro; 
è  la  Belle!!fja  corporale  e  spirituale,  ruinite  nella 
persona  amata;  e  la  corona  della  vita  che  spetta  solo 
al  creatore  di  spirituali  belle:{:{e.  In  piìi  luoghi  del 
Can'^oniere  la  figura  corporale  di  Laura  si  affaccia 
al  lettore,  p.  e.  nel  No.  126  (cannone).  No.  iSy  (so- 
netto) e  in  altri,  che  non  possono  interpretarsi  pura- 
mente in  senso  allegorico,  sebbene  il  Petrarca  pur 
qui  siasi  accontentato  di  un  disegno  a  lievi  tocchi. 

Quale  fosse  il  casato  dell'  Avignonese  si  e  cercato 
fin  dallo  scorcio  del  secolo  XIV,  ma  invano.  Quelli 
che  pretesero  d'averne  fatto  la  scoperta  avevano 
tutti  un  secondo  fine  e  molti  tendevano  a  provare 
che  Laura  appartenesse  al  loro  proprio  casato. 
Sennonché,  strana  cosa,  i  documenti  che  parle- 
rebbero della  parentela  di  Laura,  si  sarebbero 
verduti  tutte  le  volte  e  sarebbero  stati  veduti  solo 
dagli  autori  che  gli  avrebbero  scoperti.^  Su  cotali 

1  V.  Grober,  l.  e. 


—       12      — 


autorità  unicamente  si  basano  le  ricerche  che  ancor 
^gg^  s[  f^nno  sulla  famiglia  di  Laura  e  però  non 
è  possibile  che  su  basi  cosi  mal  ferme  si  fondi 
un  giudizio  definitivo.  Dobbiamo  rinunciare  a 
sapere  sul  conto  di  Laura  piìi  di  quanto  il  Petrarca 
stesso  ci  disse  di  lei. 

Sebbene  le   poesie   del   Petrarca   sieno   soltanto 
una    scelta    e   non    contengano    tutto   quanto    egli 
componeva    dominato    continuamente  dalla  melan- 
conia e  dall'istinto  creatore   dell'artista   vi  si  ri- 
petono  tuttavia   i  motivi  e   l'ordine  dei  pensieri, 
figure   ed    espressioni,    più    volte,    cosicché  il  suo 
cannoniere  non  è  rivolto  allo  scopo  di  rappresen- 
tare la  varietà  dell'  arte  del   poeta,    ma  piuttosto 
di   far    rilevare    quanto    egli   pregiava    special- 
mente e  specialmente  teneva  caro,  in  tutta  l'opera 
sua    di    poeta     italiano.      Ripetutamente    e    con 
accenti  simili   l anima    di  lui  ci  parla   delle  sue 
angoscie,  delle  sue  lotte  e  del  suo  affanno  a  ricer- 
carne le  cause   e   conoscerle;    ci  passano    innanzi 
più  volte  le  stesse  figure  retoriche:  antitesi,  com- 
parazioni  dei   vari  stati   dell'    animo    con    scene 
della  natura  o  con  avvenimenti  e  situazioni  nella 
vita  di  uomini  illustri  dell'  antichità;  certe  locu- 
zioni e  parole  che  gli  parevano  di  senso  profondo 
0   di   special  efficacia  sul  lettore.   Perchè  i  lettori 
ch'egli  si  riprometteva    non    erano   spiriti  critici, 
che    avrebbe    dovuto    appagare    con    arte    molte- 


-     i3    - 

plice,  ma  cuori  unisoni  al  suo,  che  perciò  poteva 
supporre  atti  a  comprendere  le  sensaponi  della 
sua  anima  travagliata.  Ecco  perchè  sarebbe  critica 
insensata  rimproverargli  la  ripeti:^ione  di  un  tema, 
di  una  frase,  tanto  piii  perchè  il  movente  di  tali 
ripetÌ!^ioni  non  è  in  lui  la  vanità  di  farne  mostra, 
mentre  tanti  altri  poeti,  p.  e.  nel  Rinascimento, 
più  di  lui,  loro  antesignano,  si  compiacciono  della 
pompa  di  loro  dottrine  e  di  lor  retorici  artifìci. 
Coscienza  del  proprio  valore  e  dignità,  ma  non 
vanità,  spirano  nei  versi  del  Petrarca.  Ed  e  pur 
vero  che  sono  non  di  rado  oscuri,  ma  più  per 
obbedire  alla  discre!{ione  che  per  fìngere  profon- 
dità, finzione  di  cui  l'Evo  Medio  non  era  per  anco 
colpevole.  An^i  è  evidente  che  il  Petrarca  si  studia 
d'essere  inteso  da  tutti  in  virtù  della  proprietà 
dell'  espressione  e  della  plasticità  della  figura  ; 
anche  il  lungo  lavorio  di  coì're^ioni^  che  possiamo 
vedere  in  due  codici,  in  parte  autografi,  tende  di 
solito  a  quello  scopo:  la  chiare^^a. 

Il  titolo  ordinario  «Rime»  o  ((Can:^oniere))  non 
hanno  le  poesie  del  Petrarca  in  quei  manoscritti, 
che  s'intitolano  invece  «Francisci  Petrarche, 
laureati   poete.    Rerum    vulgarium   fragmenta». 


1  V.  A ppe  l,  Zur  Entwickelung  ital.  Dichtungen 
Petrarcas  ;  Abdruck  des  Cod.Vat.  lat.  3ig6, 
Halle  i8gi. 


—     14    — 

cioè  parte  degli  scritti  in  volgare  di  F,  P.,  poeta 
laureato;  vi  si  accenna  dunque  alla  esistenza  di 
altre  poesie  italiane  del  Petrarca,  di  che  ei  volle 
privare  la  posterità.  Il  numero  di  quei  ^frammenti» 
ammonta  a  366.  Il  principio  fondamentale  del- 
lordine  in  cui  sono  disposti,  non  fu  trovato.  Fu 
supposto  un  principio  cronologico,^  che  ad  ogni 
modo  non  è  seguito  costantemente.  Il  primo  sonetto, 
che  serve  di  prologo  ai  «frammenti»,  fu  composto 
necessariamente  dopo  le  altre  poesie  della  raccolta. 
Che  sieno  366  di  numero,  cioè  quanti  i  giorni 
dell'  anno  bisestile,  non  sarà  un  caso  fortuito, 
probabilmente.  Delle  366  poesie  31-/  sono  sonetti, 
g  sestine,  7  ballate,  4  madrigali  e  2g  cam^oni. 
Per  i  sonetti  il  Petrarca  adopera  nelle  quartine 
soltanto  lo  schema  a  rima  baciata  :  abba  abba  ; 
nelle  tendine  invece,  vari  schemi:  cdc  dcd,  cdd 
dcc>  cdc  cdc  0,  con  tre  rime,  cde  cde,  cde  dee, 
cde  dee.  Le  tenjfine  hanno  quesf  ordine  di  rime  : 
1.2.3,  4.  5.  6,  6.  1.5.  2.4.  3.,  cioè  le  rime  d'una 
strofa  si  ripetono  nella  strofa  seguente  per  modo 
che  l'ultima   (6.)    rima    della   strofa    precedente 


*  Vedine  il  tentativo  di  A.  P aks  cher.  Die 
Chronologie der  Gedichte Petrarcas( Berlino  i88y); 
cfr.  H.  Co  eh  in.  La  chronologie  du  Cannoniere 
de  Petrarque  (Partii  i8g8);  L.  Mascetta ,  Il 
cannoniere  di  F.  P.  cronologicamente  riordinato 
(Lanciano  i8g5). 


-    ,5    - 

diventi  prima  nella  seguente,  la  prima  diventi 
seconda  ecc.  Le  ballate,  con  una  o  due  stampe  e 
ripresa  di  tre  o  quattro  versi,  si  chiudono  colla 
rima  a  o  colla  b  della  ripresa.  1  madrigali  hanno 
da  8  fino  aio  versi  e  da  3  a  5  rime.  Nella 
maggior  parte  delle  cannoni  la  fronte  ha  6  versi; 
quattro  nei  NN.  jo,  206,  355,  nei  quali  la  sirima 
ha  da  5  a  j  versi  e  da  i  a  3  nuove  rime  ;  nel  No.  2g 
le  rime  della  prima  strofa  corrispondono  alle  rime 
delle  altre,  ripetendosi  nello  stesso  ordine.  Nelle 
altre  cam^oni,  colla  fronte  di  6  versi,  la  sirima 
ha  da  5  a  14  versi  con  2  —  6  rime  nuove.  La 
sirima  del  No.  323  ha  lo  stesso  schema  che  nel 
No.  33 j,  con  6  versi;  cosi  nei  126  e  i2g,  a  j  v.; 
yi,  y2  e  j3,  a  g  v.;  2jo  e  324,  a  g  v.  Inno- 
vazioni della  forma  metrica  non  ne  ha  cercate  il 
Petrarca  nelle  sue  poesie. 

La  presente  ediijfione  contiene  le  liriche  del 
Petrarca  secondo  l'unico  testo  che  si  ristampa  di 
solito  dopo  la  revisione  del  Marsand  (  1816),  coi 
sommari  delle  poesie  del  P.  scritti  dal  Leopardi 
(1826),  ma  sen^a  commento  e  invece  colle  le:{iom 
e  le  varianti  grafiche  del  celebre  Codice  3ig5 
del  fondo  latino  della  Biblioteca  Vaticana,  curato 
dal  Petrarca  stesso,  che  in  parte  lo  scrisse  di  sua 
mano  e  interamente  lo  rivide  e  corresse.  Le  poesie 
No.  ijg,  ig  1—263^  321 — 366,  scritte  nel  codice 


iG 


dal  Petrarca  stesso,  sono  contrassegnate  qui  sotto 
da  un  asterisco.  Non  si  puòjtener  conto,  nelle 
note,  dell'  interpunzione  del  ms.  È  riprodotta 
esattamente  nella  ristampa  letterale  del  Codice 
3i  g5,  che  fu  curata  da  Ettore  M  od  igli  an  i, 
nelle  Pubblicazioni  della  if.  Società  filologica  romana'» 
igo4,  e  ci  serve  di  base  dandoci  le  varie  legioni  e 
varianti  grafiche  del  Petrarca.  Il  ms.  3i(j5  sta 
a  fondamento  della}  presente  edizione  anche  per 
l'ordine  delle  poesie,  che  invece  in  altre  edizioni 
delle  liriche  del  [Petrarca  sono  di  solito  ordinate 
secondo  il  sistema  di  chi  curò  la  stampa  dell'  anno 
i5oi  (edizione  aldina  del  Cardinal  Bembo),  cioè 
in  tre  parti:  ^Sonetti  e  cannoni  in  vita  di  madonna 
Laura'ì,  «Sonetti  e  cannoni  in  morte  di  madonna 
Laura»,  e  ((Sonetti  e  cannoni  sopra  varj  argomenti)). 
Il  posto  dato  alle  singole  poesie  dagli  editori  che  se- 
guono queir  ordine,  e  indicato  ai  singoli  numeri  qui 
sotto.  Il  Petrarca  voleva  cambiare  lordine  prima 
adottato,  come  appare  dalle  cifre  i -3 1  segnate  da  lui, 
nello  stesso  Cod.  3i  g5,  in  margineai  NN.  336-366. 
Secondo  questa  seconda  disposizione  i  NN.  : 

336.  337.  338.  339-51.  352-61.  362-3.  364.  365.  366. 

avrebbero  preso  il  posto  dei  NN, 

I.     i5.    20.    2-14.    2i-3o.     16-17.     19.     18.     3i. 

La  grafia   del  ms.,    quando    importi   conoscerla 
per   sapere    l'ortografia  del  Petrarca  e  lo    stadio 


—     17    — 

della  lingua  scrìtta  di  quei  tempi,  è  riportata 
sempre  esattamente  nelle  note,  meno  i  casi  seguenti, 
che  sarebbe  superfluo  ripetere   di  volta    in   volta. 

Non  occorse  tener  conto  : 

Io  del  modo  usato  nell'Evo  Medio  nelV  unire  e 
nel  separare  le  sillabe,  che  talora  rompe  l'unità 
della  parola  ;  poi  dell'uso  di  i  ed  u  per  j  e  v  ;  dello 
scam'no  fra  minuscola  e  maiuscola. 

JI<^  di  quelle  divergente  dalla  grafia  odierna  che 
si  possono  riassumere  in  singole  norme,  i)  e  al 
posto  di  f,  che  il  Petrarca  non  usa  mai:  speranca 
(-an^a),  belle99e  (-e^^e)  ecc.  2)  ^  oppure  et  per 
e  ed  ;  basta  avvertire  in  nota  i  pochi  casi  in  cui 
anche  nel  codice  sta  e  ed,  come  nelV  uso  moderno, 
p.  e.  nel  No.  23  E  dicea,  ed  ella  ecc.,  ed  e  super- 
fluo di  notare  che  ex  e  (f  (quest'ultimo  non  si  trova 
mai  al  principio  del  verso),  si  trova  in  tutti  gli 
altri  casi:  Et  punire,  et  nude,  et  l'otiose,  et  del 
—  ijL  tempo,  et  non,  (2:  de  la  <?  cosi  pure  Et  a  cui, 
et  altro  —  (C  i,  ^  al  ecc.  ■—  Solo  fino  al  No.  100 
si  notano  3)  i  casi  in  cui  nel  codice  sta  a  la,  de 
la,  da  la  (alla,  della,  dalla),  ne  1  (nelV)  e  sim.  ; 
e  ancora  le  consonanti  scempie  in  già  mai  (giam- 
mai), si  come  (siccome),  la  giù,  qua  giù  (laggiù, 
quaggiù)  ;  camino  (cammino).  Invece  si  avvertono 
t  casi  in  cui  anche  nei  codice  si  abbia  la  grafia 
moderna,  come  nel  No.  io  ali  ombra  (di  fronte 
al  solito  al  ombra  No.  22  ecc.). 

Bibl,  rom.  12/15.  2 


-     i8    — 

Ilio  delle  divergente  costanti  dall'  odierna  grafia 
e  pronuncia,  come  oblio  (obblio),  meraviglia  (mar-), 
fusse  (fosse);  anchor  (ancor). 

Alla  riprodupone  della  punteggiatura,  che  ser- 
viva, come  pare,  all'  accentuatone  e  alla  decla- 
mazione, dobbiamo  rinunciare  per  ragione  tipogra- 
fica e  perchè  le  note  possono  dare  solo  le  varianti, 
non  tutto  il  testo  del  ms.  3ig5.  Basta  rimandare, 
per  r interpunzione  del  ms.,  alla  esatta  riproduzione 
del  testo  nella  edizione  del  Modigliani. 

Un'  altra  riproduzione  del  testo  del  ms.  3ig5 
e  data  nella  edizione  ((Rime  di  Fr.  Petrarca  secondo 
la  revisione  ultima  del  poeta»,  Firenze  igo4  (Bi- 
blioteca di  opere  inedite  o  rare  di  ogni  secolo  della 
letter.  ital.),  per  cura  di  Salvo  Cozz^y  che,  a 
facilitare  la  lettura  del  testo,  segua  Vuso  moderno 
nella  divisione  e  neìV  unione  delle  sillabe  e  dà 
le  varianti  delle  due  altre  edizioni  basate  sul  ms. 
3ig5  e  provviste  di  note  dichiarative,  cioè  dell' 
ediz.  di  G.  Mestica,  «Le  rime  di  F.  P.,  restituite 
nelV  ordine  e  nella  lezione  del  testo  originario», 
yj^iren-^e  /8g6    e  dell'   ediz-   di   G.  Carducci   e 

/[   È.  Ferrari,    «Le    rime    del    P.    commentate», 

\l     Firenze  i8gg. 

w  Fra  le  altre  edizioni  moderne  con  commento  si 
notino  quella  di  C.  Antona-T  r  ave  rsi  e  G. 
Zannoni  (Milano  i8go);  di  E.  Camerini 
(ibid.    1876)  e  G.  Rigutini  (ibid.  r8g6). 


—     19    - 

Degli  scritti  sulla  lirica  del  Petrarca  basti  ricor- 
lare  qui:  A.  Cesareo,  aSu  la  poesia  lirica  del 
(/8g8)  e  E.  Si  e  ardi,  «Gli  amori  di  F.  P.» 
rgoo).  —  Altre  pubblicasfioni  intorno  al  Petrarca 

le  edizioni  delle  sue  opere  ecc.  sono  citate  nella 
Bibliografia  Petrarchesca»  di  G.  Ferra^^i 
Bassano  i^jj)  e  in  quella  di  E.  Calvi,  uBiblio- 
rafia  analitica  Petrarchesca»,  rSjj — igo4  (Roma 

904)' 

Tradu!(ioni  di  tutto  il  Cannoniere  o  di  singole 
arti  si  hanno   in  quasi  tutte    le    lingue    europee. 

ra  le  traduzioni  tedesche  sono  da  ricordare  quelle 

'  K.  Foerster  (ultima  ristampa  nelle  Biblioteche 

ieclam  i8jj,Spemann  iS83)eW.  Krigar(  i883); 

francesi   di  J.    Poulenc   (18^^),    Philibert 

e    Due   ((877-7g),    F.    Reynard    (i883),    H. 

odefroy  (igoo),  E.  Cabadé  ( Tgo2},  F.  Br ossei 
igo3);  le  sp  a  gnu  ole  di  Gutierre  de  Celina 
iSg5):  le  inglesi  di  C.  B.  Cayley  (i8yg), 
Th.  Campbell   (i8yg),    A.  Crompton   (i8g8);   le 

vede  si  di  A.  Kallberg  (1880}  e  V  ungherese 
ìi  P.  A.  Antal  (1887). 

G.  G. 


RERUM 
^ULGARIUM  FRAGMENTA 


FRANCISCI  PETRARCHE  LAUREA- 
TI   POETE    RERUM    VULGARIUM 
FRAGMENTA. 


SONETTO  I.  1 

Chiede  compassione  del  suo  stato,   e  confessa,   pentito,   la  vanità  del 

suo  amore. 

Voi  ch'ascoltate  in  rime  sparse  il  suono 
Di  quei  sospiri  ond'  io  nudriva  il  ^  core 
In  sul  mio  primo  giovenile  errore, 
Quand'era  in  parte  altr'uom  da  quel  eh'  i'sono; 

Del  vario  stile,  in  eh'  io  piango  e  ragiono, 
Fra  le  vane  speranze  e  '1  van  dolore. 
Ove  sia  chi  per  prova  intenda  amore. 
Spero  trovar  pietà,  non  che  perdono. 

Ma  ben  veggi'- or,  sì  come  al  popol  tutto 
Favola  fui  gran  tempo;  onde  sovente 
Di  me  medesmo  meco  mi  vergogno: 

E  del  mio  vaneggiar  vergogna  è  '1  frutto, 
E  '1  pentirsi,"  e  '1  conoscer  chiaramente 
Che  quanto  piace  al  mondo  è  breve  sogno. 

*  1    ■■'  veggio    ^  pentersi 

SONETTO  II.  2 

Dopo  essersi  difeso  da  tanti  assalti  d'  Amore,  è  vinto  per  insidia  di  lui. 

Per  far^  una  leggiadra  sua  vendetta 
E  punir  2  in  un  dì  ben  mille  offese, 
Colatamente  Amor  l'arco  riprese, 
Com'  uom  eh'  a  nuocer'^  luogo  e  tempo  aspetta^ 

Era  la  mia  virtute  al  cor  ristretta. 
Per  far  ivi  e"*  negli  occhi  sue  difese, 
Quando  '1  colpo  mortai  laggiù-'»  discese, 
Ove  solea  spuntarsi  ogni  saetta. 


24  Petrarca. 

Però  turbata  nel  primiero  assalto, 
Non  ebbe  tanto  né  vigor,  né  spazio, 
Che  potesse  al  bisogno  prender  l'arme; 

Ovvero*^  al  poggio  faticoso  ed  alto 
Ritrarmi  accortamente  dallo'  strazio; 
Dal  quaP  oggi  vorrebbe,  e  non  può*^  aitarme. 

*  fare      "^  punire      ^  Come  huom  cha  nocer     *  ivi  (?)  et     'la  giù 

■^  O  vero     '  da  lo     ^  Dsl  quale     "  pò 

SONETTO  III.  3 

Giudica  vile  Amore  che  io  feri  in  un  giorno  da  non  dovactie  sospettare. 

Era  '1^  giorno  oh'  al  Sol  si  scolorar© 
Per  la  pietà  del  suo  Fattore-  i  rai; 
Quand'^  i'  fui  preso,  e  non  me  ne  guardai. 
Che  i  be'  vostr'  occhi,  Donna,  mi  legare. 

Tempo  non  mi  parea  da  far  riparo 
Centra  colpi  d'Amor;  però  n'andai^ 
Secur,^  senza  sospetto:  onde  i  miei  guai 
Nel  comune*^  dolor  s' incominciare. 

Trovommi  Amor  del  tutto  disarmato, 
Ed  aperta  la  via  per  gli  occhi  al  core. 
Che  di  lagrime  son  fatti  uscio  e  varco. 

Però,  al  mio  parer,  non  gli'  fu  onore^ 
Ferir  me  di*^  saetta  in  quello  stato, 
E  a^^  voi  armata  non  mostrar  pur  l'arco. 

1  il     '^  factore     ^  Quando    *  mandai     *  Securo    *  commune     '  li 
•^honore    «de    ^^  A 

SONETTO  IV.  4 

Trae  argomento  di  lodar  Laura  dal  luogo  dov'  ella  nacque. 

Quel^  eh'  infinita  provvidenza-  ed  arte 
Mostrò  nel  suo  mirabii  magistero, 
Che  criò  questo  e  quell'  altro  emispero'^ 
E  mansueto  più  Giove  che  Marte, 


■  '^'-v  \ 


Rime.  25 

Venendo*  in  terra  a  illuminar^  le  carte 
Ch'  avean  molt'  anni  già  celato  il  vero, 
Tolse  Giovanni  dalla®  rete,  e  Piero, 
E  nel  regno  del  Ciel  fece  lor  parte. 

Di  se,  nascendo,  a  Roma  non  fé  grazia,' 
A  Giudea  sì  ;  tanto  sovr'  ogni  stato 
Umiltate  esaltar®  sempre  gli  piacque. 

Ed  or  di  picciol  borgo  un  Sol  n'  ha»  dato, 
Tal  che  Natura  e  '1  luogo  si  ringrazia  ^"^ 
Onde  sì  bella  donna  al  mondo  nacque. 

'  Que      ^  providentia       ^  hemispero      *  Vegnendo      ^  alluminar 
^  da  la     '  grafia    ^  Humilitate  exaltar    ®  na    *°  ringratia 

SONETTO  V.  5 

Col  nome  sfesso  di  Laura  forma  Felogìo  dì  lei. 

Quand'^io  movo  i  sospiri  a  chiamar  voi 
E  '1  nome  che  nel  cor  mi  scrisse  Amore, 
LAUdando  s' incomincia  udir  di  fore 
Il  suon  de'  primi  dolci  accenti  suoi. 

Vostro  stato  REal,  che  'ncontro  poi, 

Raddoppia  all' "alta  impresa  il  mio  valore; 
Ma  TAci,  grida  il  fin,  che  farle  onore* 
È  d'  altri  omeri  *  soma,  che  da'  tuoi. 

Così  LAUdare  e  REverire  insegna 

La  voce  stessa,  pur  eh'  altri  vi  chiami, 
O  d'  ogni  reverenza  e  d'  onor  degna: 

Se  non  che  forse  Apollo  si  disdegna 
Ch'a  parlar  de'  suoi  sempre  verdi  rami 
Lingua  mortai  presuntuosa^  vegna. 
'  Quando    'al    '  honore    *  homeri    °  presumptuosa 

SONETTO  VI.  6 

Vtva  immagine  del  suo  amore  ardente,  e  della  onestà  costante  di  Laura. 
Sì  traviato  è  '1  folle  mio  ^  desio 

A  seguitar  costei  che  'n  fuga  è  volta, 
E  de'  lacci  d'Amor  leggiera  e  sciolta 
Vola  dinanzi  al  lento  correr  mio, 


26  Petrarca. 

Che  quanto  richiamando  più  l'invio" 
Per  la  secura  strada,  men  m'  ascolta; 
Né  mi  vale  spronarlo  o  dargli  volta, 
Ch'  Amor  per  sua  natura  il  fa  restio. 

E  poi  che  '1  fren  per  forza  a  se  raccoglie, 
r  mi  rimango  in  signoria  di  lui, 
Che  mal  mio  grado  a  morte  mi  trasporta, 

Sol  per  venir  al  Lauro  onde  si  coglie 
Acerbo  frutto,  che  le  piaghe  altrui, 
Gustando,  affligge  più  che  non  conforta. 
^  mi     ^  envio 

SONETTO  VII  (Var.  arg.  I).  7 

Rincora  un  amico  allo  studio   delle  lettere  e  air  amore   della  jilosotia. 
La  gola  e  '1  sonno ^  e  l'oziose-  piume 

Hanno ^  del  mondo  ogni  vertù  sbandita; 

Ond'  è  dal  corso  suo  quasi  smarrita 

Nostra  natura,  vinta  dal  costume; 
Ed  è  sì  spento  ogni  benigno  lume 

Del  ciel,  per  cui  s'informa  umana*  vita, 

Che  per  cosa  mirabile  s'addita 

Chi  vuol**  far  d'Elicona  nascer   fiume, 
pual  vaghezza  di  lauro?  qual  di  mirto? 

Povera  e  nuda  vai,  filosofia.** 

Dice  la  turba  al  vii  guadagno  intesa. 
Pochi  compagni  avrai  per  l'altra  via: 

Tanto  ti  prego  più,  gentile  spirto, 

Non  lassar  la  magnanima  tua  impresa. 
»  somno    ^  otiose    ^  Anno    *  humana    ^  voi    '*  philosophia 

SONETTO  Vili.  8 

introduce   a    variare  certe   bestioline   prese  nei  contorni  della  Terra  di 
Laura,  e  che,  con  significazione  del  suo  stato,  manda  in  dono  a  un  amico. 

A  pie  de'  colli  ove  la  bella  vesta 
Prese  delle  ^  terrene  membra  pria 
j  La  Donna,  che  colui  eh'  a  te  ne  'nvia 

Spesso  dal  sonno-  lagrimando  desta: 


Rime.  27 

Libere  in  pace  passavam  per  questa 

Vita  mortai,  eh'  ogni  animai  desia, 

Senza  sospetto   di  trovar  fra  via 

Cosa  oh'  al  nostr'  andar  fosse    molesta. 
Ma  del  misero   stato  ove  noi  semo 

Condotte  dalla  ^  vita  altra  serena, 

Un  sol  conforto,  e  della*  morte,  avemo: 
Che  vendetta  è  di  lui,  eh'  a  ciò  ne  mena; 

Lo  qual  in  forza  altrui,  presso  all' ^estremo, 

Riman  legato  con  maggior   catena. 

*  de  le    "^  somno     '  da  la    *  de  la    ^  a  1'  extremo 

SONETTO  IX.  9 

Manda  un  presente  pel  quale  significa  lo  sfato  suo,    assomigliando  la 
cagione  delfuno  alTaltro. 

Quando  '1  pianeta  che  distingue  l'ore, 
Ad  albergar  col  Tauro  si  ritorna, 
Cade  virtù  dall'^  infiammate  corna 
Che  veste  il  mondo  di  novel  colore; 

E  non  pur  quel  che  s'apre  a  noi  di  fere, 
Le  rive  e  i  colli  di  fioretti  adorna, 
Ma  dentro,  dove  giammai  ^  non  s'aggiorna. 
Gravido  fa  di  se  il  terrestre  umore,  ** 

Onde  tal  frutto*  e   simile  si  colga. 

Così  costei,  eh'  è  tra  le  donne    un  Sole, 
In  me,  movendo  de'  begli  occhi  i  rai, 

Cria  d'amor  pensieri,^  atti  e  parole. 
Ma  come  eh'  ella  gli  governi  o  volga. 
Primavera  per  me  pur  non  è  mai. 

*  vertù  da  1    ^  già  mai    ^  humore    *  fructo    ^  penseri 

SONETTO  X  (Var.  arg.  II).  10 

A  Stefano  Colonna  il  vecchio,  ch'era  già  siato  in  Avignone,  e  si  dipartiva. 
Gloriosa  Colonna,*  in  cui  s'appoggia 
Nostra  speranza  e  '1  gran  nome  latino, 
Ch'ancor  non  torse  dal'-^  vero  cammino" 
L'ira  di  Giove  per  ventosa  pioggia; 


28 


Petrarca. 


Qui  non  palazzi,  non  teatro*  o  loggia, 

Ma'n  lor  vece  un  abete,  un  faggio,  un  pino 
Tra  l'erba  verde  e '1  bel  monte  vicino, 
Onde  si  scende  poetando  e  poggia, 
Levan  di  terra  al  ciel  nostr' intelletto  ; '^ 
E  '1  rosigniuol,  che  dolcemente  all'ombra 
Tutte  le  notti  si  lamenta  e  piagne, 
D'amorosi  pensieri  «  il  cor    ne  'ngombra: 
Ma  tanto  ben  sol  tronchi  e  fa'  imperfetto  ^ 
Tu  che  da  noi,  signor  mio,  ti  scompagne. 
»  Columna      ^  del      '  camino     *  theatro     ^  intellecto     ^  penseri 
fai  imperfecto 

BALLATA  I.  11 

Accortasi  Laura  deir  amore  di  lui,  gli  si  mostra  severa. 
Lassare  il  velo  o   per  Sole  o  per  ombra, 
Donna,  non  vi  vid'  io. 
Poi  che'n^  me  conosceste  il  gran  desio 
Ch'  ogni  altra  voglia  d'  entr'  al  cor  mi  sgombra; 
Mentr'  io  portava  i  be'  pensier  celati 
C  hanno ^  la  mente  desiando  morta, 
Vidivi  di  pietate  ornare  il  volto: 
Ma  poi  eh'  Amor  di  me  vi  fece    accorta, 
Fur»  i  biondi  capelli  allor    velati. 
E  r  amoroso  sguardo  in  se  raccolto. 
Quel  eh' i' più  desiava  in  voi,  m' è  tolto; 
Sì  mi  governa  il  velo, 

Che  per  mia  morte,  ed  al  caldo  ed  al  gelo,* 
De'  be'  vostr'  occhi  il  dolce  lume  adombra. 
Mn    ^Channo    'Fuor    *  gielo 

SONETTO  XI.  12 

Spera,  se  egli  non  muore  prima  che  Laura    invecchi,  di  poterle  dire  i 

suoi  affanni,  e  ch'ella  n'  abbia  a  sentire  pietà. 

Se  la  mia  vita  dall'  '  aspro  tormento 

Si  può  tanto  schermire,  e  dagli  affanni, 

Ch'i' veggia  per  virtù-  degli  ultim'»  anni, 

Donna    de'  be'  vostr  occhi  il  lume  spento; 


Rime.  2ì 

E  i  cape'  d'  oro  fin  farsi  d'argento, 
E  lassar  le  ghirlande  e  ì  verdi  panni, 
E  '1  viso  scolorir,  che  ne'  miei  danni 
A  lamentar*  mi  fa  pauroso  e  lento; 

Pur  mi  darà  tanta  baldanza  Amore, 
Ch'  i'  vi  discovrirò,   de'  miei^  martiri 
Qua'  sono  stati  gli  anni  e  i  giorni  e  1'  ore. 

E  se  '1  tempo  è  contrario  ai  be'  desiri. 

Non  fia  eh'  almen  non  giunga  al  mio  dolore 
Alcun   soccorso  di  tardi  sospiri. 
^  da  1    '  vertu     '  ultimi    *  Aliamentar     ^  mei 

SONETTO  XII.  13 

È  lieto  che  F  amore  di  Laura  il  sollevi  al  Bene  sommo. 

Quando  fra  1'  altre  donne  ad  ora  ad  ora 
Amor  vien  nel  bel  viso   di  costei, 
Quanto  ciascuna  è  men  bella  di  lei. 
Tanto  cresce  il^  desio  che  m' innamora. 

r  benedico  il  loco  e  '1  tempo  e  1'  ora 
Che  sì  alto  miraron  gli  occhi  miei,^ 
E  dico:  Anima,  assai  ringraziar ^  dei. 
Che  fosti  a  tanto  onor*  degnata  allora. 

Da  lei  ti  vien  ^  1'  amoroso  pensiero,  * 

Che,  mentre  '1  segui,  al  sommo  Ben  t' invia, 
Poco  prezzando'  quel  ch'ogni  uom®  desia: 

Da  lei  vien  l'animosa  leggiadria 

Ch'  al  Ciel  ti  scorge  per  destro   sentiero  ;  ^ 
Sì  eh' i' vo  già  della  ^^^  speranza  altiero.  ^^ 

^  1       *  mei       '  ringratiar      *  honor       ^  ven      *  penserò      '  Pocho 
pregando    *  huom    ^  sentero    ^^  de  la    ^^  altero 

BALLATA  II.  14 

Convenendogli  partire  da  Laura,  per  una  lontana  parte,  conforta  gii 
occhi  a  prendere  una  piena  vista  di  lei. 

Occhi  miei  lassi,    mentre  eh'  io  vi  giro 

Nel  bel  viso  di   quella  che  v'ha^  morti, 

Pregovi,  siate  accorti: 

Che  già  vi  sfida  Amore;    ond' io  sospiro. 


30  Petrarca. 

Morte  può-  chiuder  sola  a' miei  pensieri -"* 
L'amoroso  cammin*  che  li^   conduce 
Al  dolce  porto  della ^  lor  salute: 
Ma  puossi  a  voi  celar  la  vostra   luce 
Per  meno  obbietto;'   perchè  meno  interi 
Siete  formati  e  di  minor  virtute. 
Però  dolenti,    anzi  che  sian  venute 
L'ore  del  pianto,  che  son  già  vicine, 
Prendete  or   alla^  fine 
Breve  conforto  a  sì  lungo  martire. 
^  a    ^  pò     ^  penseri    *  c?.min    ^  gli     ^'  de  la    ''  obgetto     ^  a  la 

SONETTO  XIII.  15 

Descrive  gli  affetti  che  prova  nel!'  allontanarsi  di  Laura. 

Io  mi  rivolgo  indietro  a  ciascun  passo 
Col  corpo  stanco,^  eh' a  gran  pena  porto; 
E  prendo  allor  del  vostr'  aere  conforto, 
Che '1  fa  gir  oltra,  dicendo:  Oimè    lasso I 

Poi  ripensando  al  dolce  ben  eh'  io  lasso. 
Al  cammin-  lungo  ed  al  mio  viver  corto, 
Fermo  le  piante   sbigottito  e  smorto, 
E  gli  occhi  in  terra  lagrimando    abbasso.  ^ 

Talor  m'  assale  in  mezzo  a'  tristi  pianti 

Un  dubbio,  come  posson  queste  membra 

Dallo*  spirito  lor  viver  lontane? 
Ma  rispondemi  Amor:  Non  ti  rimembra 

Che  questo  è  privilegio  degli  amanti, 

Sciolti  da  tutte  qualitati  umane?  ^ 
^  stanche     ^  camin     ^  abasso    *  Da  lo     ^  humane 

SONETTO  XIV.  16 

Come  il  pellegrino  va  a  Roma  a  vedere  il  Sudario,  cosi  egli  va  cercando 
Donna  che  simigli  la  sua. 

Movesi 'P  vecchierel   canuto  e  bianco- 
Del  dolce  loco  ov'ha*  sua  età  fornita, 
E  dalla*  famigliuola   sbigottita, 
Che  vede  il  caro  padre  venir  manco; 


Rim-:.  3 1 

Indi  traendo^'  poi  1'  antico^'  fianco 
Per  r  estreme'  giornate  di  sua  vita, 
Quanto  più  può®  col  buon  voler  s'  aita, 
Rotto  dagli  anni^  e  dal  cammino '^^  stanco; 

E  viene  a  Roma,  seguendo  '1  desio, 

Per  mirar  la  sembianza   dì  colui 

Ch'  ancor  lassù  nel  Cie!  vedere  spera. 
Così,  lasso,  talor  vo   cercand' io,^'" 

Donna  quant'^^è    possibile,  in  altrui 

La  desiata ^'^  vostra  forma  vera. 

•  il      -  bianche      ^  a      ^  da  la      ^  trahendo     *"  antiquo     '  extrerrie 
pò    "  ani     '°  camino     ^'  csrchandio     ^^  quanto    *^  disiata 

SONETTO  XV.  17 

Che  pycvi  in  presenza  di  Laura  o  nel  partirsi  da  lei. 

Piovonmi  amare  lagrime    dal  viso. 
Con  un  vento    angoscioso  di  sospiri, 
Quando  in  voi  adivien^  che  gli  occhi    giri, 
Per  cui  sola  dal  mondo  i'  son  diviso. 

Vero  è  che  '1  dolce  mansueto  riso 
Pur  acqueta  gli  ardenti  miei  desiri, 
E  mi  sottragga  al  foco  de'  martiri, 
Mentr' io  son  a  mirarvi  intento  e  fiso: 

Ma  gli  spiriti  miei  s' agghiaccian '^  poi 

Ch' i' veggio,  al  dipartir,'^  gU  atti  soavi 

Torcer  da  me  le  mie  fatali    stelle. 
Largata  al  fin  con*^  l'amorose  chiavi 

L'anima  esce  del  cor  per  seguir  voi; 

E  con  molto  pensiero  indi  si  svelle. 
1  adiven     ^  saghiaccian     ^  departir    *  co 

SONETTO  XVI.  18 

Per  poter  meno  amarla,  fugge,  ma  invano  dalla  vista  di  lei. 
Quand'  io  son  tutto  volto  in  quella  parte 
Ove  '1  bel  viso  di  Madonna  luce, 
E  m' è  rimasta^  nel  pensier  la  luce 
Che  m'arde  e  strugge  dentro  a  parte  a  parte; 


32  Petrarca. 

r,  che  temo  del  cor  che  mi  si  parte, 
E  veggio  presso  il  fin  della^  mia  luce, 
Vommene  in  guisa   d'  orbo  senza  luce, 
Che  non  sa've^  si  vada,  e  pur  si  parte. 

Così  davanti  ai  colpi  della'*  Morte 
Fuggo  ;  ma  non  sì  ratto  che  '1  desio 
Meco  non  venga,  come  venir  sole. 
Tacito  vo;  che  le  parole  morte 

Farian  pianger  la  gente;  ed  i'  desio 
Che  le  lagrime  mie  si  spargan   sole. 
'  rimasa    ^  de  la    ^  ove    *  de  la 

SONETTO  XVII.  19 

Rassomiglia  sé  alla  farfalla,  che  cerca  il  lume  che  fa/de. 
Son  animali  al  mondo  di^  sì  altera 

Vista,  che 'ncontr' al^  sol  pur  si  difende; 

Altri,  però  che  '1  gran  lume  gli  offende. 

Non  escon  fuor  se  non  verso  la  sera; 
Ed  altri,  col  desio  folle,    che  spera 

Gioir  forse  nel  foco  perchè   splende, 

Provan  l'altra  virtù,  ^  quella  che  'ncende. 

Lasso!  ìH  mio  loco  è 'n  questa  ultima  schiera.^ 
Ch' i' non  son  forte  ad  aspettar*^  la  luce 

Di  questa  Donna,  e  non  so  fare  schermì 

Di  luoghi  tenebrosi  o    d'  ore  tarde. 
Però  con  gli  occhi  lagrimosi  e  'nfermi 

Mio  destino  a  vederla  mi  conduce: 

E  so  ben  eh'  i'  vo  dietro  a  quel  che  m'  arde. 
'  de    *  chencontral     ^  vertu     *  el    *  schera    ®  aspectar 

SONETTO  XVIII.  20 

Tentò  più  volte,  ma  indarno,  di  lodar  le  bellezze  di'  Laura. 

Vergognando  talor  eh'  ancor  si  taccia. 
Donna,  per  me  vostra  bellezza  in  rima. 
Ricorro  al  tempo  eh'  i'  vi  vidi  prima, 
Tal  che  null'altra  fia  mai  che  mi  piaccia. 


Rime.  33 

Ma  trovo  peso  non  dalle  ^  mie  braccia. 
Né  ovra  da  polir  con  la'-^  mia  lima: 
Però  r  ingegno,  che  sua  forza  estima,  ^ 
Nell'operazione  tutto  s'  agghiaccia. 

Più  volte  già  per  dir  le  labbra  apersi; 

Poi  rimase  la  voce  in   mezzo  '1  petto. -^ 

Ma  qual  suon*'  poria  mai  salir  tant'alto? 
Più  volte  incominciai  di  scriver  versi; 

Ma  la  penna  e  la  mano  e  l'intelletto' 

Rimaser  vinti  nel  primier  assalto. 

^  da    le       -  colla       "  extima       *  nel  operation       •''  pecto       ®  son 
'  intellecto 

SONETTO  XIX.  21 

Dimostra  fi  pencolo  del  suo  cuore  se  Laura  noi  soccorre. 

Mille  fiate,  o  dolce  mia  guerrera, 
Per  aver  co'  begli  occhi  vostri  pace, 
V'aggio  profferte^  il  cor;  m' a  voi  non  piace 
Mirar  sì  basso  con  la-  mente  altera. 

E  se  di  lui  fors'  altra  donna  spera. 
Vive  in  speranza  debile  e  fallace: 
Mio.  perchè  sdegno  ciò  eh'  a  voi  dispiace, 
Esser  non  può  giammai^  così  com'  era. 

Or  s'io  lo  scaccio,  ed  e'  non  trova  in  voi 
Neil'  esilio"*  infelice  alcun  soccorso. 
Né  sa  star  sol,  né  gire  ov'  altri  '1'*  chiama, 
Poria  smarrire  il  suo  naturai  corso; 
Che  grave  colpa  fia  d'ambeduo  noi, 
E'   tanto  più  di''  voi,   quanto  più  v'  ama. 
1  proferto     "  colla     ^  già  mai     '  Nel  exilio     ^  il     *^  de 

SESTINA  I.  22 

Espone  la  miseria  del  suo  stalo.    Ne  accusa  Laura.    La  brama  Dieia-a, 
e  ne  dispera. 

A  qualunque  animale  alberga  in   terra, 

Se  non  se  alquanti  c'hanno  in  odio  il  sole. 

Tempo  da  travagliare  é  quanto  è  '1  oiorno; 
Ma   poi  eh'  il  '  ciel  accende  le  sue  stelle, 
Bibl.  rem.   12/15.  3 


34  Petrarca. 

Qual  torna  a  casa,  e  qual  s'annida^  in  selva, 
Per  aver  posa  almeno  infin  all'  '^  alba. 
Ed  io,  da  che  comincia  la  beli' •  alba 
A  scuoter  l'ombra  intorno  della '^  terra 
Svegliando  gli  animali  in  ogni  selva, 
Non  ho<^  mai  triegua  di  sospir  col  sole; 
Poi  quand'io  veggio  fiammeggiar  le  stelle, 
Vo  lagrimando  e  desiando'  il  giorno. 
Quando  la  sera  scaccia  il  chiaro  giorno, 
E  le  tenebre  nostre  altrui  fann'  ^  alba, 
Miro  pensoso  le  crudeli  stelle, 
Che  m'hanno  fatto*  di  sensibil  terra, 
E  maledico  il  dì  eh' i' vidi  '1  sole; 
Che  mi  fa  in  vista  un  uom^"  nudrito  in  selva. 
Non  credo  che  pascesse  mai  per  selva 
Sì  aspra  fera,  o  di  notte  ^^  o  di  giorno, 
Come  costei  eh'  i'  piango  all'ombra  ^^  e  al  sole, 
E  non  mi  stanca'''  primo  sonno  od  alba; 
Che,  bench'  i'  sia  mortai  corpo  di  terra. 
Lo  mio  fermo  desir  vien  dalle  i*  stelle. 
Prima  eh'  i'  torni  a  voi,  lucenti  stelle, 
O  tomi  giù  neir  ^^  amorosa  selva 
Lassando  il  corpo,  che  fia  trita  terra, 
Vedess'io  in  lei  pietà:  ch'inde  un  sol  giorno 
Può  ristorar  molt'anni,  e  'nnanzi^'  l'alba 
Puommi  arricchirla  dal  tramontar  del  sole. 
Con  lei  foss'  io  da  che  si  parte  il  sole, 
E  non  ci  vedess' altri  che  le  stelle;^ 
Sol  una  notte,  1®  e  mai  non  fosse  l'alba, 
E  non  si  trasformasse -«  in  verde  selva 
Per  uscirmi  di  braccia,  come  il  giorno 
Che '21  Apollo  la  seguia  quaggiù  2-  per  terra. 
Ma  io  sarò  sotterra  in  secca  selva, 

E  '1  giorno  andrà  pien  di  minute  stelle, 
Prima  eh'  a  sì  dolce  alba  arrivi  il  sole. 
>chel  •-■anida    »al    ^bella     Mela     «o   J^isiando    Sfanno    ^«annc 
facto    »«huom    -  nocte    «Malombra    ^«stancha    '' f^a  \e       nel     ^^^J' 
"enanzi     '«a  richir    >«  nocte     -"  se  transformasse  «i  Ch       qua  t.iu 


Rime.  35 

CANZONE  I.  23 

Narra  lo  stato  suo,  dacché  Amore  gli  cominciò  a  dar  battaglia. 

Nel  dolce  tempo  della  ^  prima  etade, 

Che  nascer  vide  ed  ancor '^  quasi  in  erba* 

La  fera  voglia  che  per  mio  mal  crebbe; 

Perchè  cantando  il  duol  si  disacerba, 

Canterò  com'io  vissi  in  libertade, 

Mentre  Amor  nel  mio  albergo  a  sdegno  s'  ebbe;  6 

Poi  seguirò  siccome*  a  lui  ne  'ncrebbe 

Troppo  altamente,  e  che  di  ciò  m'  avvenne; 

Di  eh'  io  son  fatto  ^  a  molta  gente  esempio  :  * 

Benché  '1  mio  duro  scempio 

Sia  scritto'  altrove  sì  che  mille  penne 

Ne  son  già  stanche,  e  quasi  in  ogni  valle 

Rimbombi  '1^  suon  de'  miei  gravi  sospiri, 

Ch'  acquistan  fede  alla®  penosa  vita. 

E  se  qui  la  memoria  non  m'  aita, 

Come  suol  fare,  iscusinla^^  i  martiri, 

Ed  un  pensier,  ^^  che  solo  angoscia  dàlie 

Tal,  eh'  ad  ogni  altro  fa  voltar  le  spalle, 

E  mi  face  obliar  me  stesso  a  forza; 

Che  tien^2  di  me  quel  d'entro,  ed  io  la  scorza. 

^  de  la    *  anchor    '  herba    *  sicome    ^  facto    *  exempio    '  scripto 
*  il    ®  a  la    ^^  iscusilla     *^  penser    ^*  ten 

r  dico  che  dal  dì  che  '1  primo  assalto 
Mi  diede  Amor,  molt'anni  eran  passati. 
Sì  eh'  io  cangiava  il  giovenile^  aspetto; 
E  dintorno  al  mio  cor  pensier  gelati 
Fatto '^  avean  quasi  adamantino  smalto 
Ch'  allentar  non  lassava  il  duro  affetto:  6 

Lagrima  ancor*  non  mi  bagnava  il  petto 
Né  rompea  il  sonno;  e  quel  eh'*  in  me  non  era, 
Mi  parea*  un  miracolo  in  altrui. 
Lasso,  che  son!  che  fuil 
La  vita  al^  fin,  e  '1  dì  loda  la  sera. 
Che,  sentendo  il  crudel  di  eh'  io  ragiono, 


36  Petrarca. 

Infin  allor  percossa  di  suo  strale 
Non  essermi  passato  oltra  la  gonna, 
Prese  in  sua  scorta  una  possente  donna, 
Ver  cui  poco  giammai'  mi  valse  o  vale 
Ingegno  o  forza  o  dimandar  perdono. 
Ei  duo  mi  trasformare  in  quel  eh'  i'  sono 
Facendomi  d'uom  vivo  un  lauro  verde, 
Che  per  fredda  stagion  foglia  non  perde. 
^  giovenil     ■*'  Facto     ^  anchor    *  che    ^  pareva    ®  al     '  già  mal 

Qual  mi  fec'  io   quando  primiera  m'  accorsi 
Della^  trasfigurata  mia  persona, 
E  i  capei  vidi  far  di  quella  fronde 
Di  che  sperato  avea  già  lor  corona, 
E  i  piedi  in  eh'  io  mi  stetti  e  mossi  e  corsi, 
(Com' ogni  membro  all' ^  anima  risponde)  6 

Diventar  due  radici  sovra  1'  onde. 
Non  di  Peneo,  ma  d'  un  più  altero  fiume, 
E  'n  duo   rami  mutarsi  ambe  le  braccia! 
Né  meno  ancor*    m'  agghiaccia 
L'  esser  coverto  poi  di  bianche  piume, 
Allor  che  fulminato"'  e  morto  giacque 
Il  mio  sperar,  che  troppo^   alto  montava. 
Che,  perch'  io  non  sapea  dove  né  quando 
Mei  ritrovassi,  ^  solo,   lagrimando, 
Là 've  tolto  mi  fu,  dì  e  notte  ^   andava 
Ricercando  dal  lato  e  dentro  all' ^  acque, 
E  giammai  '^  poi  la  mia  lingua  non  tacque, 
Mentre  poteo,  del  suo  cader  maligno; 
Ond'  io  presi  col  suon   color  d'  un  cigno. 

'  primer        -  De    la        '  al        ^  anchor        ^  folminato        "  tropp 
'ritrovasse    *^  nocte    ^  al    '"già  mai 

Così   lungo  r  amate  rive  andai, 

Che  volendo  parlar,  cantava  sempre, 
Mercé  chiamando  con  estrania  voce: 
Né  mai  in  sì  dolci  o  in  sì  soavi    tempre 
Risonar  seppi  gli  amorosi  guai, 


Rime.  37 

Che  '1  cor  s'  umiliasse  aspro  e   feroce.-  6 

Qual  fu  a  sentir,  che  '1  ricordar  mi  coce? 

Ma  molto  più  di   quel  eh'  è  per  innanzi,  ^ 

Della  ^  dolce  ed  acerba  mia  nemica 

È  bisogno  eh'  io  dica  ; 

Benché  sia  tal,  eh'  ogni  parlare   avanzi. 

Questa,  che  col  mirar  gli  animi  fura, 

M'  aperse  il  petto,  e  '1  cor  prese  con   mano. 

Dicendo  a  me:  di  ciò  non  far   parola. 

Poi  la  rividi  in  altro  abito  ^  sola. 

Tal  eh' i' non  la  conobbi    (o  senso  umano  1)^ 

Anzi  le  dissi  '1  ver,  pien  di   paura; 

Ed  ella  nell'^  usata  sua  figura 

Tosto  tornando,  fecemi,  oimè  lasso, 

D'uom,^  quasi  vivo  e  sbigottito  sasso. 

*  inanzi    ^  De  la    ^  habito    *  humano    ^  nel    ®  un 
Ella  parlava  sì  turbata   in  vista, 

Che  tremar  mi  fea  dentro  a  quella  petra, 

Udendo:   I'  non  son  forse  ehi  tu  credi. 

E  dicea  meco:  se  costei  mi  spetra 

Nulla  vita  mi  fia  noiosa  e^  trista: 

A  farmi  lagrimar,  signor  mio,    riedi.  6 

Come,  non  so;  pur  io  mossi  indi  i  piedi, 

Non  altrui  incolpando,  che  me  stesso. 

Mezzo,  tutto  quel  dì,  tra  vivo  e  morto. 

Ma  perchè  '1  tempo  è  corto, 

La  penna  al  buon  voler  non  può^  gir  presso; 

Onde  più  cose  nella  ^  mente  scritte 

Ve  trapassando,    e  sol  d'  alcune  parlo. 

Che  maraviglia^  fanno  a  ehi  1'  ascolta. 

Morte  mi  s'  era  intorno  al   core  avvolta;* 

Ne  tacendo  potea  di  sua  man  trarlo, 

O  dar  soccorso  alle  virtuti^   afflitte. 

Le  vive  voci  m'  eran  '  interdi tte  ; 

Ond'  io  gridai  con  carta  e  con  inchiostro  :  • 

Non  son  mio,  no  ;  s' io  moro,  il  danno  è  vostro. 

*  o    '^  pò     ^  ne  la     ■*  meraviglia    ^  avolta    ®  a  le  vertuti     '  erano 
*incostro 


36  Petrarca. 

Ben  mi  credes.  dinanzi  agli  occhi  suoi 
D'indegno  far  così  di  mercè  degno; 
E  questa  spene  m' avea  fatto  ardito. 
Ma  talor  umiltà^  spegne  disdegno, 
Talor  l'enfiamma;  e  ciò  sepp'io  dappoi,  ** 
Lunga  stagion  di  tenebre  vestito;  6 

Ch'  a  quei  preghi  il  mio  lume  era  sparito. 
Ed  io  non  ritrovando  intorno  intorno 
Ombra  di  lei,  né  pur  de'  suoi  piedi  orma; 
Com'uom'  che  tra  via  dorma, 
Gittaimi  stanco  sopra*  l'erba  un  giorno. 
Ivi,  accusando  il  fuggitivo^  raggio, 
Alle''  lagrime  triste  allargai  '1  freno, 
E  lasciaile  cader  come  a  lor  parve: 
Né  giammai  '  neve  sott'  ^  al  sol  disparve, 
Com'  io  sentii®  me  tutto  venir  meno, 
E  farmi  una  fontana  a  pie  d'un  faggio. 
Gran  tempo  umido  ^*^  tenni  quel  viaggio. 
Chi  udì  mai  d'uom  vero  nascer  fonte? 
E  parlo  cose  manifeste  e  conte. 

'  talora  humilta    ^  da  poi    ^  Come  huom    *  stanche  sovra    ^  fugi* 
tivo    ®  Aie     '  giamai    **  sotto    ®  senti    ^"  humido 

L'alma,  eh' è  sol  da  Dio  fatta ^  gentile, 

(Che  già  d'altrui  non  può-  venir  tal  grazia)^ 

Simile  al  suo  Fattor*  stato  ritene; 

Però  di  perdonar  mai  non  è  sazia  ^ 

A  chi  col  core  e  col  sembiante  umile,® 

Dopo  quantunque  offese  a  mercè  vene.  6 

E  se  centra  suo  stile  ella  sostene 

D'esser  molto  pregata,  in  lui  si  specchia» 

E  fai,  perchè '1  peccar  più  si  pavente; 

Che  non  ben  si  ripente 

Dell'  '  un  mal  chi  dell'  '  altro  s' apparecchia. 

Poi  che  Madonna,  da  pietà  commossa. 

Degnò  mirarmi,^  •  riconobbe  e  vide 


Rime.  39 

Gir  di  pari  la  pena  col  peccato, 

Benigna  mi  ridusse*^  al  primo  stato. 

Ma  nulla  è  aP^  mondo  in  ch'uom  saggio  si  fide: 

Ch' ancor  poi,  ripregando,  i  nervi  e  l'ossa 

Mi  volse  in  dura  selce;  e  così  scossa 

Voce  rimasi  dell' ^^  antiche  some, 

Chiamando  Morte  e  lei  sola  per  nome. 

'  facta    ^  pò     ^  gratia    *  factor    ^  sacia    ^  humile     '^  de  1    *  mi- 
rarme    "  redusse    ^^a'I     "de  1 

Spirto  doglioso,  errante  (mi  rimembra), 
Per  spelunche  deserte  e  pellegrine. 
Piansi  molt'anni  il  mio  sfrenato  ardire; 
Ed  ancor  ^  poi  trovai  di  quel  mal  fine, 
E  ritornai  nelle'  terrene  membra, 
Credo,  per  più  dolor ^  ivi  sentire.  6 

r  seguii*  tanto  avanti  il  mio  desire, 
Ch'  un  dì,  cacciando,  siccom'io-^  solea, 
Mi  mossi;  e  quella  fera  bella  e  cruda 
In  una  fonte  ignuda 
Si  stava,  quando  '1  sol  più  forte  ardea. 
Io,  perchè  d'altra  vista  non  m'appago, 
Stetti  a  mirarla,  ond'ella  ebbe  vergogna; 
E  per  farne  vendetta,  o  per  celarse. 
L'acqua  nel  viso  con*^  le  man  mi  sparse. 
Vero  dirò  (forse  e'  parrà  menzogna): 
Ch'i'  sentii"  trarmi  della  propria  immago;* 
Ed  in  un  cervo  solitario  e  vago 
Di  selva  in  selva,  ratto  mi  trasformo; 
Ed  ancor '^  de'  miei  can  fuggo  lo  stormo. 

^  anchor     "'  ne  le      ^  dolore      *  segui      ^  si  comio      ^  co      '  senti 
'^  de  la  pr.  imago    **  anchor 

Canzon,  i'  non  fu  mai  quel  nuvol  d'oro 
Che  poi  discese  in  preziosa'   pioggia. 
Sì  ch'I  foco  di  Giove  in  parte  spense; 
Ma  fui  ben  fiamma,  eh' un  bel  guardo  accense, 
E  fui  l'uccel  che  più  per  l'aere  poggia, 


40  Petrarca. 

Alzando  lei,  che  ne'  miei  detti  onoro. - 
Né  per  nova  figura  il  primo  alloro 
Seppi  lassar;  che  pur  la  sua  dolce  ombra 
Ogni  men  bel  piacer  del  cor  mi  sgombra. 

^  pretiosa    "  honoro 

SONETTO  XX  (Var.  arg.  III).  24 

Risponde  a  Stramazzo  da  Perugia,  che  lo  invitava  a  poetare. 

Se  l'onorata  fronde  che  prescrive 

L' ira  del  ciel  quando  '1  gran  Giove  tona, 
Non  m'avesse  disdetta  la  corona 
Che  suole  ornar  chi  poetando  scrive, 

r  era  amico  a  queste  vostre  Dive, 

Le  qua' vilmente  il  secolo  abbandona:^ 
Ma  quella  ingiuria  già  lunge  mi  sprona 
Dall' -  inventrice  delle '^  prime  olive; 

Che  non  bolle  la  polver  d'  Etiopia* 

Sotto  '1  più  ardente  Sol,  com'  io  sfavillo, 
Perdendo  tanto  amata  cosa  propia.^ 

Cercate  dunque  fonte  più  tranquillo; 
Che  '1  mio  d'ogni  liquor  sostene  inopia, 
Salvo  di  quel  che  lagrimando  stillo. 

*  abandona    '^  Dal    "  de  le    *  Ethiopia    ^  propria 

SONETTO  XXI  (Var.  arg.  IV).  25 

Si  consola  con  F amico  Boccaccio  di  vederlo  sciolto  dagl'  intrighi  amorosi. 

Amor  piangeva,  ed  io  con  lui  talvolta 
(Dal  qual  miei  passi  non  fur  mai  lontani) 
Mirando,  per  gli  effetti  ^  acerbi  e  strani, 
L'anima  vostra  de'  suoi  nodi  sciolta. 

Or  ch'ai  dritto  cammin  l'ha'^  Dio  rivolta, 
Col  cor  levando  al  cielo  ambe  le  mani 
Ringrazio '^  lui,  eh'  e'  giusti  preghi  umani* 
Benignamente,  sua  mercede,  ascolta. 


Rime.  41 

E  se  tornando  all' ^amorosa  vita, 

Per  farvi  al  bel  desio  volger  le  spalle, 
Trovaste  per  la  via  fossati  o  poggi, 

Fu  per  mostrar  quant'  ^  è  spinoso  calle, 
E  quanto  alpestra  e  dura  la  salita, 
Onde  al  vero  valor  conven  ch'uom  poggi. 

*  effecti     -  camin  la    ^  Ringratio     *  humani     ^  al    •*  quanto 

SONETTO  XXII  (Var.  arg.  V).  26 

Rallegrasi  che  il  Boccaccio  siasi  ravveduto  della  sua  vita  licenziosa. 

Più  di  me  lieta  non  si  vede  a  terra 
Nave  dall'  ^  onde  combattuta  e  vinta. 
Quando  la  gente  di  pietà  dipinta,^ 
Su  per  la  riva  a  ringraziar^  s'atterra; 

Né  lieto  più  del  career  si  disserra^ 

Chi  'ntorno  al  collo  ebbe  la  corda  avvinta,^ 
Di  me,  veggendo  quella  spada  scinta 
Che  fece  al  Signor^  mio  sì  lunga  guerra. 

E  tutti  voi  ch'Amor  laudate  in  rima, 

Al  buon  tester  degli  amorosi  detti 

Rendete  onor,  '  ch'era  smarrito  in  prima: 
Che  più  gloria  è  nel  regno  degli  eletti^ 

D'un  spirito  converso,  e  più  s'estima, 

Che  di  novantanove  altri  perfetti.'** 

^  da  1    -  depinta    *  ringratiar  *  diserra  '^  avinta  ^  segnor    '  honor 
•  electi    ^  perfecti 

SONETTO  XXIII  (Var.  arg.  VI).  27 

Ai  signori  d'  Italia,  onde  prendano  parte  nella  crociata  di  papa 
Giovanni  XXII. 

Il  successor  di  Carlo, ^  che  la  chioma 
Con 2  la  corona  del  suo  antico^  adorna. 
Prese  ha*  già  l'arme  per  fiaccar^  le  corna 
A  Babilonia,  e  chi  da  lei  si  noma; 


42  r-tr.n;-c^. 

E  M  vicario  di'^  Cristo,  con"  la  soma 

Delle*'  chiavi  e  del  manto,  al  nido  torna; 
Sì  che,  s'altro  accidente  noi  distorna, 
Vedrà  Bologna,  e  poi  la  nobil  Roma. 

La  mansueta  vostra  e  gentil  agna 

Abbatte  i  fieri  lupi:  e  così  vada 

Chiunque  amor  legittimo^  scompagna. 
Consolate  lei  dunque,  ch'ancor^*^  bada, 

E  Roma,  che  del  suo  sposo  si  lagna; 

E  per  Gesù^^  cingete  ornai  la  spada. 

'  Kario     ^  Co     '  antiquo     *  a    *  fiacchar    ^  de     '  colla    *  De  le 
"  legitimo     1"  chanchor     ^'  Ihesu 

CANZONE  II  (Var.  arg.  Canz.  I).  28 

A  Giacomo  Colonna,  perchè  secondi  P  impresa  del  re  di  Francia 
contro  gr  infedeli. 

O  aspettata^  in  ciel,  beata  e  bella 
Anima,  che  di  nostra  umanitade^ 
Vestita  vai,  non  come  l'altre  carca; 
Perchè  ti  sian  men  dure  omai  le  strade, 
A  Dio  diletta,"'  obediente  ancella, 
Onde  al  suo   regno  di  quaggiù*  si  varca,  6 

Ecco  novellamente  alla'*^  tua  barca, 
Ch'ai  cieco  mondo  ha"  già  volte  le  spalle 
Per  gir  a  miglior  porto. 
D'un  vento  occidental  dolce  conforto; 
Lo  qual  per  mezzo  questa  oscura  valle. 
Ove  piangiamo  il  nostro  e  l'altrui  torto, 
La  condurrà  de'  lacci  antichi  sciolta 
Per  drittissimo'  calle 
Al  verace  oriente,  ov'ella  è  volta. 

'  aspectata    •'  humanitade   '  dilecta    *  qua  giù    •■'  a  la    *  a    ^  dri- 
tissimo. 

Forse  i   devoti  e  gli  amorosi  preghi 
E  le  lagrime  sante'   de'  mortali 


Rime.  43 

Son  giunte  innanzi  alla®  pietà  superna; 

E  forse  non  fur  mai  tante  né  tali, 

Che  per  merito  lor  punto  si  pieghi 

Fuor  di^  suo  corso  la  giustizia*  eterna.  6 

Ma  quel  benigno  Re  che  '1  ciel  governa, 

Al  sacro  loco  ove  fu^  posto  in  croce, 

Gli  occhi  per  grazia^  gira; 

Onde  nel  petto  al  novo  Carlo'  spira 

La  vendetta,  ch'a  noi  tardata  noce. 

Sì  che  molt'anni  Europa  ne  sospira. 

Così  soccorre  alla*^  sua  amata  sposa; 

Tal  che  sol  della  ^  voce 

Fa  tremar  babilonia  e  star  pensosa. 

^  sancte     "  inanzi  a  la     ^  de    *  giustitia     *  f o     "^  gratia    '  Karlo 
a  la    '  de  la 

Chiunque  alberga  tra  Garonna^  e '1  monte 
E  'ntra  '1  Rodano  e  '1  Reno  e  l'onde  salse, 
Le 'nsegne  Cristianissime  accompagna; 
Ed  a  cui  mai  di  vero  pregio  calse 
Dal  Pireneo  all'^  ultimo  orizzonte,'* 
Con  Aragon  lassarà  vota  Ispagna:*  6 

Inghilterra  con  V  isole  che  bagna 
L'Oceano^  intra '1  Carro  e  le  Colonne 
Infin  là  dove  sona 
Dottrina^  del  santissimo'   Elicona, 
Varie  di  lingue  e  d'arme  e  delle  ^  gonne, 
All'  ^  alta  impresa  cantate  sprona. 
Deh^*^  qual  amor  sì  licito  o  sì  degno, 
Qua' figli  mai,   quai^'   donne 
Furon  materia  a  sì  giusto  disdegno? 

*  Garona     *  a  1     ^  orizonte    *  Hispagna    ^  Locceano    ®  Doctrinr 
'  sanctissimo    "  de  le    ®  A  1    ^^  De    "  qua 

Una  parte  del  mondo  è  che  si  giace 

Mai  sempre  in  ghiaccio  ed  in  gelate  nevi. 
Tutta  lontana  dal  cammin^   del  sole. 
Là,  sotto  i  giorni  nubilosi  e  brevi. 


44  Petrarca. 

Nemica  naturalmente  di  pace, 
Nasce  una  gente  a  cui  T^  morir  non  dola.  6 

Questa  se  più  devota  che  non  sole, 
Col  tedesco  furor  la  spada  cigne, 
Turchi,  Arabi  e  Caldei, 
Con  tutti  quei  che  speran  nelli  Dei 
Di  qua  dal  mar  che  fa  l'onde  sanguigne, 
Quanto  sian  da  prezzar,  conoscer  dei: 
Popolo  ignudo,  paventoso  e  lento. 
Che  ferro  mai  no  strigne. 
Ma  tutt'  i  colpi  suoi  commette  al  vento. 
^  camin     ^  il 

Dunque  ora  è '1  tempo  da  ritrarre^  il  collo 
Dal  giogo  antico,  e  da  squarciar^  il  velo 
Ch'è  stato  avvolto'^  intorno  agli  occhi  nostri; 
E  che'l  nobile  ingegno  che  dal  Cielo 
Per  grazia  tien  dell'^  immortale  Apollo, 
E  l'eloquenza^  sua  vertù  qui  mostri  6 

Or  con  la  lingua,  or  con*^  laudati  inchiostri:' 
Perchè  d'Orfeo^  leggendo  e  d'Anfione,^ 
Se  non  ti  maravigli,  ^^ 
Assai  men  fia  ch'Italia  co' suoi  figli 
Si  desti  al  suon  del  tuo  chiaro  sermone, 
Tanto  che  per  Gesù^^  la  lancia  pigH: 
Che,  s'al  ver  mira  questa  antica  ^^  madre, 
In  nulla  sua  tenzone^^ 
Pur  mai  cagion  sì  belle  e^*  sì  leggiadre. 

^  ritrare  -  squarciare  •''  avolto  *  gratia  tieni  de  1  ^  eloquentia 
^  co  '  incostri  **  Orpheo  ^  Amphione  '"  meravigli  ^^  Jhesu  ^"  an- 
ticha     *^  tentione     ^*  o 

Tu,  e' hai,  per  arricchir  d'un  bel  tesauro,^ 
Volte  l'antiche  e  le  moderne  carte. 
Volando  al  ciel  con  la^  terrena  soma; 
Sai,  dall' '^  imperio  del  figliuol  di"^  Marte 
Al  grande  Augusto,  che  di  verde  Lauro 
Tre  v»lte  trionfando"  ornò  la  chioma,  6 


Rime.  45 

Neil' ^altrui  ingiurie  del  suo  sangue  Roma 

Spesse  fiate  quanto  fu  cortese; 

Ed  or  perchè  non  fia, 

Cortese  no,  ma  conoscente  e  pia 

A  vendicar  le  dispietate  offese 

Col  figliuol  glorioso  di  Maria? 

Che  dunque  la  nemica  parte  spera 

Neil''  umane  difese, 

Se  Cristo  sta  dalla  ^  contraria  schiera? 

^  thesauro     ^  colla     ^  dal     *  de     ^  triumphando     "  Nel     '  Ne  ! 

«da  la 

Pon  mente  al  temerario  ardir  di  Serse,  ^ 
Che  fece,  per  calcar^  i  nostri  liti. 
Di  novi  ponti  oltraggio  alla"  marina: 
E  vedrai  nella'*  morte  de' mariti 
Tutte  vestite  a  brun  le  donne  Perse, 
E  tinto  in  rosso  il  mar  di  Salamina.  6 

E  non  pur  questa  misera  ruina 
Del  popolo  infelice  d'oriente 
Vittoria  ten"*  prom.ette, 
Ma  Maratona,*^  e  le  mortali  strette 
Che  difese  il  Leon  con  poca  gente, 
Ed  altre  mille  e'  hai  scoltate'  e  lette. 
Perchè  inchinar'^  a  Dio  molto  convene 
Le  ginocchia  e  la  mente, 
Che  gli  anni  tuoi  riserva  a  tanto  bene. 

^  Xerse    "•'  calcare    '  a  la     *  ne  la     ^  Victoria  tem     •"•  Marathona 
'  ohai  ascoltate    '^  inchinare 

Tu  vedrà' ^   Italia  e  l'onorata  riva, 

Canzon,  ch'agli  occhi  miei  cela  e  contende. 
Non  mar,  non  poggio  o  fiume, 
Ma  solo  Amor,  che  del  suo  altero  lume 
Più  m'invaghisce  dove  più  m'incende: 
Né  natura  può  star  contra  'l  costume. 


46  Petrarca. 

Or  movi;  non  smarrir  l'altre  compagne; 

Che  non  pur  sotto  bende 

Alberga  Amor,  per  cui  si  ride  e  piagne. 

^  vedrai 

CANZONE  III. 

Dìsputa  se  debba  lasciare  ramare  di  Laura  o  no. 

Verdi  panni,  sanguigni,  oscuri  o  persi 
Non  vestì  donna  unquanco,^ 
Ne  d'or  capelli  in  bionda  treccia  attorse. 
Sì  bella  come  questa  che  mi  spoglia 
D'arbitrio,  e  dal  cammin  di^  libertade 
Seco  mi  tira  sì,  eh'  io  non  sostegno 
Alcun  gio^o  men  grave. 

^  unquancho     ^  camin  de 

E  se  pur  s'  arma  talor  a  dolersi 
L'  anima,  a  cui  vien  manco  ^ 
Consiglio,  ove  '1  martir  l'adduce  in  forse; 
Rappella  lei  dalla '^  sfrenata  voglia 
Subito^  vista;  che  del  cor  mi  rade 
Ogni  delira  impresa,  ed  ogni  sdegno 
Fa  '1  veder  lei  soave. 

*  mancho    '  da  la    ^  Subita 

Di  quanto  per  amor  giammai^  soffersi, 
Ed  aggio  a  soffrir  anco^ 
Fin  che  mi  sani  '1  cor  colei  che  '1  morse, 
Rubella  di  mercè,  che  pur  1'  envoglia, 
Vendetta  fia;  sol  che  centra  umiltade'* 
Orgoglio  ed  ira  il  bel  passo  ond'io  vegno 
Non  chiuda  e  non  inchiave. 

*  giamai    *  ancho    *  humiltade 

Ma  r  ora  e  '1  giorno  eh'  io  le  luci  apersi 
Nel  bel  nero  e  nel  bianco* 
Che  mi  scacciar  di  là  dov"-^  Amor  corse. 


Rime.  47 

Novella  d'està  vita  che  m'addoglia 
Furon  radice,  e  quella  in  cui  l'etade 
Nostra  si  mira,  la  qual  piombo  o  legno 
Vedendo  è  chi  non  pavé. 

*  biancho     "  dove 

Lagrime  adunque^  che  dagli  occhi  versi 
Per  quelle  che  nel  manco ^ 
Lato  mi  bagna  chi  primier  s'  accorse, 
Quadrella,  del^  voler  mio  non  mi  svoglia; 
Che 'n  giusta  parte  la  sentenzia^  cade: 
Per  lei  sospira  1'  alma;  ed  ella  è  degno 
Che  le  sue  piaghe  lave. 

^  Lagrima  dunque    ^  mancho    '  dal    *  sententia 

Da  me  son  fatti  i  miei  pensier  diversi, 
Tal  già,  qual  io  mi  stanco,^ 
L'amata  spada  in  sé  stessa  contorse. 
Ne  quella  prego  che  però  mi  scioglia: 
Che  men  son  dritte  al  ciel  tutt'altre  strade, 
E  non  s'  aspira  al   glorioso  regno 
Certo  in  più  salda  nave. 

*  stanche 

Benigne  stelle  che  compagne  fersi 
Al  fortunato  fianco,^ 

Quando  '1  bel  parto  giù  nel  mondo  scorse! 
Ch'è  stella  in  terra,  e  come  in  lauro  foglia. 
Conserva  verde  il  pregio  d'onestade; 
Ove  non  spira  folgore,  né  indegno 
Vento  mai  che  1'  aggravo. 

*  fiancho 

So  io  ben  oh'  a  voler  chiuder  in  versi 
Sue*  laudi,  fora  stanco^ 
Chi  più  degna  la  mano  a  scriver  porse. 


48  Petrarca. 

Qual  cella  è  di  memoria  in  cui  s'  accoglia 
Quanta  vede  vertù.   quanta  beltade: 
Chi  gli  occhi  mira  d'  ogni  valor  segno, 
Dolce  del  mio  cor  chiave. 

*  Suo     -  stanche 

Quanto '1^  Sol  gira,  Amor  più  caro  pegno, 
Donna,  di  voi  non  ave. 

MI 

SESTINA  II.  30 

Propone  di  volere  sempre  amare  Laura,   ancorché  non  ne  speri  nulla. 

Giovane^  donna  sott'un^  verde  lauro 
Vidi,  più  bianca"  e  più  fredda  che  neve 
Non  percossa  dal  Sol  molti  e  molt'  anni; 
E  '1  suo  parlar*  e  '1  bel  viso  e  le  chiome 
Mi  piacquen  sì,  eh' i' 1' ho-''  dinanzi  agli  occhi 
Ed  avrò  sempre,  ov'io  sia,  in  poggio  o  'n  riva. 

Allor  saranno  i  miei  pensieri  a  riva, 
Che  foglia  verde  non  si  trovi  in  lauro: 
Quand'avrò  queto  il  cor,**  asciutti  gli  occhi, 
Vedrem  ghiacciar'  il  foco,  arder  la  neve. 
Non  ho^  tanti  capelli  in  queste  chiome, 
Quanti  vorrei  quel  giorno  attender  anni. 

Ma  perchè  vola  il  tempo  e  fuggon  gli  anni. 
Sì  ch'alia'-'  morte  in  un  punto  s'arriva, 
O  con  le^^  brune  o  con  le  bianche  chiome; 
Seguirò  r  ombra  di  quel  dolce  lauro 
Per  lo  più  ardente  sole  e  per  la  neve, 
Fin  che  1'  ultimo  dì  chiuda  quest'  occhi. 

Non  fur  giammai  veduti  sì  begli  occhi 
O  nella '^  nostra  etade  o  ne' prim' anni, 
Che  mi  struggon  cosi  come  '1  Sol  neve: 


«o 


Rime.  49 

Onde  procede  lagrimosa  riva, 
Ch'amor  conduce  a  pie  del  duro  lauro, 
C'ha  1  rami  di  diamante,  e  d'or  le  chiome. 

r  temo  di  cangiar  pria  volto  e  chiome, 
Che  con  vera  pietà  mi  mostri  gli  occhi 
L'idolo  mio  scolpito  in  vivo  lauro; 
Che,  s'al  contar  non  erro,  oggi  ha^-  sett'anni 
Che  sospirando  vo  di  riva  in  riva 
La  notte  e '1  giorno,  al  caldo  ed  alla'-'  neve. 

Dentro  pur  foco,  e  for  candida  neve. 
Sol  con  questi  pensier,  con  altre  chiome, 
Sempre  piangendo  andrò  per  ogni  riva. 
Per  far  forse  pietà  venir  negli  occhi 
Di  tal  che  nascerà  dopo  mill'anni; 
Se  tanto  viver  può  ^*  ben  culto  ^''  Lauro 

L'auro  e  i  topazj^'^  al  Sol  sopra  la  neve 
Vincon  le  bionde  chiome  presso  agli  occhi 
Che  menan  gli  anni  miei  sì  tosto  a  riva. 

Giovene    ~  sotto  un   "'  biancha  *  parlare   ^  o  *"'  core    '  ghiacciare 
^ala    Incoile     "  ne  la     '-a     '^  a  la    ^'^  pò    >«  colto    "=  topacij 


SONETTO  XXIV.      "  31 

Essendo  Laura  pericolosamente  inferma,  egli  si  consola  considerando  il 
felice  sialo  di  lei  dopo  la  morte. 

Quest'^  anima  gentil,  che  si  diparte, 
Anzi  tempo  chiamata  all'-  altra  vita. 
Se  lassuso  è,  quant'^'  esser  de',    gradita., 
Terrà  del  ciel  la  più  beata  parte. 

S'ella  riman  fra  '1  terzo  lume  e  Marte, 
Fia  la  vista  del  Sole  scolorita; 
Poich'  a  mirar  sua  bellezza  infinita 
L'anime  degne  intorno  a  lei  fien  sparte. 
Bibl.  rom.  12,15.  4 


50  Petrarca. 

Se  si  posasse  sotto  '1*  quarto  nido, 
Ciascuna  delle  ^  tre  saria  men  bella, 
Ed  essa  sola  avria  la  fama  e  '1  grido. 

Nel  quinto  giro  non  abitrebb'"  ella; 
Ma  se  vola  più  alto,  assai  mi  fido, 
Che  con  Giove  sia  vinta  ogni  altra  stella. 
'  Questa    '^  a  1     •'  quanto    *  al    ■''  de  le    *'  habitarebbe 

SONETTO  XXV.  32 

•fon  attende  pace,  ne  disinganno  dei  suo  amore,  se  non  che  dalla  morte. 

Quanto  più  m'  avvicino^  al  giorno  estremo, - 
Che  r  umana  miseria  suol  far  breve, 
Più  veggio  'P  tempo  andar  veloce  e  leve, 
E  '1  mio  di  lui  sperar  fallace  e  scemo. 

r  dico  a' miei  pensieri*  non  molto   andremo 
D'amor  parlando  omai,  che  '1  duro  e  greve 
Terreno  incarco,  come  fresca^  neve, 
Si  va  struggendo;  onde  noi  pace  avremo: 

Perchè  con^  lui  cadrà  quella  speranza 
Che  ne  fé  vaneggiar  sì  lungamente, 
E  '1  riso  e  '1  pianto  e  la  paura  e  V  ira. 

Sì  vedrem  chiaro  poi  come  sovente 
Per  le  cose  dubbiose  altri  s'  avanza, 
E  come  spesso  indarno  si  sospira. 
^  avicino    ^.  extremo    *  il    ■*  pensieri    ^  frescha    "  col 

SONETTO  XXVI.  33 

Laura  inferma  gli  apparisce  in  sogno,  e  lo  assicura  ch'ella  ancor  vive.[ 

Già  fiammeggiava  1'  amorosa  stella 
Per  r  oriente,  e  1'  altra,  che  Giunone 
Suol  far  gelosa,  nel  settentrione^ 
Rotava  i  raggi  suoi  lucente  e  bella: 

Levata  era  a  filar  la  vecchierella,  * 

Discinta  e  scalza,  e  desto  avea '1  carbone; 
E  gli  amanti  pungea  quella  stagione 
Che  per  usanza  a  lagrimar  gli  appella: 


Rime.  51 

Quando  mia  speme,  già  condotta^  al  verde, 
Giunse  nel  cor,  non  per  1'  usata  via, 
Che '1  sonno  tenea  chiusa,  e '1  dolor  molle; 

Quanto  cangiata,  oimè,  da  quel  di  pria! 
E  parea  dir:  perchè  tuo  valor  perde? 
Veder  questi*  occhi  ancor^  non  ti  si  tolle. 

'  septentrione    *  vecchiarella    ^  condutta    *  quest    ^  anchor 

SONETTO  XXVII.  34 

Prega  Apollo  di  sovvenire  Laura,  come  Dio  della  medicina,  come  Sole 
e  come  amante  dell'albero  consacrato  a  lui  ed  al  Sole. 

Apollo,  s' ancor  ^  vive  il  bel  desìo 

Che  t'infiammava  alle  tessaliche^  onde, 
E  se  non  hai^  l'amate  chiome  bionde, 
Volgendo  gli  anni,  già  poste  in  obblio;* 

Dal  pigro  gelo^  e  dal  tempo  aspro  e  rio. 
Che  dura  quanto  '1  tuo  viso  s'asconde. 
Difendi  or  l'onorata  e  sacra  fronde. 
Ove  tu  prima,  e  poi   fu'  invescat'  io  ;  ^ 

E  per  virtù  dell'  '  amorosa  speme 
Che  ti  sostenne  nella*  vita  acerba, 
Di  queste  impressione  l'aere  disgombra. 

Sì  vedrem  poi  per  maraviglia  insieme^** 
Seder  la  Donna  nostra  sopra  1'  erba 
E  far  delle  ^^  sue  braccia  a  se  stess'^^  ombra. 

^  anchor   "  thesaliche    'ai    *  oblio    ^  gielo    '  invescato  io    '  vertu 
de  1    •*  ne  la    •  impressioni     ^"^  meraviglia  inseme    ^*  de  le    ^*  stessa 

SO  TETTO  XXVIII.  35 

Vive   nei  luoghi  solitari  per  non  iscoprire  l'amore  portato  da  lui    a 
Laura,  ma  ha  sempre  amore  in  sua  compagnia. 

Solo  e  pensoso  1  più  deserti  campi 
Vo  misurando^  a  passi  tardi  e  lenti; 
E  gli  occhi  porto,  per  fuggir*  intenti, 
Dove^  vestigio  uman*  l'arena  stampi. 


52  P«1  l'arca. 

Altro  scliermo  non   trovo  che  mi  scampi 
Dal  manifesto  accorger  delle^  genti; 
Perchè  negli  atti  d'  allegrezza**  spenti 
Di  fuor  si  legge  com'  io  dentro  avvampi.  " 

Sì  eh'  io  mi  credo  ornai  che  monti  e  piagge 
E  fiumi  e  selve  sappian  di  che  tempre 
Sia  la  mia  vita,  ch'è  celata  altrui 

Ma  pur  sì  aspre  vie  ne  sì  selvagge 

Cercar  non  so,  ch'Amor  non  venga  sempre 
Ragionando  con  meco,  ed  io  con   lui.^ 

'  mesurando     ^  fuggire     ^  Ove     *  human     ^  de  le     •"'  dalegrezza 
'  avampi     **  collui 

SONETTO  XXIX.  36 

Desidera  che  Amore  o  infermità  l'aggravi  tanto  che  ne  muoia,  e  rende 
ragione,  perchè  egli  con  le  sue  mani  non  succida. 

S'  io  credessi^  per  morte  essere  scarco 
Del  pensieri  amoroso  che  m'atterra, 
Con  le^  mie  mani  avrei  già  posto  in  terra 
Queste  membra  noiose  e  quello  incarco. 

Ma  perch'io  temo  che  sarebbe'^  un  varco 

Di  pianto  in  pianto  e  d'una  in  altra  guerra, 
Di  qua  dal  passo  ancor'*  che  mi  si   serra, 
Mezzo  rimango,   lasso,  e  mezzo  il  varco. 

Tempo  ben  fora  omai  d'avere  spinto 
L'ultimo  strai®  la  dispietata  corda, 
Neil''  altrui  sangue  già  bagnato  e  tinto. 

Ed  io  ne  prego  Amore,  e  quella  sorda. 
Che  mi  lassò  de'  suoi  color  dipinto,** 
E  di  chiamarmi  a  se  non  le  ricorda. 

'  credesse      *  pensiero      '  Colle      *  sarrebbe      "'  anchor      "  strale 
'  Ne  1     "  depinto 


Rime. 


I         53 


CANZONE  IV.  37 

Si   duole  d'esser  lontano   da   Laura,   e  dubita  per  la  fuga  degli  anni 
2  l'umana  fragilità  di'  prima  morire  che  gli  sia  dato  di  rivederla. 
Si  è  debile  il  filo  a  cui  s'  altane 
La  gravosa  mia  vita, 
Che,  s'  altri  non  1'  aita, 
Ella  fia  tosto  di  suo  corso  a  riva: 
Però  che  dopo  l'empia  dipartita 
Che  dal  dolce  mio  bene 
Feci,  sol  una  spene 

È  stato  infin  a  qui  cagion  eh'  io  viva;  8 

Dicendo:  Perchè  priva 
Sia  dell'  ^  amata  vista, 
Mantienti,  anima  trista. 
Che  sai  s'  a  miglior  tempo  anco^  ritorni 
Ed  a  più  lieti  giorni? 
O  se  '1  perduto  ben  mai  si  racquista? 
Questa  speranza  mi  sostenne  un  tempo: 
Or  vien  mancando,  e  troppo  in  lei  rn'  attempo. 
'  de  1     -  ancho 
Il  tempo  passa,  e  1'  ore  son  sì  pronte 
A  fornir^  il  viaggio, 
Ch'  assai  spazio"^  non  aggio 
Pur  a  pensar  com'  io  corro  alla^  morte. 
Appena*  spunta  in  Oriente  un  raggio 
Di  Sol,  eh'  all'  5  altro  monte 
Dell'avverso  orizzonte^ 

Giunto '1'  vedrai  per  vie  lunghe  e  distorte.         8 
Le  vite  son  sì  corte, 
Sì  gravi  i  corpi  e  frali 
Degli  uomini  mortali, 
Che  quand'  ^  io  mi  ritrovo  dal  bel  viso 
Cotanto  esser  diviso, 
Col  desio  non  possendo  mover  1'  ali, 
Poco  m'  avanza  del  conforto  usato, 
Né  so  quant'  io  mi  viva  in  questo  stato. 

^  fornire    ^  spacio    "  a  la    ■'a  pena    ^  al    ^  De  ladverso  origonte 
il*    *  quando 


54  Petrarca. 

Ogni  loco  m'  attrista,  '  ov'  io  non  veggio 
Oue''^  b^li  occhi  soavi 
Che  portaron  le  chiavi 

De'  miei  dolci  pensier,  mentr'  a  Dio  piacque. 
E  perchè '1  duro  esilio"'  più  m'aggravi, 
S'  io  dormo  o  vado  o  seggio 
Altro  giammai*  non  chieggio,'' 
E  ciò  eh'  i'  vidi  dopo  lor  mi  spiacque  8 

Quante  montagne  ed  acque, 
Quanto  mar,  quanti  fiumi 
M'ascondon  que'  duo  lumi. 
Che  quasi  un  bel  sereno  a  mezzo  '1    die 
Per  le  tenebre  mie. 

Acciocché*' 'I  rimembrar  più  mi  consumi; 
E  quant''  era  mia  vita  allor  gioiosa, 
M' insegni  la  presente  aspra  e  noiosa. 

'  atrista     '  Quei      '  exilio     ^  già  mai      ''  cheggio     ®  A   ciò   chv 
'  quanto 

Lasso,  se  ragionando  si  rinfresca 
Queir  ^  ardente  desio 
Che  nacque  il  giorno  eh'  io 
Lassai  di  me  la  miglior  parte  addietro;' 
E  s'Amor  se  ne  va  per  lungo  obblìo;'"^ 
Chi  mi  conduce  all'  *  esca 
Onde  '1  mio  dolor  cresca? 

E  perchè  pria,  tacendo,  non  m'impetro?  8 

Certo,  cristallo  o  vetro 
Non  mostrò  mai  di  fore 
Nascosto  altro  colore. 
Che  r  alma  sconsolata  assai  non  mostri 
Più  chiari  i  pensier  nostri, 
E  la  fera  dolcezza  eh'  è  nel  core. 
Per  gli  occhi,  che  di  sempre  pianger  vaghi 
Cercan   dì  e  notte'"*  pur  chi  glien'^  appaghi. 

'  Quel     "  a  dietro     *  oblio    •*  a  1     ■"'  nocte     ''  ^Ipin 


Rime.  55 

Novo  piacer  che  negli  umani  ingegni 
Spesse  volte  si  trova, 
D'  amar  qual  cosa  nova 
Più  folta  schiera  di  sospiri  acccglial 
Ed  io  son  un  di  quei  che '1  pianger  giova; 
E  par  ben  eh'  io  m'  ingegni 
Che  di  lagrime  pregni 

Sien  gli  occhi  miei,  siccome^  '1  cor  di  doglia;     8 
E  perchè  a  ciò'^  m'invoglia 
Ragionar  de'  begli  occhi, 
(Ne  cosa  è  che  mi  tocchi, 
O  sentir  mi  si  faccia  così  addentro),  ^ 
Corro  spesso  e  rientro 
Colà,  donde  più  largo  il  duci  trabocchi, 
E  sien  col  cor  punite  ambe  le  luci, 
Ch'alia*  strada  d'Amor  mi  furon  duci. 

*  si  come    '  accio     '*  a  dentro    *  a  la 

Le  trecce^  d'  or,  che  devrien  far  il  Sole 
D'invidia  molta  ir  pieno; 
E  '1  bel  guardo  sereno. 
Ove  i  raggi  d'Amor  sì  caldi  sono. 
Che  mi  fanno  anzi  tempo  venir  meno, 
E  r  accorte  parole. 
Rade  nel  mondo  o  sole. 

Che  mi  fer  già  di  se  cortese  dono,  8 

Mi  son  tolte:   e  perdono 
Più  lieve  ogni  altra  offesa, 
Che  l'essermi  contesa 
Quella  benigna  angelica  salute, 
Che'l  mio  cor  a  virtute^ 
Destar  solea  con  una  voglia  accesa: 
Tal  ch'io  non  penso  udir  cosa  giammai^ 
Che  mi  conforte  ad  altro  eh' a  trar  guai. 

^  treccie     -  vertute     '  già  mai 


56  Petrarca. 

E  per  pianger  ancor^  con  più  diletto. 
Le  man  bianche  sottili 
E  le  braccia  gentili, 
E  gli  atti  suoi  soavemente  alteri, 
E  i  dolci  sdegni  alteramente  umili,  ^ 
E  '1  bel  giovenil  petto 
Torre  d' alto  intelletto,  ^ 

Mi  celan  questi  luoghi  alpestri  e  feri;  8 

E  non  so  s'io  mi  speri 
Vederla  anzi  eh'  io  mora; 
Però  eh' ad  ora  ad  ora 
S'erge  la  speme,  e  poi  non  sa  star  ferma: 
Ma  ricadendo  afferma 
Di  mai  non  veder  lei  che'l  Ciel  onora,' 
Ove*^  alberga  onestate^'  e  cortesia, 
E  dov'  io  prego  che  '1  mio  albergo  sia. 
•  anchor     -  humili     ^  intellecto    *  honora     "'  Ov    ®  honestate 

Canzon.  s'al  dolce  loco 
La  Donna  nostra  vedi, 
Credo  ben  che  tu  credi 
Ch'  ella  ti  porgerà  la  bella  mano, 
Ond'io  son  sì  lontano. 
Non  la  toccar;^  ma  reverente  a'-  piedi 
Le  di'  ch'io  sarò  là  tosto  ch'io  possa, 
0  spirto  ignudo,  od  uom  di  carne  e  d'ossa. 
'  tocchar     -  ai 

SONETTO  XXX.  38 

Scrive,  ad  Orso,  dolendosi  d'un  velo,  del  chinar  della  fronte  e  della  man 
di  Laura  che  gV  impediscono  la  vista  degli  occhi  di  lei. 

Orso,  e'  non  furon  mai  fiumi,  né  stagni. 
Ne  mare,  ov'  ogni  rivo  si  disgombra. 
Né  di  muro  o  di  poggio  o  di  ramo  ombra, 
Né  nebbia,  che  '1  ciel  copra,  e  '1  mondo  bagni. 

Né  altro  impedimento,  ond'io  mi  lagni. 
Qualunque  più  l'umana  vista  ingombra, 
Quanto    d' un   vel   che  due  begli  occhi  adombra, 
E  par  che  dica;  Or  ti  consuma  e  piagni. 


Rime.  57 

E  quel  lor  inchinar,  ch'ogni  mia  gioia 
Spegne,  o  per  umiltate^  o  per  orgoglio,^ 
Cagion  sarà  che  'nanzi  tempo  i'  moia. 

E  d'una  bianca^  mano  anco*  mi  dogHo, 
Ch'è  stata  sempre  accorta  a  farmi  noia, 
E  centra  gli  occhi  miei  s'è  fatta  scoglio. 

*  humilitade     ^  argoglio     "  biancha    *  ancho 

SONETTO  XXXI.  39 

Dfce  che  se  si  muove  tardi  a  veder  Laura,  non  procede  da  poco  amo/e, 
ma   da  deliberato  consiglio  di  non  incontrare  gli  occhi  turbati  di  lei. 

Io  temo  sì  de' begli  occhi  l'assalto, 

Ne'  quali  Amore  e  la  mia  morte  alberga, 

Ch'i' fuggo  lor  come  fanciul  la  verga; 

E  gran  tempo  è  ch'io^  presi 'P  primier  salto. 

Da  ora  innanzi"  faticoso  od  alto 

Loco  non  fia,  dove'l  voler  non  s'erga, 

Per  non*  scontrar  chi  i  miei''  sensi  disperga, 

Lassando,  come  suol,  me  freddo  smalto. 

Dunque,  s'a  veder  voi  tardo  mi  volsi. 
Per  non  ravvicinarmi  a  chi  mi  strugge. 
Fallir  forse  non  fu  di  scusa  indegno. 

Più  dico,  che'l  tornare  a  quel  ch'uom  fugge, 
E  '1  cor  che  di  paura  tanta  sciolsi, 
Pur  della ^  fede  mia  non  leggier  pegno. 

M     *  il     ^  inangi     *  no     ^  chi  miei     ®  de  la 

SONETTO  XXXII  (Var.  arg.  VII).         40 

Prega  un  amico  a  volergli  imprestare  le  opere  dei  Padre  Sanie  Agostino. 

S' Amore  o  Morte  non  dà  qualche  stroppio 
AUa^  tela  novella  ch'ora  ordisco, 
E  s'io  mi  svolvo  dal  tenace  visco, 
Mentre  che  l'un  con-  l'altro  vero  accoppio; 


53  Petrarca. 

r  farò  forse  un  mio  lavor  sì  doppio 

Tra  lo  stil  de'  moderni  e  '1  sermon  prisco. 
Che  (paventosamente  a  dirlo  ardisco) 
Infin  a  Roma  n'udirai  lo  scoppio. 

Ma  però  che  mi  manca,"  a  fornir  l'opra, 
Alquanto  delle*  fila  benedette. 
Ch'avanzare  a  quel  mio  diletto •"*  padre. 
Perchè  tien  verso  me  le  man  sì  strette 

Centra  tua  usanza?  i'  prego  che  tu  l'opra, 
E  vedrai  riuscir  cose  leggiadre. 
^  A  la    '^  col     '  mancha    *  de  le    "  dilecto 

SONETTO  XXXIII.  41 

Quando  Laura   park,   il  cielo  tosto  si  oscura,  ed  insorgono  le  procelle. 

Quando  dal  proprio  sitò  si  rimove 

L'arbor  ch'amò  già  Febo^  in  corpo  umano, "^ 
Sospira  e  suda  all'  ^  opera  Vulcano, 
Per  rinfrescar  l'aspre  saette  a  Giove; 

Il  quale  or  tona,  or  nevica'^  ed  or  piove, 
Senza  onorar^  più  Cesare  che  Giano; 
La  terra  piagne,  ^  e  '1  Sol  ci  sta  lontano 
Che  la  sua  cara  amica  vede'^  altrove. 

AUor  riprende  ardir  Saturno  e  Marte, 
Crudeli  stelle;  ed  Orione  armato 
Spezza  a'  tristi  nocchier  governi  e  sarte. 

Eolo  a  Nettuno^  ed  a  Giunon  turbato 
Fa  sentire,  ed  a  noi,  come  si  parte 
Il  bel  viso  dagli  angeli  aspettato.^ 

^  phebo     -  humano     "al     ^  nevicha     ''  honorar     *^  piange     '  ved 
^  neptuno    '*  aspectato 

SONETTO  XXXIV.  42 

Air  iter  Yxo  di  Laura,  si  rasserena  il  cielo,  e  si  ricompone  in  placida  calma. 
Ma  poi  che  '1  dolce  riso  umile  ^  e  piano 
Più  non  asconde  sue  bellezze  nove, 
Le  braccia  alla-  fucina  indarno  move 
L'  antichissimo"'  fabbro  siciliano;"* 


Rime.  59 

Ch'  a  Giove  tolte  son  V  arme  di  mano 
Temprate  in  Mongibello  a  tutte  prove: 
E  sua  sorella  par  che  si  rinnove'» 
Nel  bel  guardo  d'  Apollo  a  mano  a  mano. 

Del  lito  Occidental  si  move  un  fiato 
Che  fa  securo  il  navigar  senz'  arte 
E  desta  i  fior  tra  1'  erba  in  ciascun  prato. 
Stelle  noiose  fuggon  d'  ogni  parte, 
Disperse  dal  bel  viso  innamorato,^ 
Per  cui  lagrime  molte  son  già  sparte. 
'  humile    -  a  la    •'  antiquissimo    *  ciciliano    '''  rinove    "  inamorato 

SONETTO  XXXV.  43 

Infintantochè  Laura  è  assente,  il  cielo  rimane  sempre  torbido  ed  oscuro. 

Il  figliuol  di  Latona  avea  già  nove 
Volte  guardato  dal  balcon  sovrano 
Per  quella  eh'  alcun  tempo  mosse  in  vano 
I  suoi  sospiri,  ed  or  gli  altrui  commove. 

Poi  che  cercando  stanco  non  seppe  ove 
S'  albergasse,  da  presso  o  di  lontano  ; 
Mostrossi  a  noi  qual  uom^  per  doglia  insano, 
Che  molto  amata  cosa  non  ritrove. 

E  così  tristo  standosi  in  disparte, 
Tornar  non  vide  il  viso  che  laudato 
Sarà,  s' io  vivo,  in  più  di  mille  carte. 

E  pietà  lui  medesmo  avea  cangiato, 
Sì  che  i  begli-  occhi  lagrimavan  parte: 
Però  r  aere  ritenne  il   primo  stato. 
^  huom     -'  che  begli 

SONETTO  XXXVI.  44 

Alcuni  piansero  i  loro  stessi  nemici;  ed  ella  quando  ei  muore  di  lei, 
nonché  lo  degni  di  una  lagrima,  lo  guarda  con  dispetto  e  con  ir  /. 

Quel  eh'  in  Tessaglia'   ebbe  le  man  sì  pronte 
A  farla  del  civil  sangue  verm.iglia. 
Pianse  morto  il  marito  di  sua  figlia. 
Raffigurato  alle"  fattezze   conte; 


60  Petrarca. 

E  '1  pastor  eh'  a  Golia  ruppe  la  fronte, 
Pianse  la  ribellante  sua  famiglia, 
E  sopra  '1  buon  Saul  cangiò  le  ciglia, 
Ond'  assai  può  dolersi  il  fiero  monte. 

Ma  voi.  che  mai  pietà  non  discolora, 
E  eh'  avete  gli  schermi  sempre  accorti 
Centra  l'arco  d'Amor,  che 'ndarno  tira, 

Mi  vedete  straziare  a  mille  morti; 
Né  lagrima  però  discese  ancora^ 
Da'  be'  vostr'  occhi;  ma  disdegno  ed  ira. 
'  Oue  chentesaglia    '  a  le    '  anchora 

SONETTO  XXXVII.  45 

Si  lamenta  che  ella  specchiandosi,  innamoratasi  di  sé  stessa,  gode  senza 
cuyarsi  d'altro.   Cerca  di  rimoverlane  coli'esempio  della  fine  di  Narciso. 

Il  mio  avversario,^  in  cui  veder  solete 

Gli  occhi  vostri,  eh'  Amore  e  '1  Ciel  onora,  '^ 
Con  ^  le  non  sue  bellezze  v'  innamora. 
Più  che  'n  guisa  mortai  soavi  e  liete. 

Far  consiglio  di  lui.  Donna,  m'  avete 
Scacciato  del  mio  dolce  albergo  fora; 
Misero  esilio!  avvegnach' io  non-^  fora 
D'  abitar  degno  ove  voi  sola  siete. 

Ma  s'  io  v'  era  con  saldi  chiovi  fisso, 

Non  devea  specchio  farvi  per  mio  danno, 
A  voi  stessa  piacendo,  aspra  e  superba. 

Certo,  se  vi  rimembra  di  Nareisso, 

Questo  e  quel  corso  ad  un  termine  vanno: 
Benché  di  sì  bel  fior  sia  indegna  1'  erba. 
'  adversario    ^  honora    ^  Col    *  exilio  avegna  chi  non 

SONETTO  XXXVIII.  46 

L'adornarsi  che  Laura  faceva,  e  massime  il  suo  specchiarsi,  innamoran- 
dola sempre  più  di  sé  stessa  e  insuperbendola,  nocevano  al  poeta. 

L'  oro  e  le  perle,  e  i  fior  vermigli  e  i  bianchi. 
Che  '1  verno  devria  far  languidi  e  secchi, 
Son  per  me  acerbi  e  velenosi  stecchi, 
Ch'  io  provo  per  lo  petto  e  per  \\  fianchi. 


Rime.  61 

Però  i  dì  miei  fien  lagrimosi  e  manchi; 

Che  gran  duol  rade  volte  avvien  ^  che  'nvecchi  : 
Ma  più  ne'ncolpo-  i  micidiali  specchi, 
Che  'n  vagheggiar  voi  stessa  avete  stanchi. 

Questi  poser  silenzio^  al  signor  mio, 
Che  per  me  vi  pregava;  ond'  ei  si  tacque 
Veggendo  in  voi  finir  vostro  desio. 

Questi  fur*  fabbricati  sopra  1'  acque 
D'abisso,  e  tinti  nell''^  eterno  obblio;'' 
Onde  '1  principio  di  mia  morte  nacque. 
'  aven    *  necolpo     ^  silentio    *  fuor    ^  nel    ^  oblio 

SONETTO  XXXIX.  47 

Dice  di  esserle  passato  davanti,  perchè  ricevendo  virtù   da  lei  vi  è  stato 
sforzato   per  vivere,  e  che,  se  non  vorrà  morire,  sarà  costretto  a  tornarvi, 

r^sentia  dentr' al  cor  già  venir  meno 
Gli  spirti-  che  da  voi  ricevon  vita; 
E,  perchè  naturalmente  s'  aita 
Centra  la  morte  ogni  animai  terreno, 

Largai '1  desio,  eh' i' tengo''*  or  molto  a  freno. 
E  misil  per  la  via  quasi  smarrita; 
Però  che  dì  e  notte  indi  m' invita. 
Ed  io  centra  sua  voglia  altronde  '1  meno. 

E,  mi  condusse  vergognoso  e  tardo 
A  riveder  gli  occhi  leggiadri,  ond'  io. 
Per  non  esser  lor  grave,  assai  mi  guardo. 

Vivrommi  un  tempo  omai,  eh'  al  viver  mio 
Tanta  virtù  te  ha*  sol  un  vostro  sguardo; 
E  poi  morrò,  s' io  non  credo  al  desio. 
*  Io    ^  spiriti     ^  teng    *  a 

SONETTO  XL.  48 

Si  maraviglia  il  Poeta  come  l'amor  suo,  per  troppa  veemenza,  si  rimanga 
quasi  stupido  e  inetto  a  tentar  cosa  alcuna  per  conseguire  il  suo  intento. 

Se  mai  foco  per  foco  non  si  spense, 

Né  fiume  fu  giammai^  secco  per  pioggia; 

Ma  sempre  1"  un  per  1'  altro  simil  poggia, 

E  spesso  r  un  contrario  T  altro  accense; 


62  Petrarca. 

Amor,  tu  eh'  i-  pensier  nostri  dispense, 

Al  qual  un'  alma  in  duo  corpi  s'  appoggia. 

Perchè  fa'^  in  lei  con  disusata  foggia 

Men,  per  molto  voler,  le  voglie  intense? 
Forse,  siccome 'H  Nil,  d'alto  caggendo, 

Col  gran  suono  i  vicin'^  d'intorno  assorda; 

E '1  Sol*^  abbaglia  chi  ben  fiso  il'  guarda; 
Così  '1  desio,  che  seco  non  s'  accorda, 

Nello '^  sfrenato  obbietto^  vien  perdendo; 

E  per  troppo  spronar  la  fuga  è  tarda. 
^  già  mai     *  che     ^  fai    *  sì  cornei     *  vicini    •*  sole     '1     ^  Ne  lo 
obiecto 

SONETTO  XLI.  49 

Alla  presenza  di  Laura  non  può  più  parlare,  né  piangere,  né  sospirare. 

Perch'  io  t'  abbia  guardato  di  menzogna 
A  mio  podere,  ed  onorato^  assai. 
Ingrata  lingua,  già  però  non  m'  hai* 
Renduto  onor,  ^  ma  fatto'*  ira  e  vergogna: 

Che  quando  più  '1  tuo  aiuto  mi  bisogna 
Per  dimandar  mercede,  allor  ti  stai 
Sempre  più  fredda;  e  se  parole  fai. 
Sono  imperfette,^  e  quasi  d' uom  che  sogna. 

Lagrime  triste,  e  voi  tutte  le  notti 

M'accompagnate,  ov' io  vorrei  star  solo; 
Poi  fuggite  dinanzi  alla*^  mia  pace. 

E  voi  sì  pronti  a  darmi  angoscia  e  duolo, 

Sospiri,  allor  traete  lenti  e  rotti. 

Sola  la  vista  mia  del  cor  non  tace. 

^  honorato    *''  mai     ^  Rendduto  honor    *  facto    '  Son  imperfecte 
«  a  la 

CANZONE  V.  50 

Per  comparazione  d'una  vecchia  peregrina,  d'un  zappatore,  d'un  pastore,  ds* 
naviganti  e  de'  buoi,  mostra  il  suo  stato  essere  oltremodo  misero,  quando 
essi,  almeno  di  notte,  si  riposano,  laddove  egli  né  di  né  notte  trova  quiete. 

Nella  ^  stagion  che  '1  ciel  rapido  inchina 

Verso  occidente,  e  che  '1  dì  nostro  vola 

A  gente  che  di  là  forse  1'  aspetta; 

Veggendosi  in  lontan  paese  sola, 


Rime.  63 

La  stanca  vecchierella'^  pellegrina 

Raddoppia  i  passi,  e  più  e  più  s'  affretta;  6 

E  poi  così  soletta, 

Al  fin  di  sua  giornata 

Talora  è  consolata 

D'  alcun  breve  riposo,  ov'  ella  obblia^ 

La  noia  e  '1  mal  della '^  passata  via. 

Ma,  lasso,  ogni  dolor  che  '1  dì  m'  adduce. 

Cresce,  qualor  s' invia 

Per  partirsi  da  noi  1'  eterna  luce. 

Ne  la    '^  stancha  vecchiarella    ^  oblia    ^  de  la 

Come  '1  Sol  volge  le  'nfiammate  rote 

Per  dar  luogo  allrJ   notte,  onde  discende 

Dagli  altissimi  monti  maggior  l'ombra, 

L'  avaro  zappador  V  arme  riprende, 

E  con  parole  e  con  alpestri  note 

Ogni  gravezza^  del  suo  petto  sgombra;  6 

E  poi  la  mensa  ingombra 

Di  povere  vivande, 

Simili  a  quelle  ghiande 

Le  qua'  fuggendo  tutto  '1  mondo  onora.  * 

Ma  chi  vuol,  si  rallegri  ad  ora  ad  ora; 

Ch' i' pur  non  ebbi  ancor,  ^  non  dirò  lieta, 

Ma  riposata  un'  ora'^ 

Ne  per  volger  di  ciel  né  di  pianeta. 

a  la    ^  gravega    *  honora    *  anchor    *  bora 

Quando  vede  '1  pastor  calare  i  raggi 
Del  gran  pianeta  al  nido  ov'egli  alberga, 
E'mbrunir^  le  contrade  d'oriente, 
Drizzasi  in  piedi,  e  con^  l'usata  verga, 
Lassando  l'erba  e  le  fontane  e  i  faggi, 
Move  la  schiera  sua  soavemente;  6 

Poi^  lontan  dalla "^  gente, 
O  casetta  o  spelonco^ 
Di  verdi  frondi  ingiunca:* 


-  '^■. 


64  Petrarca. 

Ivi  senza  pensier  s'adagia  e  donne. 
Ahi,'  crudo  Amor,  ma  tu  allor  più  m' informe 
A  seguir  d'  una  fera  che  mi  strugge 
La  voce  e  i  passi  e  l'orme, 
E  lei  non  stringi,  che  s'appiatta  e  fugge. 
'  Enbrunir     "  co     "'  Più     '*  da  la     '*  spelunca     "  ingiuncha     '  Ai 

E  i  naviganti  in  qualche  chiusa  valle 

Gettan  le  membra  poi  che '1  Sol  s'asconde, 

Sul  duro  legno  e  sotto  1'  '  aspre  gonne. 

Ma  io,  perchè  s'attuffi  in  mezzo  l'onde, 

E  lassi   Ispagna-  dietro  alle'*^  sue  spalle, 

E   Granata  e  Marocco^  e  le  Colonne,  6 

E  gli  uomini  e  le  donne 

E  '1  mondo  e  gli  animali 

Acquetino^  i  lor  mali; 

Fine  non  pongo  al  mio  ostinato'^  affanno: 

E  ducimi  ch'ogni  giorno  arroge  al  danno: 

Oh'  i'  son  già,  pur  crescendo  in  questa  voglia, 

Ben  presso  al  decim'anno. 

Né  posso  ^  indovinar  chi  me  ne  scioglia. 

'  ai    '  lasci  hispagna  ^    a  le  *   Marroccho   ^  Aquetino   *  obstinato 
poss 

E,  perchè  un  poco  nel  parlar  mi  sfogo. 

Veggio  la  sera  i  buoi  tornare  sciolti 

Dalle  ^  campagne  e  da'  solcati  colli. 

I  miei  sospiri  a  me  perchè  non  tolti 

Quando  che  sia?  perchè  no  '1  grave  giogo? 

Perchè  dì  e  notte  gli  occhi  miei  son  molli? 

Misero  me!  che  volli, 

Quando  primier  sì  fiso 

Gli  tenni  nel  bel  viso, 

Per  iscolpirlo,  immaginando,'-'  in  parte 

Onde  mai  né  per  forza  né  per  arte 

Mosso  sarà,  fin  eh'  i'  sia  dato  in  preda 

A  chi  tutto  diparte? 

Né  so  ben  anco^  che  di  lei  mi  creda. 

'  Da  le     '^  imaginando     "  ancho 


Rime.  65 

Canzon,  se  1'  esser  meco 
Dal  mattino  alla^  sera 
T'  ha^  fatto  di  mia  schiera, 
Tu  non  vorrai  mostrarti  in  ciascun  loco; 
E  d'  altrui  loda  curerai  sì  poco, 
Ch'assai  ti  fia  pensar  di  poggio  in  poggio 
Come  m'ha'^  concio '1  foco 
Di  questa  viva  petra  ov'io  m'appoggio. 

^  matino  a  la    '•'  Ta     ^  a 

SONETTO  XLII.  51 

Dice  che  se  Laura  sdegnata  gli  si  avvicinava  un  poco,  egli  diveniva  un 
sasso,  e  si  duole  che  ciò  non  sia  avvenuto,  perchè  sarebbe  fuori  d'affanno. 

Poco  era  ad  appressarsi  agli  occhi  miei 
La  luce  che  da  lunge  gli  abbarbaglia. 
Che,  come  vide  lei  cangiar  Tessaglia,^ 
Così  cangiato  ogni  mia  forma  avrei. 

E  s'io  non  posso  trasformarmi'-^*  in  lei 

Più  ch'i'  mi  sia  (non  ch'a  mercè  mi  vaglia), 
Di  qual  pietra-''  più  rigida  s' intaglia, 
Pensoso  nella ^  vista  oggi  sarei; 

Ó  di  diamante,  o  d'un  bel  marmo  bianco-'' 
Per  la  paura  forse,  o  d' un  diaspro, 
Pregiato  poi  dal  vulgo  avaro  e  sciocco.*' 

E  saria ^  fuor  del  grave  giogo  ed  aspro; 

Per  cu'i'  ho^  invidia  di  quel  vecchio  stanco^ 

Che  fa  con^*^  le  sue  spalle  ombra  a  Marrocco.^^ 

^  Thesaglia   -  transformarmi  "  petra  '^  ne  la   ^  bianche   ^  sciocche 
''sarei     **  cui  io    "stanche     "^  co     '^  marroccho 

MADRIGALE  I.  52 

Solo  al  vederla  bagnare  un  velo  spasimava  d' amore. 

Non  al  suo  amante  più  Diana  piacque, 
Quando  per  tal  ventura  tutta  ignuda 
La  vide  in  mezzo  delle'   gelid'  acque; 
Ch'a  me  la  pastorella  alpestre^  e  cruda, 
Bibl.  rom.  12/15  5 


66  Petrarca. 

Posta  a  bagnar  un  leggiadretto  velo, 
Ch'a  l'aura  il  vago  e  biondo  capei  chiuda; 
Tal  che  mi  fece  or,  quand'  egli  arde  il^  cielo, 
Tutto  tremar  d'  un  amoroso  gelo.* 

'  de  le     •*  alpestra     *  1    *  gielo 

CANZONE  VI  (Var.  arg.  II).  53 

A  cola  da  Rienzo,  pregandolo  di'  restituire  a  Roma  Fantica  sua  libertà. 

Spirto  gentil  che  quelle  membra  reggi 
Dentro  alle^  qua' peregrinando  alberga 
Un  signor  valoroso,  accorto  e  saggio; 
Poi  che  se' giunto  all'-  onorata  verga 
Con  la"  qual  Roma  e  suoi  erranti   correggi, 
E  la  richiami  al  suo  antico '^  viaggio; 
Io  parlo  a  te,  però  ch'altrove  un  raggio 
Non  veggio  di  vertù,  ch'ai  mondo  è  spenta, 
Ne  trovo  chi  di  mal  far  si  vergogni. 
Che  s'aspetti  non  so,  né  che  s'agogni 
Italia,  che  suoi  guai  non  par  che  senta, 
Vecchia,  oziosa^  e  lenta. 
Dormirà  sempre  e  non  fia  chi  la  svegli? 
Le  man  l'avess'io  avvolte**  entro  capegli, 

'  a  le    ■■*  a  1    '  Colla    *  antiquo    '  otiosa    •  avolto 

Non  spero  che  giammai^  dal  pigro  sonno 
Mova  la  testa,  per  chiamar  ch'uom  faccia; 
Sì  gravemente  è  oppressa  e  di  tal  soma. 
Ma  non  senza  destino  alle^  tue  braccia, 
Che  scuoter  forte  e  sollevarla  ponno, 
È  or  commesso  il  nostro  capo  Roma. 
Pon  man  in  quella  venerabil  chioma 
Securamente  e  nelle ^  trecce^  sparte. 
Sì  che  la  neghittosa  esca  del  fango, 
r,  che  dì  e  notte  del  suo  strazio  piango. 
Di  mia  speranza  ho^  in  te  la  maggior  parte: 
Che  se  '1  popol  di  Marte 


Rime.  67 

Dovesse®  al  proprio  onor'  alzar  mai  gli  occhi, 
Farmi  pur  eh'  a'  tuoi  dì  la  grazia*^  tocchi. 

^  giamai      ^  a  la      ^  ne  la     *  treccia      ^  o     *  Devesse     '  honore 
'  gratia 

L'antiche  mura  ch'ancor^  teme  ed  ama, 
E  trema  '1  mondo,  quando  si  rimembra 
Del  tempo  andato  e 'ndietro  si  rivolve; 
E  i  sassi  dove  fur  chiuse  le  membra 
Di  ta'  che  non  saranno  senza  fama, 
Se  l'universo  pria  non  si  dissolve;  6 

E  tutto  quel  ch'una  ruina  involve, 
Per  te  spera  saldar  ogni  suo  vizio.  ^ 
O  grandi  Scipioni,  o  fedel  Bruto, 
Quanto  v'aggrada,  se  gli  è  ancor '^  venuto 
Romor  laggiù*  del  ben  locato  offizio!'' 
Come  ere'  che  Fabbrizio^ 
Si  faccia  lieto  udendo  la  novella, 
E  dice:  Roma  mia  sarà  ancor'  bella. 

1  anchor    ^  vitto    *  anchor    *  la  giù    '  officio    "  fabritio    '  anchor 

E  se  cosa  di  qua  nel  ciel  si  cura, 
L'anime  che  lassù  son  cittadine,^ 
Ed  hanno  ^  i  corpi  abbandonati '^  in  terra, 
Del  lungo  odio  civil  ti  pregan  fine, 
Per  cui  la  gente  ben  non  s'assecura. 
Onde  '1  cammin*  a'  lor  tetti ^  si  serra;  6 

Che  fur  già  sì  devoti,  ed  ora  in  guerra 
Quasi  spelunca  di  ladron  son  fatti, 
Tal  eh' a' buon  solamente  uscio  si  chiude; 
E  tra  gli  altari,  e  tra  le  statue  ignude 
Ogn'  ®  impresa  crudel  par  che  si  tratti. 
Deh'  quanto  diversi  atti! 
Ne  senza  squille  s'incomincia'^  assalto, 
Che  per  Dio  ringraziar^  fur  poste  in  alto. 

1  citadine     -  anno    *  abandonatì     *  camin    •*  tecti     ®  Ogni     '  De 
*  incommincia    **  ringraciar 


Petrarca. 

Le  donne  lagrimose,  e  M  vulgo  inerme 
Della  ^  tenera  etate,  e  i  vecchi  stanchi, 
C  hanno  se  in  odio  e  la  soverchia  vita, 
E  i  neri  fraticelli  e  i  bigi  e  i  bianchi, 
Con  2  l'altre  schiere  travagliate  e 'nferme, 
Gridan:  o  signor  nostro,  aita,  aita; 
E  la  povera  gente  sbigottita 
Ti  scopre  le  sue  piaghe  a  mille  a  mille, 
Ch'Annibale,^  non  ch'altri,  farian  pio. 
E  se  ben  guardi  alla'*  magion  di  Dio. 
Ch'arde  oggi  tutta,  assai  poche  faville 
Spegnendo,  fien  tranquille 
Le  voglie,  che  si  mostran  sì  'nfiammate, 
Onde  fien  l'opre  tue  nel  ciel  laudate. 

'  De  la    *  Col     »  anibale    *  a  la 

Orsi,  lupi,  leoni,  aquile  e  serpi 
Ad  una  gran  marmorea  colonna^ 
Fanno  noia  sovente,  ed  a  se  danno. 
Di  costor  piagne^  quella  gentil  donna, 
Che  t'ha'^  chiamato,  acciocché*  di  lei  sterpi 
Le  male  piante,  che  fiorir  non  sanno. 
Passato  è  già  più  che  '1  millesim'  ^  anno 
Che  'n  lei  mancar  quell'anime  leggiadre 
Che  locata  l'avean  là  dov'ell'era. 
Ahi^  nova  gente  oltra  misura  altera, 
Irreverente  a  tanta  ed  a  tal  madre I 
Tu  marito,  tu  padre; 
Ogni  soccorso  di  tua  man  s'attende; 
Che  '1  maggior  padre  ad  altr'opera  intende. 

'  colonna    "^  piange     '  ta    *  acio  che    ^  nnillesimo    •*  Ai 

Rade  volte  adivien  ch'ali'  ^   alte  imprese 
Fortuna  ingiuriosa  non  contrasti. 
Ch'agli  animosi  fatti  mal  s'accorda. 
Ora  sgombrando  '1  passo  onde  tu  intrasti, 
Fammisi-  perdonar  molt'altre  offese. 


Rime.  59 

Ch'almen  qui  da  se  stessa  si  discorda:  6 

Però  che,  quanto  '1  mondo  sì  ricorda, 

Ad  uom^  mortai  non  fu  aperta  la  via 

Per  farsi,  come  a  te,  di  fama  eterno; 

Che  puoi  drizzar,  s'i'non  falso  discerno. 

In  stato  la  più  nobil  monarchia. 

Quanta  gloria  ti  fia 

E3ir:  gli  altri  l'aitar  giovine"*  e  forte; 

Questi  in  vecchiezza  la  scampò  da  morte! 

*  adiven  chal     ^  Famisi     ^  huom     *  giovene 

Sopra  '1  monte  Tarpeo,  ^  Canzon,  vedrai 
Un  cavalier  ch'ItaUa  tutta  onora,'' 
Pensoso  più  d'altrui  che  di  se  stesso. 
Digh:  un  che  non  ti  vide  ancor ^  da  presso, 
Se  non  come  per  fama  uom^  s'innamora. 
Dice  che  Roma  ogni  ora, 
Con  gli  occhi  di  dolor  bagnati  e  molli. 
Ti  chier  mercè  da  tutti  sette  i  colli. 

1  Tarpeio    ^  honora    ^  anchor    *  huom 


MADRIGALE  II.  54 

Vede  i  pericoli  del  suo  amore  e  pel  momento  se  ne  ritrae. 

^erch'  al  viso  d'  Amor  portava  insegna, 
Mosse  una  pellegrina  il  mio  cor  vano; 
Ch'ogni  altra  mi  parea  d'onor  men  degna. 

E  lei  seguendo  su  per  1'  erbe  verdi, 
Udii^  dir  alta  voce  di  lontano: 
Ahi'''  quanti  passi  per  la  selva  perdi  1 

Allor  mi  strinsi  all'ombra"  d'un  bel  faggio. 
Tutto  pensoso;  e  rimirando  intorno. 
Vidi  assai  periglioso  il  mio  viaggio; 
E  tornai 'ndietro"*  quasi  a  mezzo  il^  giorno. 

,    *  Vdi     -  Ai    *  a  lombra    ■*  in  dietro     ^  1 


70  Petrarca. 

BALLATA  III.  55 

gyedeua  d'esser  libero  d'amore,  e  conosce  d'esservisi  sempre  più  rinvescaio. 

Quel  foco  ch'io^  pensai  che  fosse  spento 
Dal  freddo  tempo  e  dall' ^  età  men  fresca, 
Fiamma  e  martir  nell'^  anima  rinfresca. 

Non  fur  mai  tutte  spente,  a  quel  ch'i' veggio, 
Ma  ricoperte  alquanto  le  faville; 
E  temo  no  '1  secondo  error  sia  peggio. 
Per  lagrime,  eh'  io^  spargo  a  mille  a  mille, 
Conven  che  '1  duol  per  gli  occhi  si  distille 
Dal  cor,  c'ha  seco  le  faville  e  l'esca; 
Non  pur  qual  fu,  ma  pare  a  me  che  cresca. 

Qual  foco  non  avrian  già  spento  e  morto 
L'onde  che  gli  occhi  tristi  versan  sempre? 
Amor  (avvegna*  mi  sia  tardi  accorto) 
Vuol^  che  tra  duo  contrari  mi  distempre; 
E  tende  lacci  in  sì  diverse  tempre^ 
Che  quand'ho'  più  speranza  che'l  cor  n'esca, 
Allor  più  nel  bel  viso  mi  rinvesca. 

1  chi    '-^  da  1    3  nel    *  chi     ''  avegna    ®  Voi     '  quando 

SONETTO  XLIII.  56 

Si  duole  di  non  veder  Laura  ad  una  certa  ora,  secondo  ch'ella  gli 
avea  promesso. 

Se  col  cieco  desir,  che'l  cor  distrugge, 
Contando  1'  ore  non  m' ingann'  ^  io  stesso, 
Ora,  mentre  eh'  io  parlo,  il  tempo  fugge 
Ch'  a  me  fu  insieme'  ed  a  mercè   promesso. 

Qual  ombra  è  sì  crudel  che  '1  seme  adugge 
Ch'ai  desiato'^  frutto  era  sì  presso? 
E  dentro  dal  mio  ovil  qual  fera  rugge? 
Tra  la  spiga  e  la  man  qual  muro  è  messo? 

Lasso,  noi  so;  ma  sì  conosco  io  bene 
Che  per  far  più  dogliosa  la  mia  vita. 
Amor  m'addusse  in  sì  gioiosa  spene. 


Rime  71 

Ed  or  di  quel  eh' i' ho  letto*  mi  sovvene;* 
Che  innanzi®  al  dì  dell"  ultinna  partita 
Uom^  beato  chiamar  non  si  convene. 

^  inganno     ^  inseme     ^  disiato     *  chio   lecto     ^  sovene     ®  nanzi 
de  la    *  huom 

SONETTO  XLIV.  57 

ispera  d'esser  mai  trattato  bene  da  Laura;  le  sue  grazie  o  non  vengono 
ai,   0  tardi;  presto   si  dileguano;  e  dopo  tanto  amaro   non  riescono 
pili  grate. 

Mie  venture  al  venir  son  tarde  e  pigre, 

La  speme  incerta,  e  '1  desir  monta  e  cresce, 
Onde '1  lassar  e  Taspettar^  m'incresce; 
E  poi  al  partir  son  più  levi  che  tigre. 

Lasso,  le  nevi  fien  tepide  e  nigre, 

E  '1  mar  senz'  onda,  e  per  1'  alpe  ogni  pesce  ; 
E  corcherassi  '1^  Sol  là  oltre  ond'  esce 
D'un  medesimo  fonte  Eufrate  e  Tigre; 

Prima  eh'  i'  trovi  in  ciò  pace  né  tregua,  ^ 

O  Amor'^  o  Madonna  altr'uso  impari; 

Che  m'hanno^  congiurato  a  torto  incontra: 
E  s' i'  ho®  alcun  dolce,  è  dopo  tanti  amari, 

Che  per  disdegno  il  gusto  si  dilegua. 

Altro  mai  di  lor  grazie'  non  m'incontra. 

*  el  lassare  et  laspectar    ^  il    ^  triegua    *  amore    ^  manne    *  sic 
gratie 

SONETTO  XLV  (Var.  arg.  Vili).  58 

l  messer  Agapito,  pregandolo  di  ricevere  in  sua  memoria  alcuni  piccoli 

doni. 

La  guancia,  che  fu  già  piangendo  stanca,^ 
Riposate  su  l'un,  Signor  mio  caro; 
E  siate  omai'-^  di  voi  stesso  più  avaro 
A  quel  crudel  che  suoi  seguaci  imbianca.** 

Con^  r  altro  richiudete  da  man  manca ^ 
La  strada  a'  messi  suoi,  ch'indi  passare, 
Mostrandovi  un  d'agosto  e  di   gennaro;** 
Perch'  alla'  lunga  via  tempo  ne  manca.* 


72 


Petrarca. 


E  col  terzo  bevete  un  suco  d'erba 

Che  purghe  ogni  pensier  che  '1  cor  afflige, 
Dolce  alla^  fine  e  nel  principio  acerba. 
Me  riponete  ove'l  piacer  si  serba 

Tal  eh' i' non  tema  del  nocchier   di  Stige; 
Se  la  preghiera  mia  non  è  superba. 
'  stancha    ^  ormai    ^  imbiancha    *  Col    ■*  mancha    «  genaro    '  a  la 
**  mancha    ^  a  la 

BALLATA  IV.  59 

La  ama  sempre  sebbene  ella  gli  neghi  la  vista  delle  chiome  e  degli  occhi, 
origine  del  suo  amore. 

Perchè  quel  che  mi  trasse  ad  amar  prima, 

Altrui  colpa  mi  teglia. 

Del  mio  fermo  voler  già  non  mi  svoglia 
Tra  le  chiome  dell'^  or  nascose  il  laccio 

Al  qual  mi  strinse,  Amore; 

E  da'  begli  occhi  mosse  il  freddo  ghiaccio 

Che  mi  passò  nel  core 

Con  la  virtù  -  d'  un  subito  splendore, 

Che  d'  ogni  altra  sua  voglia, 

Sol  rimembrando,  ancor^  l'anima  spoglia. 
Tolta  m'  è  poi  di  que'  biondi  capelli, 

Lasso,  la  dolce  vista; 

E '1  volger  di*  duo  lumi  onesti^  e  belli 

Col  suo  fuggir  m'attrista: 

Ma  perchè  ben  morendo  onor"   s'  acquista, 

Per  morte  né  per  doglia 

Non  vo'  che  da  tal  nodo  Amor  mi  scioglia. 
'  del    "^  vertu    ^  anchor    *  de    *  honesti    ^  honor 

SONETTO  XLVI.  60 

Non  abbia  più  privilegi  quel  Lauro,   che  di  dolce  e  gentile  gli  si  fece 

spietato. 

L'arbor  gentil  che  forte  amai  molt'  anni. 
Mentre  i  bei  rami  non  m'  ebber  a  sdegno. 
Fiorir  faceva  il  mio  debile  ingegno 
Alla^  sua  ombra,  e  crescer  negli  affanni. 


Rime.  73 

Poi  che,  securo  me  di  tali  inganni.' 
Fece  di  dolce  se  spietato  legno, 
r  rivolsi  i  pensier  tutti  ad  un  segno, 
Che  parlan  sempre  de'  lor  tristi  danni. 

Che  porà  dir  chi  per  Amor  sospira, 
S'altra  speranza  le  mie  rime  nove 
Gli  avessero  data,  e  per  costei  la  perde? 

Ne  poeta  ne  colga  mai,  né  Giove 
La  privilegi;  ed  al  Sol  venga  in  ira 
Tal  che  si  secchi  ogni  sua  foglia  verde. 
^  A  la     -  avessir 

SONETTO  XLVII.  61 

Benedice  tutto  ciò  che  fu  cagione  od  effetto  del  suo  amore  verso  di  lei. 

Benedetto  sia  '1  giorno  e  '1  mese  e  l'anno 
E  la  stagione  e  '1  tempo  e  1'  ora  e  '1  punto 
E  '1  bel  paese  e  '1  loco  ov'  io  fui  giunto 
Da  duo  begli  occhi,  che  legato  m'hanno:^ 

E  benedetto  il  primo  dolce  affanno 

Ch'  i'  ebbi  ad  esser  con  Amor  congiunto, 
E  r  arco  e  le  saette  ond'  io'^  fui   punto 
E  le  piaghe  ch'infin^  al  cor  mi  vanno. 

Benedette  le  voci  tante  eh'  io, 

Chiamando  il  nome  di^  mia  Donna,    ho'^  sparte, 

E  1  sospiri  e  le  lagrime  e '1  desio; 
E  benedette  sien  tutte  le  carte 

Ov'io  fama  le^  acquisto,  e  '1  pensier  mio, 

Ch' è  sol  di  lei,  sì  ch'altra  non  v'ha*^  parte. 

^  manno     ^  ondi     ^  chenfln     *  de     ^  o    "1     'va 

SONETTO  XLVIII.  62 

Avvedutosi  delle  sue  follie,  prega  Dio  che  lo  torni  ad  una  vita  migliore. 

Padre  del  ciel,  dopo  i  perduti  giorni, 
Dopo  le  notti  vaneggiando  spese 
Con  quel  fero  desìo  eh'  al  cor  s'  accese 
Mirando  gli  atti  per  mio  mal  si  adorni; 


74 


Petrarca. 

Piacciati  ornai,  col  tuo  lume,  ch'io  torni  , 

Ad  altra  vita  ed  a  più  belle  imprese;  ( 

Sì  ch'avendo  le  reti  indarno  tese, 

11  mio  duro  avversario^  se  ne  scorni. 
Or  volge.  Signor  mio,  1'  undecima  anno 

Ch'  i'  fui  sommesso  al  dispietato  giogo, 

Che  sopra  i  più  soggetti  è  più  feroce. 
Miserere  del  mio  non  degno  affanno; 

Riduci-^  i  pensier  vaghi  a  miglior  luogo; 

Rammenta-^  lor  com' oggi  fosti ^  in  croce. 
>  adversario    '  undecimo    '  Reduci    '  Ramenta    '  come  oggi  fusti 

BALLATA  V.  63 

Pyova  che  la  sua  vita  è  nelle  mani  di  Laura,  da  che  potè  dargliela 
con  un  saluto. 
Volgendo  gli  occhi  al  mio  novo  colore, 
Che  fa  di  morte  rimembrar  la  gente. 
Pietà  vi  mosse;  onde,  benignamente 
Salutando,  teneste  in  vita  il  core. 
La  frale  ^  vita  eh' ancor  meco  alberga. 
Fu  de'  begli  occhi  vostri  aperto  dono 
E  della"^  voce  angelica  soave. 
Da  lor  conosco  l'esser  ov' io  sono; 
Che,  come  suol  pigro  animai  per  verga, 
Così  destaro  in  me  1'  anima  grave. 
Del  mio  cor,  Donna,  1'  una  e  1'  altra  chiave 
Avete  in  mano;  e  di  ciò  son  contento. 
Presto  di  navigar  =^  a  ciascun  vento; 
Ch'ogni  cosa  da  voi  m' è  dolce  onore. 
'  fraile     -  de  la    '  navigare     '  honore 

SONETTO  XLIX.  .64 

Consiilia  Laura  a  non  voler  odiare  Quel  cuore,  dond' ella  non  può  più 

uscire. 

Se  voi  poteste  per  turbati  segni. 

Per  chinar  gli  occhi  o  per  piegar ^  la  testa, 
O  per  esser  più  d'  altra  al  fuggir  presta. 
Torcendo  'l  viso  a'  preghi  onesti*  e  degni. 


Rimo.  75 

Uscir  giammai,  ovver^  per  altri  ingegni, 
Del  petto,  ove  dal  primo  lauro  innesta 
Amor  più  rami;  i'  direi  ben  che  questa 
Fosse  giusta  cagione  a'  vostri  sdegni  ; 

Che  gentil  pianta  in  arido  terreno 
Par  che  si  disconvenga;  e  però  lieta 
Naturalmente  quindi  si  diparte. 

Ma  poi  vostro  destino  a  voi  pur  vieta 
L'esser  altrove,  provvedete*  almeno 
Di  non  star  sempre  in  odiosa  parte. 

*  pieghar    "  honesti    ''  giamai  over    *  provedete 

SONETTO  L.  65 

Dispera  di  poter  lasciar  mai  l'amore  di  Laura  o  di  sminuirlo  ma  dice 
esser  da  tentare  che  Laura  ami. 

Lasso,  che  mal  accorto  fui  da  prima 
Nel  giorno  eh'  a  ferir  mi  venne  Amore, 
Ch'  a  passo  a  passo  è  poi  fatto  signore 
Della^  mia  vita,  e  posto  in  suUa^  cima! 

Io  non  credea,  per  forza  di  sua  lima, 
Che  punto  di  fermezza  o  di  valore 
Mancasse  mai  nell'"  indurato  core: 
Ma  così  va  chi  sopra  '1  ver  s'  estima. 

Da  ora  innanzi'^  ogni  difesa  è  tarda 
Altra,  che  di  provar  s'  assai  o  poco, 
Questi  preghi  mortali  Amore  sguarda. 

Non  prego  già,  né  puote  aver  più  loco, 
Che  misuratamente'''  il  mio  cor  arda; 
Ma  che  sua  parte  abbia ^  costei  del  foco. 

1  De  la    ^  su  la     ''  ne  1    *  inangi    ^  mesuratamente    **  abbi 

SESTINA  IIL  66 

Rassomiglia  Laura  all'inverno,  e  prevede  che  così  cruda  gli  sarà  sempre. 

L'aere  gravato,  e  l'importuna  nebbia 
Compressa  intorno  da  rabbiosi  venti. 
Tosto  conven  che  si  converta  in  pioggia; 


76  P©trarca 

E  già  son  quasi  di  cristallo  i  fiumi; 
E 'n  vece  dell' ^  erbetta,  per  le  valli 
Non  si^  ved'  altro  che  pruine  e  ghiaccio. 

Ed  io  nel  cor  via  più  freddo  che  ghiaccio, 
Ho^  di  gravi  pensier  tal  una  nebbia. 
Qual  si  leva  talor  di  queste  valli 
Serrate  incontr'^  a  gli  amorosi  venti 
E  circondate^  di  stagnanti  fiumi, 
Quando  cade  dal  ciel  più  lenta  pioggia. 

In  picciol  tempo  passa  ogni  gran  pioggia; 
E  '1  caldo  fa  sparir  le  nevi  e  '1  ghiaccio. 
Di  che  vanno  superbi  in  vista  i  fiumi; 
Né  mai  nascose  il  ciel  sì  folta  nebbia, 
Che  sopraggiunta  dal  furor  de'®  venti 
Non  fuggisse  dai  poggi  e  dalle'  valli. 

Ma,  lasso,  a  me  non  vai  fiorir  di^  valli; 
Anzi  piango  al  sereno  ed  alla*  pioggia, 
Ed  a' gelati  ed  ai^^'  soavi  venti; 
Ch'  allor  fia  un  dì  Madonna  senza  '1  ghiaccio 
Dentro  e  di  for  senza  l'usata  nebbia, 
Ch' i' vedrò  secco  il  mare  e  laghi  e^^  fiumi. 

Mentre  ch'ai  mar  discenderanno^'^  i  fiumi, 
E  le  fere^**  ameranno  ombrose  valli, 
Fia  dinanzi  a'  begli  occhi  quella  nebbia, 
Che  fa  nascer  de'^^  miei  continua  pioggia; 
E  nel  bel  petto  l'indurato  ghiaccio, 
Che  trae^*  del  mio  sì  dolorosi  venti. 

Ben  debb'^^  io  perdonare  a  tutt'  i  venti 
Per  amor  d'un  che  'n  mezzo  di  duo  fiumi 
Mi  chiuse  tra '1  bel  verde  e '1  dolce  ghiaccio; 
Tai^'  eh' i' dipinsi  ^^  poi  per  mille  valli 
L'^®  ombra,  ov'  io  fui  ;  che  né  caler  né  pioggia, 
Né  suon  curava  di  spezzata  nebbia. 


Rime.  77 

Ma  non  fuggìo  giammai^  nebbia  per  venti 
Come  quel  dì,  né  mai  fiume^^  per  pioggia, 
Né  ghiaccio,  quando  '1  Sol  apre  le  valli. 

^  de  1  2  se  3  0  *  incontra  ^  circundate  ^  di  '  da  le  ^  de 
9  a  la  1»  a  "  ei  ^^  descenderanno  ^^  fiere  ^*  di  ^^  ij-a  i»  debbo 
17  Xal    1*  depensi     ^'  Le    ^o  gjamai     21  fiumi 

SONETTO  LI.  67 

Essendo  in  Toscana  ai  Ilio  del  mare,  volendo  veder  da  presso  un  alloro, 

cadde  in  un  rio;  e  prega  che  se  si  bagnarono  i  piedi,  gli  si  asciughino 

gli  occhi  dal  pianto. 

Del  mar  tirreno  alla^  sinistra  riva, 
Dove  rotte  dal  vento  piangon  l'onde, 
Subito  vidi  queir^  altera  fronde 
Di  cui  conven  che  'n  tante  carte  scriva. 

Amor,  che  dentro  all'^  anima  bolliva, 
Per  rimembranza  delle  trecce^  bionde 
Mi  spinse;  onde  in  un  rio  che  l'erba  asconde 
Caddi,  non  già  come  persona  viva. 

Solo,  ov'  io  era  tra  boschetti  e  colli, 
Vergogna  ebbi  di  me;  eh'  al  cor  gentile 
Basta  ben  tanto,  ed  altro  spron  non  volli. 
Piacemi  almen  d'  aver  cangiato  stile 

Dagli  occhi  a'  pie  ;  se  del  lor  esser  molli 
Gli  altri  asciugasse  un  più  cortese  aprile. 
1  a  la    '  quella    *  a  1    *  de  le  treccie 

SONETTO  LII.  68 

B  combattuto  in  Roma  da  due  pensieri,  0  di  ritornarsene  e  Dio,  0  alla 

sua  donna. 

L'  aspetto  sacro  della  ^  terra  vostra 
Mi  fa  del  mal  passato  tragger  guai. 
Gridando:  sta  su,  misero:  che  fai? 
E  la  via  di"'^  salir  al  Ciel  mi  mostra. 

Ma  con  questo  pensier  un  altro  giostra, 
E  dice  a  me:  perchè  fuggendo  vai? 
Se  ti  rimembra,  il  tempo  passa  ornai 
Di  tornar  a  veder  la  Donna  nostra. 


78 


Petrarca. 


r  che'l  SUO  ragionar  intendo  allora,  ^ 

'M'agghiaccio  dentro  in  guisa  d'uom  eh  ascolta 
Novella  che  di  subito  l'accora. 

Poi  torna  il  primo,  e  questo  dà  la  volta. 
Qual  vincerà,  non  so;  ma  infino ^  ad  ora 
Combattut'hanno,*  e  non  pur  una  volta. 

1  de  la    =  de    ^  manfino    *  Combattuto  anno 

SONETTO  LUI.  ^9 

amore. 
Ben  sapev'i  ìq  che  naturai  consiglio, 

Amor,  centra  di  te  giammai'^  non  valse; 
Tanti  lacciuol,  tante  impromesse  false, 
Tanto  provato  avea '1  tuo  fero^  artigho. 
Ma  novamente  (ond' io  mi  meraviglio; 
Dirci,  come  persona  a  cui  ne  calse, 
E  ch'e'l  notai  là  sopra  l'acque  salse, 
Tra  la  riva  Toscana  e  l'Elba  e '1  Giglio).* 
r  fuggia  le  tue  mani,  e  per  cammino,^ 
Agitandom'i  venti  e '1  cielo '^  e  1' onde 
M'  andava  sconosciuto  e  pellegrino  ; 
Quand'  ecco  i  tuoi  ministri  (i'  non  so  donde). 
Per  darmi  a  diveder  eh'  al  suo  destino 
Mal  chi  contrasta  e  mal  chi  si  nasconde. 

^  sapeva    »  giamai    '  fiero    *  e  Giglio    >*  camino    «  del 

CANZONE  VII.  70^ 

Voryebbe  consolarsi  col  canto,  ma  per  propria  colpa  è  costretto  a  piangere.  ! 
Lasso  me,  eh'  i'  non  so  in  qual  parte  pieghi 
La  speme,  ch'è  tradita  omai  più  volte. 
Che  se  non  è  chi  con  pietà  m'  aseolte 
Perchè  sparger  al  Ciel  sì  spessi  preghi?  ^ 


Rim«.  79 

Ma  s'egli  avvien  ch'ancor^  non  mi  si  nieghi 

Finir  anzi  '1  mio  fine 

Queste  voci  meschine, 

Non  gravi  al  mio  Signor  perch'  io  '1  ripreghi 

Di  dir  libero  un  dì  tra  l'erba  e  i  fiori: 

»Drez  et  razon*  es  qu'ieu  chan  e  m'^  demori. e 

^  aven  chanchor    *  rayson    •  ciant  em 

Ragion  è  ben  eh'  alcuna  volta  i'^  canti  ; 
Però  c'ho  sospirato  sì  gran  tempo, 
Che  mai  non  incomincio  assai  per  tempo 
Per  adeguar*  col  riso  i  dolor  tanti.  4 

E  s' io  potessi^  far  ch'agli  occhi  santi 
Porgesse  alcun  diletto^ 
Qualche  dolce  mio  detto, 
O  me  beato  sopra  gli  altri  amanti! 
Ma  più,  quand'  io  dirò  senza  mentire: 
»  Donna  mi  prega  ;^  perch'io  voglio  dire.« 

1  io    •  adeguar    '  potesse    *  dilecto    ^  priegha 

Vaghi  pensier,  che  così  passo  passo 
Scorto  m'avete  a  ragionar  tant'  alto. 
Vedete  che  Madonna  ha  '1^  cor  di  smalto 
Sì  forte,  ch'io  per  me  dentro  noi  passo.  4 

Ella  non  degna  di  mirar  sì  basso, 
Che  di  nostre  parole 
Curi;  che '1  Ciel  non  vole; 
Al  qual  pur  contrastando  i' son  già  lasso: 
Onde,  come  nel  cor  m'induro  e'nnaspro,* 
»Così  nel  mio  parlar  voglio  esser  aspro.* 

1  al    ^  enaspro 

Che  parlo?  o  dove  sono?  e  chi  m'inganna 
Altri  eh'  io  stesso  e  'l  desiar  soverchio? 
Già,  s' i'  trascorro  il  ciel  di  cerchio  in  cerchio, 

Nessun  pianeta  a  pianger  mi  condanna.  4 


80  Petrarca. 

Se  mortai  velo  il  mio  veder  appanna, 

Che  colpa  è  delle  ^  stelle 

O  delle'  cose  belle? 

Meco  si  sta  chi  dì  e  notte  m'affanna, 

Poi  che  del  suo  piacer  mi  fé  gir  grave 

s-La  dolce  vista  e  '1  bel  guardo  soave. « 

*  de  le     -  de  le 
Tutte  le  cose,  di  che  '1  mondo  è  adorno, 
Uscir  buone  di'   man  del  Mastro  eterno: 
Ma  me,  che  così  addentro'^  non  discerno. 
Abbaglia  il  bel  che  mi  si  mostra  intorno;  4 

E  s*  al  vero  splendor  giammai  ^  ritorno. 
L'occhio  non  può^  star  fermo; 
Così  r  ha^  fatto  infermo 
Pur  la  sua  propria  colpa,  e  non  quel  giorno 
Ch'  i'  volsi  inver  l'angelica  beltade 
»Nel  dolce  tempo  della®  prima  etade.t 

1  de    ^  Sl  dentro     "  giamai    *  pò     ^  la    "de  la 

CANZONE  Vili.  71 

Lode  degli  occhi  di  Laura  -  Vedono  i  pensieri  del  Poeta  -Creati  di  sé  in 
lui  desiderio  smisurato,  gioia  smisurata  e  lodevole  spirito  di  poesia. 
Perchè  la  vita  è  breve, 

E  l'ingegno  paventa  all'  alta  impresa, 
Né  di  lui  né  di  lei  molto  mi  fido; 
Ma  spero  che  sia  intesa 
Là  dov'  io  bramo  e  là  dov'  ^  esser  deve 
La  doglia  mia,  la  qual  tacendo  i'  grido.  6 

Occhi  leggiadri,   dov'-  Amor  fa  nido, 
A  voi  rivolgo  il  mio  debile  stile. 
Pigro  da  sé,  ma '1  gran  piacer  lo  sprona; 
E  chi  di  voi  ragiona, 
Tien  dal  suggetto^^  un  abito  ^  gentile. 
Che  con  V  ale  amorose 
Levando,  il  parte  d'  ogni  pensier  vile. 
Con  queste  alzato  vengo  a  dire  or  cose, 
C  ho  portate  nel  cor  gran   tempo  ascose, 
1  dove     -  dove    ■'  soggetto    *  habito 


Rime.  81 

Non  perch'io  non  m'avveggia^ 

Quanto  mia  laude  è  ingiuriosa^  a  voi; 

Ma  contrastar  non  posso  al  gran  desio, 

Lo  quale  è  in^  me  dappoi^ 

Ch'i'  vidi  quel  che  pensier  non  pareggia, 

Non  che  l'agguagli^  altrui  parlar  o  mio.  6 

Principio  del  mio  dolce  stato  rio, 

Altri  che  voi  so  ben  che  non  m' intende. 

Quando  agli  ardenti  rai  neve  divegno, 

Vostro  gentile  sdegno 

Forse  ch'allor  mia  indegnitate  offende. 

O,  se  questa  temenza 

Non  temprasse  1'  arsura  che  m'incende, 

Beato  venir  menl^  che 'n  lor  presenza 

M'  è  più  caro  il  morir,  che  '1  viver  senza. 

'  aveggia    *  engiuriosa    '  en    *  da  poi    *  lavagli    *  meno 

Dunque  ch'i' non  mi  sfaccia. 
Sì  frale  oggetto^  a  sì  possente  foco. 
Non  è  proprio  valor  che  me  ne  scampi; 
Ma  la  paura  un  poco, 

Che'l  sangue  vago  per  le  vene   agghiaccia,? 
Risalda  '1  cor,  perchè  più  tempo  avvampi.'-       6 
O  poggi,  0  valli,  0  fiumi,  o  selve,  o  campi, 
O  testimon  della  ^  mia  grave  vita. 
Quante  volte  m'udiste  chiamar  Morte! 
Ahi*  dolorosa  sorte! 

Lo  star  mi  strugge,  e  '1  fuggir  non  m'aita. 
Ma,  se  maggior  paura 
Non  m'affrenasse,  via  corta  e  spedita 
Trarrebbe  a  fin  quest'^  aspra  pena  e  dura; 
E  la  colpa  è  di  tal  che  non  ha^  cura. 

1  obgetto     ~  avampi     '  de  la    *  Ai     *  questa    "  a 

Dolor,  perchè  mi  meni 

Fuor  di  cammin^  a  dir  quel  ch'i'  non  vogUo? 
Sostien  eh'  io  vada  ove  '1  piacer  mi  spigne. 
Bibl   rom.  12/15.  6 


g2  Petrarca. 

n 

Già  di  voi  non  mi  doglio, 

Occhi  sopra '1  mortai  corso  sereni, 

Né  di  lui  eh'  a  tal  nodo  mi  distrigne. 

Vedete  ben  quanti  color  dipigne "^ 

Amor  sovente  in  mezzo  del  mio  volto, 

E  potrete  pensar  qual  dentro  fammi, 

Là 've  dì  e  notte  stammi 

Addosso^  col  poder  c'ha  in  voi  raccolto, 

Luci  beate  e  liete, 

Se  non  che  '1  veder  voi  stesse  v'è  tolto: 

Ma  quante  volte  a  me  vi  rivolgete, 

Conoscete  in  altrui  quel  che  voi  siete. 

*  camin     *  depigne    '  Adesso 

S'  a  voi  fosse  sì  nota 

La  divina  incredibile  bellezza 

Di  eh'  io  ragiono,  come  a  chi  la  mira, 

Misurata  allegrezza 

Non  avria  '1  cor;  però  forse  è  remota 

Dal  vigor  naturai  che  v'apre  e  gira. 

Felice  l'alma  che  per  voi  sospira, 

Lumi  del  ciel;  per  li  quali  io  ringrazio  ^ 

La  vita,  che  per  altro  non  m'è  a  grado. 

Oimè,  perchè  sì  rado 

Mi  date  quel,  dond'  io  mai  non  son  sazio?  ^ 

Perchè  non  più  sovente 

Mirate  qual  Amor  di  me  fa  strazio?'^ 

E  perchè  mi  spogliate  immantenente '^ 

Del  ben  che^  ad  ora  ad  or  l'anima  sente? 

1  ringratio    "  satio    ^  stracio    *  immantanente    ^  eh 

Dico  eh'  ad  ora  ad  ora, 

Vostra  mercede,  i'  sento  in  mezzo  1'  alma 

Una  dolcezza  inusitata  e  nova. 

La  qual  ogni  altra  salma 

Di  noiosi  pensier  disgombra  allora, 

Sì  che  di  mille  un  sol  vi  si  ritrova. 


Rime. 

Quel  tanto  a  me,  non  più,  del  viver  giova. 
E  se  questo  mio  ben  durasse  alquanto. 
Nullo  stato  agguagliarse  1  al  mio  potrebbe- 

Ma  forse  altrui  farebbe  ^ 

Invido  e  me  superbo  l'onor  tanto: 

Però,  lasso,  conviensi'^ 

Che  l'estremo*  del  riso  assaglia  il  pianto; 

E 'nterrompendo  quelli  spirti  accensi, 

A  me  ritorni,  e  di  me  stesso  pensi. 
1  aguagliarse    ^  farrebbe    ^  conversi    *  extremo 
L'  amoroso  pensiero^ 

Ch'alberga  dentro,  in  voi  mi  si  discopre 

Tal,  che  mi  trae^  del  cor  ogni  altra  gioia: 

Onde  parole  ed  opre 

Escon  di  me  sì  fatte  allor.  ch'i' spero 

Farmi  immortai,  perchè  la  carne  moia.  6 

Fugge  al  vostro  apparire  angoscia  e  noia, 

E  nel  vostro  partir  tornano  insieme; 

Ma  perchè  la  memoria  innamorata 

Chiude  lor  poi  l'entrata, 

Di  là  non  vanno  dalle  ^  parti  estreme.* 

Onde  s'alcun  bel  frutto 

Nasce  dì  me,  da  voi  vien  prima  il  seme. 

Io  per  me  son  quasi  un  terreno  asciutto, 

Cólto  da  voi  ;  e  '1  pregio  è  vostro  in  tutto. 
»  penserò    «  tra     ^  da  le    *  extreme 

Canzon,  tu  non  m'acqueti,  anzi  m'infiammi 
A  dir  di  quel  eh'  a  me  stesso  m'invola: 
Però  sia  certa  di^  non  esser  sola 

CANZONE  IX.  72 

Dagli  0.  hi  di  Laura  viene  innalzato  a  contemplare  le  vie  del  Cielo. 
Gt  ntil  mia  Donna,  i'  veggio 

Nel  mover  de'  vostr'  occhi  un  dolce  lume 
Che  mi  mostra  la  via  ch'ai  Ciel  conduce; 
E  per  lungo  costume, 


83 


34  Petrarca. 

Dentro  là  dove  sol  con  Amor  seggio. 
Quasi  visibilmente  il  cor  traluce.  6 

Quest'  ^  è  la  vista  eh'  a  ben  far  m' induce, 
E  che  mi  scorge  al  glorioso  fine; 
Questa  sola  dal  vulgo  m'allontana. 
Né  giammai-  lingua  umana*^ 
Contar  porla  quel  che  le  sue'  divine 
Luci  sentir  mi  fanno, 
E  quando  il''^  verno  sparge  le  pruine, 
E  quando  poi  ringiovanisce*^  l'anno, 
Qual  era  al  tempo  del  mio  primo  affanno. 
1  Questa    ^  giamai     ^  humana    *  due    °  Quandol    «  ringiovenisce 

Io  penso:  se  lassuso^ 

Onde'l  Motor  eterno  delle-  stelle 

Degnò  mostrar  del  suo  lavoro  in  terra. 

Son  r  altr'    opre  sì  belle, 

Aprasi  la  prigione  ov'io  son  chiuso, 

E  che'l  cammino*  a  tal  vita  mi  serra.  6 

Poi  mi  rivolgo  alla-'^  mia  usata  guerra, 

Ringraziando^  Natura  e  '1  dì  ch'io  nacqui. 

Che  reservato  m'hanno'  a  tanto  bene, 

E  lei,  eh' a  tanta  spene 

Alzò'l^  mio  cor;  che 'nrin  allor  io  giacqui 

A  me  noioso  e  grave: 

Da  quel  dì  innanzi^  a  me  medesmo  piacqui, 

Empiendo  d'  un  pensier  alto  e  soave 

Quel    core,    ond' hanno i"  i  begli  occhi  la  chiave. 

1  la  suso     Me  le     ^  pregione     *  camino     ^  a  la    «  ringratiando 
'  manno     **  il    ®  inangi     ^^  anno 

Né  mai  stato  gioioso 

Amor  o  la  volubile  Fortuna 

Dieder  a  chi  più  fur  nel  mondo  amici, 

Ch'i'  noi  cangiassi  ad  una 

Rivolta  d'occhi,  ond'ogni  mio  riposo 

Vien,  com'  ^  ogni  arbor  vien  da  sue  radici.  6 


Rime,  85 

Vaghe  faville,  angeliche,  beatrici 
Della '^  mia  vita  ove  '1  piacer  s'  accende 
Che  dolcemente  mi  consuma  e  strugge; 
Come  sparisce  e  fugge 
Ogni  altro  lume  dove  '1  vostro  splende. 
Così  dello  ^  mio  core, 
Quando  tanta  dolcezza  in  lui  discende, 
Ogni  altra  cosa,  ogni  pensieri  va  fore, 
E  sol  ivi  con  voi  rimansi'*  Amore. 
1  come    -  De  la    *  de  lo     *  penser    °  rimanse 

Quanta  dolcezza  unquanco^ 

Fu  in  cor  d'avventurosi'^  amanti,  accolta 

Tutta  in  un  loco,  a  quel  eh'  i'  sento,  è  nulla, 

Quando  voi  alcuna  volta 

Soavemente  tra '1  bel  nero  e '1  bianco^ 

Volgete  il  lume  in  cui  Amor  si  trastulla:  6 

E  credo,   dalle*  fasce  e  dalla'''  culla 

Al  mio  imperfetto,  alla^  fortuna  avversa' 

Questo  rimedio  provvedesse*  il  Cielo. 

Torto  mi  face  il  velo 

E  la  man  che  sì  spesso  s'attraversa^ 

Fra '1  mio  sommo  diletto'^ 

E  gli  occhi,  onde  dì  e  notte  si  rin versa 

Il  gran  desio,  per  isfogar^^  il  petto, 

Che  forma  tien  dal  variato  aspetto. 

^  unquancho     -  aventurosi     "  bianche    *  da  le     "  da  la    **  imper- 
fecto  a  la    '  adversa    ^  provedesse    ®  atraversa    ^^  dilecto    "  isfogare 

Perch'io  veggio,  e  mi  spiace. 

Che  naturai  mia  dote  a  me  non  vale. 

Né  mi  fa  degno  d'un  sì  caro  sguardo, 

Sforzomi  d'esser  tale, 

Qual  all'  ^  alta  speranza  si  con  face. 

Ed  al  foco  gentil  ond'io  tutt' -  ardo.  6 

S'al  ben  veloce,  ed  al  contrario  tardo, 

Dispregiator  di  quanto  '1  mondo  brama, 

Per  soUicito^  studio  posso  farme; 


86  Petrarca. 

Potrebbe'*  forse  aitarme 

Nel  benigno  giudicio^  una  tal  fama. 

Certo  il  fin  de' miei  pianti, 

Che  non  altronde  il  cor  doglioso  chiama, 

Vien*^  da'  begli  occhi  al  fin  dolce  tremanti. 

Ultima  speme  de' cortesi  amanti. 

^  al    '  tutto     "  solicito    *  Porrebbe    ^  iudicio    "  Ven 

Canzon,  l'una  sorella^  è  poco  innanzi.' 
E  l'altra  sento  in  quel  medesmo  albergo 
Apparecchiarsi;^  ond' io  più  carta  vergo. 
'  sorrella    ^  inanci    "  Apparechiarsi 

CANZONE  X.  73 

Trova  ogni  bene  negli  occhi  di  Laura,  e  protesta  che  non  finirà  mai  di 

lodarli. 

Poi  che  per  mio  destino 

A  dir  mi  sforza  quell'accesa  voglia 

Che  m'ha^  sforzato  a  sospirar  mai  sempre. 

Amor,  oh' a  ciò  m'invoglia. 

Sia  la  mia  scorta  e  'nsegnimi  '1  cammino,^ 

E  col  desio  le  mie  rime  contempre;  6 

Ma  non  in  guisa  che  lo  cor  si  stempre 

Di  soverchia  dolcezza,  com'io  temo 

Per  quel  eh'  i'  sento  ov'  occhio  altrui  non  giugne  ; 

Che '1  dir  m'infiamma  e  pugne, 

Né  per  mio  ingegno,'^  ond' io  pavento  e  tremo. 

Siccome'*  talor  sole, 

Trovo '1  gran  foco  della ^  mente  scemo; 

Anzi  mi  struggo  al  suon  delle  ^  parole, 

Pur   com'io   fossi'   un  uom^  di  ghiaccio  al  Sole. 

'  ma     ^  camino     ^  mingegno    *  Si  come    ^  de  la    ^  de  le    "'  i\i^s,e 

"  huom 

Nel  cominciar  credia 

Trovar,  parlando,  al  mio  ardente  desire 
Qualche  breve  riposo  e  qualche  tregua.* 


Rime.  87 

Questa  speranza  ardire 

Mi  porse  a  ragionar  quel  ch'i'sentia; 

Or  m'  abbandona  al  tempo,  e  si  dilegua.  6 

Ma  pur  conven  che  1'  alta  impresa  segua, 

Continuando  l'amorose  note; 

Sì  possente  è  il^  voler  che  mi  trasporta; 

E  la  ragione  è  morta, 

Che  tenea  '1  freno,  e  contrastar  noi  potè. 

Mostrimi  almen  ch'io  dica 

Amor  in  guisa,  che  se  mai  percote 

Gli  orecchi  della '^  dolce  mia  nemica, 

Non  mia,  ma  di  pietà  la  faccia  amica. 

*  triegua    ^1    ^  de  la 

Dico  :  se  'n  quella  etate 

Ch'  al  ver  onor^  fur  gli  animi  sì  accesi, 

L'industria  d'alquanti  uomini  s'avvolse* 

Per  diversi  paesi. 

Poggi  ed  onde  passando,  e  l'onorate 

Cose  cercando,  iP  più  bel  fior  ne  colse;  6 

Poi  che  Dio  e  Natura  ed  Amor  volse 

Locar  compitamente  ogni  virtute 

*  In  quei  be'  lumi,  ond'  io  gioioso  vivo. 
Questo  e  quell'altro  rivo 

Non  conven  ch'i'  trapasse  e  terra  mute. 

A  lor"^  sempre  ricorro, 

Come^  fontana  d'ogni  mia  salute; 

E  quando  a  morte  desiando^  corro, 

Sol  di  lor  vista  al  mio  stato  soccorro. 

^  vero  honor    ^  huomini  savolse   ^  al   *  AUor   ^  Come  a  **  disiando 

Come  a  forza  di  venti 

Stanco  nocchier  di  notte  alza  la  testa 

A'  duo  lumi  e'  ha  sempre  il  nostro  polo  ; 

Così  nella  ^  tempesta 

Ch'  i'  sostengo  d'  amor,  gli  occhi  lucenti 

Sono  il  mio  segno  e  '1  mio  conforto  solo.  6 


gg  Petrarca. 

Lasso,  ma  troppo  è   più  quel  eh'  io  ne  'nvolo 
Or  quinci,  or  quindi,  com'  ^  Amor  m'  informa 
Che  quel  che  vien'^  da  grazioso"*  dono; 
E  quel  poco  ch'i' sono 
Mi  fa  di  loro  una  perpetua  norma. 
Poi  eh'  io  li  vidi  in  prima, 
Senza  lor  a  ben  far  non  mossi  un'orma: 
Così  gli  ho^  di  me  posti  in  su  la  cima; 
Che  '1  mio  valor  per  se  falso  s'estima. 
'  ne  la    ^  come     '  ven     *  gratioso     ^  o 

r  non  poria  giammai^ 

Immaginar,-  non  che  narrar,  gli  effetti, ^ 
Che  nel  mio  cor  gli  occhi  soavi  fanno. 
Tutti  gli  altri  diletti 
Di  questa  vita  ho^  per  minori  assai; 
E  tutt'^  altre  bellezze  indietro  vanno.  (. 

Pace  tranquilla,  senz'^  alcuno  affanno, 
Simile  a  quella  che  nel  cielo  eterna. 
Move  dal  lor  innamorato'  riso. 
Così  vedess'  io  fiso 
Com' s  Amor  dolcemente  gli  governa, 
Sol  un  giorno  da  presso,  * 

Senza  volger  giammai**  rota  superna; 
Né  pensassi  1^  d'altrui  né  di  me  stesso: 
E  '1  batter  gli  occhi  miei  non  fosse  spesso. 
1  giamai    "^  I  macinar    •'  effecti    *  o    ^  tutte     ''  senga    '  inamorato 
»  Come    ®  giamai     '"  pensasse 

Lasso,  che  desiando^ 

Vo  quel  ch'esser  non  puote  in  alcun  modo; 

E  vivo  del  desir  fuor  di  speranza. 

Solamente  quel  nodo 

Ch'Amor  circonda  alla-  mia  lingua,  quando 

L'umana  vista  il  troppo  lume  avanza,  6 

Fosse  disciolto:  i' prenderei  baldanza 

Di  dir  parole  in  quel  punto  sì  nove. 

Che  farian  lacrimar'^  chi  le 'n tendesse. 


Rime  89 

Ma  le  ferite  impresse 

Volgon  per  forza  il  cor  piagato  altrove; 

Ond'  io  divento  smorto, 

E  '1  sangue  si  nasconde  i'  non  so  dove, 

Né  rimango  qual  era;  e  sonmi  accorto 

Che  questo  è  '1  colpo  di  che  Amor  m'  ha^  morto. 

*  disiando     -  cerconda  a  la     "  lagrimar    ^  a 

Canzone,  i'  sento  già  stancar  la  penna 
Del  lungo  e  dolce  ragionar  con^  lei, 
Ma  non  di  parlar  meco  i  pensier  miei. 

'  col 

SONETTO  LIV.  74 

Sì  meraviglia  della  moltitudine  de'  suoi  pensieri,  de'  sospiri,  delle  voci, 

de'  passi  e  degli  scritti  fatti  per  Laura  e  si  scusa  se  trasandasse  in 

Queste  cose  e  la  offendesse. 

Io  son  già  stanco  di  pensar  sì  come 
I  miei  pensier  in  voi  stanchi  non  sono, 
E  come  vita  ancor ^  non  abbandono 
Per  fuggir  de'sospir  sì  gravi  some; 

E  come  a  dir  del  viso  e  delle -^  chiome 
E  de'  begli  occhi,  ond'  io  sempre  ragiono. 
Non  è  mancata  omai  la  lingua  e  '1  suono, 
Dì  e  notte  chiamando  il  vostro  nome; 

E  eh'  e'  pie  miei  non  son  fiaccati  e  lassi 
A  seguir  l'orme  vostre  in  ogni  parte, 
Perdendo  inutilmente  tanti  passi; 

Ed  onde  vien  l'inchiostro,^  onde  le  carte 
Ch'i'vo  empiendo  di  voi:  se 'n  ciò  fallassi, 
Colpa  d'Amor,*  non  già  difetto-^  d'arte. 

*  anchor    "  de  le    '  lenchiostro    *  damore    ^  defecto 

SONETTO  LV.  75 

Conforta  se  stesso  a  lodare  gli  occhi,  riprovando  il  timore  che  la  sua 

lingua   non   n'era  degna;  perchè   non  la  lingua  ma  il  pensiero  n'avrà 

biasimo,  e  si  risolve  in  lode  loro. 

I  begli  occhi  ond' i' fui  percosso  in  guisa 
Ch'  e'  medesmi  porian  saldar  la  piaga. 


90  Petrarca. 

E  non  già  virtù*  d'  erbe,  o  d'  arte  maga, 
O  di  pietra  dal  mar  nostro  divisa, 
M'hanno'^  la  via  sì  d'altro  amor  precisa, 
Ch'un  sol  dolce  pensier'^  l'anima  appaga; 
E  se  la  lingua  di  seguirlo  è  vaga. 
La  scorta  può,^  non  ella,  esser  derisa. 

Questi  son  qua' begli  occhi  che  l'imprese 
Del  mio  signor  vittoriose^  fanno 
In  ogni  parte,  e  più  sovra  '1  mio  fianco. 

Questi  son  que'  begli  occhi  che  mi  stanno 
Sempre  nel  cor  con"  le  faville  accese; 
Perch'io  di  lor  parlando  non  mi  stanco. 

*  vertu    ®  Manno    '  penser    *  pò    *  victoriose    ®  col 


SONETTO  LVI.  76 

Sonetto  composto  probabilmente  in  occasione  di  qualche  sdegno  nato  fra 
il  Poeta  e  Laura,  e  indirizzato  ad  un  amico  lontano. 

Amor  con  sue  promesse  lusingando 
Mi  ricondusse  alla^  prigione  antica, 
E  die  le  chiavi  a  quella  mia  nemica, 
Ch'ancor'-^  me  di  me  stesso  tene  in  bando. 

Non  me  n'avvidi,'^  lasso,  se  non  quando 
Fui  in  lor  forza;  ed  or  con  gran  fatica 
(Chi  '1  crederà,  perchè  giurando  il  dica?) 
In  libertà  ritorno  sospirando, 

E  come  vero  prigioniero  afflitto,^ 
Delle'  catene  mie  gran  parte  porto; 
E  '1   cor   negU   occhi  e  nella •*  fronte  ho'  scritto. 

Quando  sarai  del  mio  colore  accorto 
Dirai:  s'i'  guardo  e  giudico  ben  dritto,^ 
Questi  avea  poco  andare  ad  esser  morto. 

'  a  la     "^  anchor     ^  avidi     *  pregionero  afflicto     ''  De  le    '■  ne  la 
'  o    "  diritto 


Rime.  91 

SONETTO  LVII.  77 

Loda  Simone  Afemmi,  pittore  Senese,  che  ritrasse  sì  divinamente  Laura 
che  dee  averla  veduta  e  ritratta  in  Paradiso. 

Per  mirar  Policleto  a  prova  fiso, 

Con  gli  altri  ch'ebber  fama  di  quell'arte, 
Mill'anni,  non  vedrian  la  minor  parte 
Della  ^  beltà  che  m'ave  il  cor  conquiso. 

Ma  certo  il  mio  Simon  fu  in  Paradiso, 
Onde  questa  gentil  donna  si  parte; 
Ivi  la  vide,  e  la  ritrasse  in  carte. 
Per  far  fede  quaggiù'^  del  suo  bel  viso. 

L'opra  fu  ben  di  quelle  che  nel  Cielo 
Si  ponno  immaginar,^  non  qui  fra*  noi, 
Ove  le  membra  fanno  all'^  alma  velo. 

Cortesia  fé;  né  la  potea  far  poi 

Che  fu  disceso  a  provar  caldo  e  gelo,* 
E  del  mortai  sentiron  gli  occhi  suoi. 

*  De  la    ^  qua  giù    •'  imaginar    *  tra    "^  a  1    ®  gielo 

SONETTO  LVIII.  78 

Si  duole  che  Simone  non  abbia  data  voce  ed  intelletto  alla  figura  e  dice 
d'invidiar  Pigmalione  acciocché  non  paresse  dolersi  di  cosa  impossibile. 

Quando  giunse  a  Simon  l'alto  concetto 
Ch'  a  mio  nome  gli  pose  in  man  lo  stile, 
S'avesse  dato  all'^  opera  gentile 
Con^  la  figura  voce  ed  intelletto,^ 

Di  sospir  molti  mi  sgombrava  il  petto. 

Che  ciò  ch'altri  han"*  più  caro,  a  me  fan  vile: 
Però  che  in^  vista  ella  si  mostra  umile,* 
Promettendomi  pace  nell''  aspetto: 

Ma  poi  eh'  i'  vengo  a  ragionar  con  ^  lei, 
Benignamente  assai  par  che  m' ascolte. 
Se  risnonder  savesse  a' detti  miei, 

Pigmalion,  quanto  lodar  ti  dei 

Dell'immagine^  tua,  se  mille  volte 
N'  avesti  quel  ch'io^<^  sol  una  vorrei  1 

*  a  1      ■-■  Col      '^  intelleeto      *  a      ^  chen     *  humlle      '  nel      *  col 
'  De  1  imaBine    '°  chi 


92  Petrarca. 

SONETTO  LIX.  79 

Argomenta  che  sia  vicino  a  morte,  né  possa  più  campare  per  aiuto,  che 

gif  fosse  porto;  così   è  mai  trattato  dal  suo  desio,  da  Amore,  da'  suoi 

occhi,  da  Laura. 

S'al  principio  risponde  il  fine  e  '1  mezzo 
Del  quartodecim'^  anno  ch'io  sospiro. 
Più  non  mi  può-  scampar  l'aura  né '1  rezzo; 
Sì  crescer  sento  '1  mio  ardente  desiro. 

Amor,  con  cu'  i  pensier  mai  non  han  mezzo, ^ 
Sotto  '1  cui  giogo  giammai"^  non  respiro, 
Tal  mi  governa,  eh'  i'  non  son  già  mezzo. 
Per  gli  occhi,  ch'ai  mio  mal  sì  spesso  giro. 

Così  mancando  vo  di  giorno  in  giorno 
Sì  chiusamente,  eh'  i'  sol  me  n'accorgo, 
E  quella  che  guardando  il  cuor  mi  strugge. 
Appena^  infin  a  qui  1'  anima  scorgo, 

Né  so  quanto  fia  meco  il  suo  soggiorno; 
Che  la  morte  s' appressa,  e  '1  viver  fugge. 
^  quartodecimo     ^  pò     ^  non  ameggo    *  giamai     ^  Apena 

SESTINA  IV.  80 

Mal  affidatosi  alla  fragil  nane  d'Amore,  prega  Dio  che  lo  drizzi  a 
buon  porto. 

Chi  è  fermato  di  menar  sua  vita 
Su  per  l'onde  fallaci  e  per  h  scogli, 
Scevro  da  morte  con  un  picciol  legno, 
Non  può^  molto  lontan  esser  dal  fine: 
Però  sarebbe'^  da  ritrarsi  in  porto, 
Mentre  al  governo  ancor  ^  crede  la  vela. 

L'  aura  soave,  a  cui  governo  e  vela 
Commisi  entrando  all'^  amorosa  vita, 
E  sperando  venire  a  miglior  porto, 
Poi  mi  condusse  in  più  di  mille  scogli; 
E  le  cagion  del  mio  doglioso  fine 
Non  pur  d'  intorno  avea,  ma  dentro  al  legno. 


Rimo.  93 

Chiuso  gran  tempo  in  questo  cieco  legno 
Errai  senza  levar  occhio  alla''  vela, 
Ch' anzi '1*^  mio  dì  mi  trasportava  al  fine; 
Poi  piacque  a  Lui  che  mi  produsse  in  vii  a, 
Chiamarmi'  tanto  indietro  dalli**  scogli, 
Ch'  almen  da  lunge  m'  apparisse  il  porto. 

Come  lume  di  notte  in  alcun  porto 
Vide  mai  d'  alto  mar  nave  né  legno. 
Se  non  gliel  tolse  o  tempestate  o  scogli; 
Così  di  su  dalla  gonfiata*^  vela 
Vid' io  le 'nsegne  di  quell'altra  vita; 
Ed  allor  sospirai  verso  '1  mio  fine. 

Non  perch'io  sia  securo  ancor ^'  del  fine; 
Che  volendo  col  giorno  esser  a  porto, 
È  gran  viaggio  in  così  poca  vita: 
Poi  temo,  che  mi  veggo  in  fragil^^  legno, 
E.  più  ch'i  non^'"  vorrei,  piena  la  vela 
Del  vento  che  mi  pinse  in  questi  scogli. 

S' io  esca  vivo  dg'  dubbiosi  scogli, 

Ed  arrive  il  mio  esilio  ^'^  ad  un  bel  fine, 
Ch'  i'  sarei  vago  di  voltar  la  vela, 
E  l'ancore^'*  gittar  in  qualche  porto: 
Se  non  eh'  i'  ardo  come  acceso  legno  ; 
Sì  m'  è  duro  a  lassar  1'  usata  vita. 

Signor  della  ^^  mia  fine  e  della  vita. 

Prima  eh'  i'  fiacchi  il  legno  tra  li  scogli. 
Drizza  a  buon  porto  l'affannata  vela. 

*  pò  ^  sarrebbe  "'  anchor  *  a  1  ^  a  la  *•  al  "  Chiamarnie 
"  da  li  ^  da  la  gomfiata  ^"^  anchor  ^^  veggio  in  fraile  '  che  non 
^^  exilio     '*  anchore     ^^  de  la 


94  Petrarca. 

SONETTO  LX.  81 

Imita  il  Salmo  LIV.  Là  Davide  prega  che  gli  sien  prestate  ali  per  fug- 
gire  da'  traditori  nel  deserto;  e  qui  egli  per  fuggire  V Avversario  al 
Cielo  dietro  a  Cristo. 
Io  son  sì  stanco  sotto  iP  fascio  antico 
Delle^  mie  colpe  e  dell''^  usanza  ria, 
Ch'  i'  temo  forte  di  mancar  tra  via 
E  di  cader  in  man  del  mio  nemico. 
Ben  venne  a  dilivrarmi  un  grande  amico, 
Per  somma  ed  ineffabil  cortesia; 
Poi  volò  fuor  della*  veduta  mia 
Sì  eh'  a  mirarlo  indarno  m'affatico. 
Ma  la  sua  voce  ancor  quaggiù^  rimbomba: 
O  voi  che  travagliate,  ecco  il  cammino;** 
Venite  a  me,  se  '1  passo  altri  non  serra. 
Qual  grazia,'^  qual  amore,  o  qual  destino 
Mi  darà  penne  in  guisa  di  colomba, 
Ch'  i'  mi  riposi  e  levimi  da  terra? 
M    ^  De  le    ^  de  1    *de  la    °  anchor  qua  giù    '  i  camino    'gratia 

SONETTO  LXI.  82 

È  contento  di  seguire  la  impresa  amorosa,   dove  Laura  voglia  lasciare 
la  crudeltà:  altrimenti  la  minaccia  d'abbandonarla. 

Io  non  fu'  d'  amar  voi  lassato  unquanco,^ 
Madonna,  né  sarò  mentre  eh'  io  viva; 
Ma  d'  odiar  me  medesmo  giunto  a  riva 
E  del  continuo  lagrimar  son  stanco. - 

E  voglio  anzi  un  sepolcro  bello  e  bianco,  '^ 
Che  '1  vostro  nome  a  mio  danno  si  scriva 
In  alcun  marmo,  ove  di  spirto  priva 
Sia  la  mia  carne,  che  può^  star  seco  anco.* 

Però,  s'un  cor  pien  d'amorosa  fede 
Può  contentarvi**  senza  farne  strazio,' 
Piacciavi  omai  di  questo  aver  mercede. 

Se 'n  altro  modo  cerca  d'esser  sazio  "^ 

Vostro  sdegno,  erra;  e  non  fia  quel  che  crede; 
Di  che  Amor  e  me  stesso  assai  rin curazie.  ^ 
'  unquancho     -'  so  stanche      '  bianche    *  pò     '  ancho     "  conten- 
tarve     '  stracio    "  sacio    '•*  ringi-acio 


Rime.  95 

SONETTO  LXII.  83 

Ancorché  non  sia  per  liberarsi  in  tutto  da  Amore,   massimamente  tro- 
vandosi in  presenza  di  Laura,  prima  che  non  sia   vecchio,   nondimeno 
non  è  più  per  sentirne  tormento. 
Se  bianche  non  son  prima  ambe  le  tempie, 
Ch'  a  poco  a  poco  par  che  '1  tempo  mischi, 
Securo  non  sarò,  bench'  io  m'  arrischi 
Talor  ov'Amor  l'arco  tira  ed  empie. 
Non  temo  già  che  più  mi  strazii^  o  scempie, 
Né  mi  ritenga,  perch'  ancor  ^  m'  invischi, 
Né  m'  apra  il  cor,  perchè  di  fuor  l' incischi 
Con  sue  saette  velenose  ed  empie. '^ 
Lagrime  ornai  dagli  occhi  uscir  non  ponno, 
Ma  di  gir'*  in  fin  là  sanno  il  viaggio, 
Sì  eh'  appena^  fia  mai  chi  '1  passo  chiuda. 
Ben  mi  può  riscaldar*^  il  fiero  raggio, 

Non  sì  eh'  i'  arda;  e  può  turbarmi  il  sonno, 
Ma  romper  no,  l'immagine  '  aspra  e  cruda. 
"^  stragi      '  anchor     *  impie     *  gire      ^  a  pena      *  pò  riscaldare 
'  limagine 

SONETTO  LXIII.  84 

Dialogo  del  Poeta  e  degli  occhi  suoi,  a  cui  si  debba  attribuire  la  cagione 
delFamore  di  lui,  al  cuore  o  agli  occhi.    Il  P.  difende  il  cuore. 

•Occhi,  piangete,  accompagnate  il  core, 
Che  di  vostro  fallir  morte  sostene.< 
>Così  sempre  facciamo;  e  ne  convene 
Lamentar  più  1'  altrui  che  '1  nostro  errore.c 

»Già  prima  ebbe  per  voi  l'entrata  Amore 
Là  onde  ancor,  ^  come  in  suo  albergo,  vene.* 
)i>Noi  gli  aprimmo  la  via  per  quella  spene 
Che  mosse  dentro  da  colui  che  more.* 

»Non  son,  com'^a  voi  par, ^  le  ragion  pari; 
Che  pur  voi  foste  nella*  prima  vista 
Del  vostro  e  del  suo  mal  cotanto  avari.* 

»0r  questo  è  quel  che  più  eh'  altro  n'  attrista;^ 
Ch'  e'  perfetti  giudicii  son  sì  rari, 
E  d'altrui  colpa  altrui  biasmo  s'acquista.* 
*  anchor    ^  come  (a)     ^  pare    *  ne  la    *  atrista 


96  Petrarca. 

SONETTO  LXIV.  85 

Nel  luogo  e  nelF  ora  che  s'innaynorò  già,  avvenne  che  vide  Laura  e  di 
questo  accidente  ne  tesse  questo  Sonetto. 

Io  amai  sempre,  ed  amo  forte  ancora/ 
E  son  per  amar  più  di  giorno  in  giorno. 
Quel  dolce  loco  ove  piangendo  torno 
Spesse  fiate,  quando  Amor  m'accora. 

E  son  fermo  d'amare  il  tempo  e  l'ora 
Ch'  ogni  vii  cura  mi  levar  d' intorno  ; 
E  più  colei  lo  cui  bel  viso  adorno 
Di  ben  far  co'  suoi  esempi^  m' innamora. 

Ma  chi  pensò  veder  mai  tutti  insieme 
Per  assalirmi  '1  cor^  or  quindi  or  quinci, 
Questi  dolci  nemici  eh'  i'  tant'  amo? 

Amor,  con  quanto  sforzo  oggi  mi  vinci  1 
E,  se  non  eh'  al  desio  cresce  la  speme, 
r  cadrei  morto  ove  più  viver  bramo. 
^  anchora     ^  exempli     ^  il  core 

SONETTO  LXV.  86 

Addotto  il  Petrarca  in  disperazione  desidera  esser  morto  mentre  fu  felice. 

Io  avrò  sempre  in  odio  la  fenestra 

Onde  Amor  m'  avventò  già  mille  strali, 
Perch'  alquanti  di  lor  non  fur  mortali; 
Ch'  è  bel  morir,  mentre  la  vita  è  destra.^ 

Ma '1  sovrastar  nella  prigion'^  terrestra, 
Cagion  m' è,  lasso,  d'infiniti  mali: 
E  più  mi  duol  che  fien  meco  immortali, 
Poi  che  r  alma  dal  cor  non  si  scapestra. 

Misera!  che  dovrebbe^  esser  accorta 

Per  lunga  esperienza^  ornai,  che  '1  tempo 
Non  è  chi  'ndietro  volga  o  chi  l'affreni. 

Più  volte  l'ho^  con  tai*'  parole  scorta: 
Vattene,  trista;  che  non  va  per  tempo 
Chi  dopo  lassa  i  suoi  dì  più  sereni. 
*  dextra     "  ne  la  pregion     "  dovrebbe     *  experientia     'lo     *  ta 


Rime.  97 

SONETTO  LXVI.  87 

5f  duole  della  'criidei'à  df  Laura,  la  quale  ancorché  fosse  cerio  d'averle 
piagato  di  mortai  ferita,  non  si  vedeva  però  sazia  di  continuamente  saettarlo. 

Sì  tosto  come  avviene  che  l'arco  scocchi, 
Buon  sagittario  di  lontan  discerne 
Qual  colpo  è  da  sprezzare  e  qual  d'averne 
Fede  ch'ai  destinato  segno  tocchi; 

Similemente  il  colpo  de'  vostr'  occhi, 
Donna,  sentiste  alle-  naie  parti  interne 
Dritto  passare;  onde  convien  ch'eterne*'' 
Lagrime  per  la  piaga  il  cor  trabocchi. 

E  certo  son  che  voi  diceste  allora: 

Misero  amantel  a  che  vaghezza  il  mena! 
Ecco  Io  strale  ond''Amor  voi  eh' e' mora. 

Ora.  veggendo  come  '1  duol  m'  affrena, 

Quel  che  mi  fanno  i  miei  nemici  ancora,^ 
Non  è  per  morte,  ma  per  più  mia  pena. 
^  aven     -'  a  le     ■'•  conven  eh"  enterne     '  onde     •"'  anchora 

SONETTO  LXVJI.  88 

Delibera  di  fuggire  da  Amore  e  duolsi  di  non  esser  fuggito  prima.   Con- 
torta  f^li   altri   a   fuggire,    ma  prima   che   avvampino:  che,  perchè  egli 
scampi,  non  avviene  però  ciò  ad  ognuno. 

Poi  che  mia  speme  è  lunga  a  venir  troppo, 
E  della'  vita  il  trapassar-  sì  corto, 
Vorreimi  a  miglior  tempo  esser  accorto. 
Per  fuggir  dietro  più  che  di  galoppo; 

E  fuggo  ancor"'  così  debile,   e  zoppo 

Dair^un  de' lati,  ove '1  desio  m'ha-"*  storto; 
Securo  omai,  ma  pur  nel  viso  porto 
Segni  eh'  io  presi  all'''  amoroso  intoppo. 

Ond'  io  consiglio  voi  che  siete  in  via: 

Volgete  i  passi;  e  voi  ch'Amore  avvampa,' 
Non  v'indugiate  su  l'estremo^  ardore. 

Che,  perch'  io  viva,  di  "  mille  un  non  ^^  scampa. 
Era  ben  forte  la  nemica  mia; 
E  lei  vid'  io  ferita  in  mezzo  '1  core. 
Me  la    -  trappassar     "  anchor     ^  Da  1     '"  ma     ^  a  1     '  avampa 
*  extremo    "  de    *^  no 

Bibl.  rom.  12(15.  7 


98  Petrarca. 

SONETTO  LXVIII.  89 

Narra  a  •.erte  donne  come  fuggì  da  Amore  una  volta:  e  poi,  parte  perchè 
^li  dispiaceva  la  libertà,  parte  perchè  amore  gli  tese  insidie,  fu  impri- 
gionato di  nuovo,  e  che  ora  con  gran  fatica  ne  può  fuggire. 

Fuggendo  ìa  prigione^  ov'  Amor  m'  ebbe 
Molt'  anni  a  far  di  me  quel  eh'  a  lui  parve. 
Donne  mie,  lungo  fora  a  ricontarve 
Quanto  la  nova  libertà  m'  increbbe. 

Diceami  '1-  cor,  che  per  se  non  saprebbe 
Viver  un  giorno;  e  poi  tra  via  m'apparve 
Quel  traditor''  in  sì  mentite  larve, 
Che  più  saggio  di  me  ingannato^  avrebbe. 

Onde  più  volte  sospirando  indietro, 

Dissi:  Oimè,  il   giogo  e  le  catene  e  i  ceppi 
Eran  più  dolci  che  l'andare  sciolto. 

Misero  me!  che  tardo  il  mio  mal  seppi: 
E  con  quanta  fatica-^  oggi  mi  spetro 
Dell'errore  ov' io  stesso  m'era  involto! 
'  prt'gione     -  il     •'  traditore      ^  inganato     *  faticha     ^  Del  eirore 

SONETTO  LXIX.  90 

Dipinge  guai  fosse  Laura  la  prima  volta  che  la  vide,  e  dice  che  non  arde 
meno  perchè  ora  non  sia  tale. 

Erano  i  capei  d'oro  a  l'aura  sparsi, 
Che 'n  mille  dolci  nodi  gli  avvolgea;^ 
E  '1  vago  lume  oltre-  misura  ardea 
Di  quei  begli  occhi,  eh'  or  ne  son  sì  scarsi  ; 

E  '1  viso  di  pietosi  color  farsi, 

Non  so  se  vero  o  falso,  mi  parea. 
r  che  r  esca  amorosa  al  petto  avea. 
Qual  maraviglia"  se  di  subit'*  arsi? 

Non  era  l'andar  suo  cosa  mortale. 
Ma  d'angelica  forma:  e  le  parole 
Sonavan  altro  che  pur  voce  umana.^ 

Uno  spirto  celeste,  un  vivo  sole 

Fu  quel  ch'i' vidi;  e  se  non  fosse  or  tale. 
Piaga*'  per  allentar  d'arco  non  sana. 
'  ^volgsa     ■•'  oltra     ■  meraviglia     •*  subito     '•'  humana     "*  piagha 


Rime.  99 

SONETTO  LXX  {in  mollo  XC)  91 

Lu  morte  di  Laura  lo  consiglia  a  meditar  seriamente  su  la  vita  avvenire. 

La  bella  donna  che  cotanto  amavi, 
Subitamente  s'  è  da  noi  partita, 
E,  per  qual  eh'  io  ne  speri,  al  ciel  salita; 
Sì  furon  gli  atti  suoi  dolci  soavi. 

Tempo  è  da  ricovrare  ambe  le  chiavi 
Del  tuo  cor,  ch'ella  possedeva  in  vita, 
E  seguir  lei  per  via  dritta  e  spedita;^ 
Peso  terren  non  sia  più  che  t'aggravi. 

Poi  che  se'  sgombro  della  "^  maggior  salma, 
L'altre  puoi  giuso  agevolmente  porre, 
Salendo''  quasi  un  pellegrino  scarco. 

Ben  vedi  omai  siccome*  a  morte  corre 
Ogni  cosa  creata,  e  quanto  all'^  alma 
Bisogna  ir  leve*^  al  periglioso  varco. 
*  dritta  expedita     -de  la    •' Sallendo    *  si  come    '' aW  (sic)    "lieve 

I  SONETTO  LXXI  (Var.  arg.  IX).  92 

\ìmHta  le  donne  e  gli  amanti  a  pianger  seco  la  morie  di  Cino  da  Pistoia. 

Piangete,  donne,  e  con  voi  pianga  Amore; 
Piangete,  amanti,  per  ciascun  paese; 
Poi  che  morto  è  colui  ^  che  tutto  intese 
In  farvi,  mentre  visse  al  mondo,  onore.''' 

Io  per  me  prego  il  mio  acerbo  dolore 
Non  sian  da  lui  le  lagrime  contese, 
E  mi  sia  di  sospir  tanto  cortese 
Quanto  bisogna  a  disfogare  il  core. 

Piangan  le  rime  ancor,  ^  piangano  i  versi. 

Perchè  '1  nostro  amoroso  messer  Cino 

Novellamente  s'  è  da  noi  partito. 
Pianga  Pistoia  e  i  cittadin*  perversi. 

Che  perdut' hanno ^  sì  dolce  vicino; 

E  rallegres'*^  il  Cielo  ov' elio  è  gito. 

'  inorto   collui      ■  honore      '-^  anchor      ■■'  citadin      ■'  p)erduto   nvino 
raliejerftsi 


\QQ  Petrarca. 

SONETTO  LXXII.  93 

Amore  minaccia  ii  Poeta  di  farlo  lagrimare  se  continua  a  non  obbedire 
al  suo  cenno  di  descrivere  lo  scoloramento  che  gli  aveva  mostrato  di 
iue  amanti,  siccome  lode  somma  d'esso  amore.  Questo  sonetto  è  proemio 

del  seguente. 

Più  volte  Amor  m'avea  già  detto:    Scrivi, 
Scrivi  quel  che  vedesti  in  lettre  d'oro; 
3ì  come  i  miei  seguaci  discoloro, 
E  'n  un  momento  gli  fo  morti  e  vivi. 

Un  tempo  fu  che  'n  te  stesso  '1  sentivi. 
Volgare  esempio  all'^  amoroso  coro.'^ 
Poi  di  man  mi  ti  tolse  altro  lavoro; 
Ma  già  ti  raggiuns'  io  mentre  fuggivi. 

E  s'  e'  begli  occhi  end'  io  mi  ti  mostrai, 

E  là  dov'^  era  il  mio  dolce  ridutto 

Quando  ti  ruppi  al  cor  tanta  durezza. 
Mi  rendon  l'arco  eh'  ogni  cosa  spezza, 

Forse  non  avrai  sempre  il  viso  asciutto; 

Ch'  i'  mi  pasco  di  lagrime,  e  tu  'l  sai. 

'  exemplo  a  1    ^  choro    "  dove 

SONETTO  LXXIII.  94 

Rende  la  cagione  perchè  un  amante  alla  presenza   della  persona  amala 
impallidisca  come  morto  e  goda  alcuna  volta  di  tale  impallidire. 

Quando  giugne  per  gli  occhi  al  cor  profondo 
L' immagina   donna,  ogni  altra  indi  si  parte; 
E  le  vertù  che  1'  anima  comparte, 
Lascian  le  membra  quasi  immobil  pondo. 

E  del  primo  miracolo  il  secondo 
Nasce  talor;  che  la  scacciata  parte. 
Da  se  stessa  fuggendo,  arriva  in  parte 
Che  fa  vendetta,  e  '1  suo  esilio-  giocondo. 

Quinci  in  duo  volti  un  color  morto  appare; 
Perchè  '1  vigor  che  vivi  gli  mostrava. 
Da  nessun  lato  è  più  là  dove  stava. 


/■^3!i-«''''^f';^x 


Rime.  101 

E  di  questo  in  quel  dì  mi  ricordava, 
Ch'  i'  vidi  duo  amanti  trasformare 
E  far  qual  io  mi  soglio  in  vista  fare. 

^  Liniagin    "^  exilio 

SONETTO  LXXIV.  95 

Si  duole  che  la  sua  fedeltà  non  operi  in  Laura  quello  che  la  fedeltà  di 

ìlcuni  ha  operato  nel  lor  Signore:  siccome  di  Maria,   e  di  Pietro  con 

Cristo,  ancorché  fossero  indegni  d'essere  ricevuti  per  altro. 

Così  potess'  io  ben  chiuder^  in  versi 

I  miei  pensier,  come  nel  cor  li-  chiudo; 
Ch'animo  al  mondo  non  fu  mai  sì  crudo: 
Ch'  i'  non  facessi  per  pietà  dolersi. 

Ma  voi,  occhi  beati,  ond'  io  soffersi 

Quel  colpo  ove  non  valse  elmo  né  scudo, 
Di  for  e  dentro  mi  vedete  ignudo, 
Benché  'n  lamenti  il  duol  non  si  riversi  ; 

Poi  che  vostro  vedere  in  me  risplende, 
Come  raggio  di  Sol  traluce  in  vetro. 
Basti  dunque  in  desio,  senza  eh'  io  dica. 

Lasso,  non  a  Maria,  non  nocque  a  Pietro 
La  fede  eh' a  me  sol  tanto  è  nemica; 
E  so  eh'  altri  che  voi  nessun  m'  intende. 

chiudere     -  gli 

SONETTO  LXXV.  96 

ìuaniuìique  alcuna  volta  disperato  abbia  in  odio  la  speranza  ed  il  suo 
(esiderio,  nondimeno,  ricordandosi  della  bellezza  di  Laura,  muta  mente, 
che  é  sforzato  di  seguir  Laura,  la  quale  di  volontà  prese  ad  amare. 

Io  son  dell'  aspettar^  omai  sì  vinto 
E  della '-^  lunga  guerra  de' sospiri, 
Ch'  i'  aggio  in  odio  la  speme  e  i  desiri, 
Ed  ogni''^  laccio  onde '1  mio  cor  è  avvinto.^ 

Ma  '1  bel  viso  leggiadro  che  dipinto*^ 

Porto  nel  petto,  e  veggio  ove  eh'  io  miri, 
Mi  sforza;  onde  ne'  primi  empi^  martiri 
Pur  son  centra  mia  voglia  risospinto. 


1 02  Feirarca. 

Allor  errai,  quando  Tantica  strada 

Di  libertà  mi  fu  precisa  e  tolta; 

Che  mal  sì  segue  ciò  eh'  agli  occhi  aggrada.  ' 
Allor  corse  al  suo  mal  libera  e  sciolta; 

Or^  a  posta  d'altrui  conven  che  vada 

L'anima,  che   peccò  sol  una  volta. 

'  aspectar    -  de  la    '•  dogni     '  avinto    *"'  depinto    '''  empi}    '  agrrda 
«Ora 

SONETTO  LXXVI.  97 

Detto  che  contea  sua  voglia  era  sferzato  a  seguire  l'amore  di  Laura,  pone 

V  infelicità  del  suo  stato  servo,  il  quale  pare  tanto  più  infelice,   quanto 

lo  stato  della  libertà  era  più  bello. 

Ahi/  bella  libertà,  come  tu  m'hai,- 
Partendoti  da  me,  mostrato  quale 
Era '1  mio  stato,  quando  '1"  primo  strale 
Fece  la  piaga ^  ond' io  non  guarrò'^  mai! 

Gli  occhi  invaghirò  allor  sì  de'  lor  guai, 
Che '1  fren  della  ragion^'  ivi  non  vale. 
Pere'  hanno  a  schifo  ogni  opera  mortale: 
Lasso,  così  da  prima  gli  avvezzai,  '' 

Né  mi  lece  ascoltar  chi  non  ragiona 

Della*'  mia  morte;  che  sol^  del  suo  nome 
Vo  empiendo  l'aere  che  sì  dolce  suona.  '*' 

Amor  in  altra  parte  non  mi  sprona. 

Né  i  pie  sanno  altra  via,  né  le  man  coinè 
Lodar  si  possa  in  carte  altra  persona. 

'  Ai     "  mai     '  il     '^  piagha    ''  guerro    *"  de  la  ragione     '  ave^2ai 
■^  De  1?.    ^  e  solo     "^  sona 

SONETTO  LXXVII  (Var.  arg.  X).         98 

Ad  Orso  dcW  Anguillara ,    che  doleasi  di  non   poter  ritrovar.,''  ad  una 

giostra. 

Orso,  al  vostro  destrier  si  può  ^  ben  porre 
Un  fren,  che  di  suo  corso  indietro  il  volga. 
Ma  '1  cor  chi  legherà  che  non  si  sciolga. 
Se  brama  onore.'  e '1  suo  contrario  abbovrdV 


Rime.  103 

Non  sospirate:  a  lui  non  si  può'"  torre 

Suo  pregio,  pcrch' a  voi  randar  si  tolga; 

Che,  come  fama  pubblica^  divolga. 

Egli  è  già  là,  che  nuli' altro  il  precorre. 
Basti  che  si  ritrove  in  mezzo  '1  campo 

Al  destinato  dì,  sotto  quell'arme 

Che  gli  dà  il  tempo,    amor,  virtute'"'  e '1  sangue; 
Gridando:  d'un  gentil  desire  avvampo*' 

Col  signor  mio,  che  non  può  '  seguitarme, 

E  del  non  esser  qui  si  strugge  e  langue. 
^  pò     -  honore    ''  pò     '  publica     '  vertute    ''  svampo     '  pò 

SONETTO  LXXVIII.  99 

'onforta  un  amico  a  lasciare  l'amore  delle  cose  mondane  e  a  rivolgersi 
a  Dio.  —  Confessa  d'insegnare  a  lui  la  via  ed  egli  non  la  sapere. 

Poi  che  voi  ed  io  più  volte  abbiam  provato 
Come  '1  nostro  sperar   torna  fallace, 
Dietr'-'^a  quel  sommo  ben  che  mai  non  spiace 
Levate '1-  core  a  più  felice  stato. 

Questa  vita  terrena  è  quasi  un  prato, 
Che '1  serpente  tra' fiori  e  l'erba  giace; 
E  s'  alcuna  sua  vista  agli  occhi  piace, 
È  per  lassar  più  1'  animo  invescato. 

Voi  dunque,  se  cerca  ce  aver  la  mente 
Anzi  restremo "*  dì  queta  giammai,^ 
Seguite  i  pochi  e  non.  la  volgar  gente. 

Ben  si  può  dire  a  me:   frate,  tu  vai 
Mostrando  altrui  la  via  dove  sovente 
Fosti  smarrito,  ed  or  se' più  che  mai. 
^  Dietro     -  il     ''■  extremo     '  giamai 

SONETTO  LXXIX.  100 

Racconta  moUe  cose  che  gli  sono  cagione  di  pianto. 
Quella  fenestra  ove  l'un  Sol  si  vede, 

Quando  a  ìui  piace,  e  l'altro  in  su  la  nona, 
E  quella  dove  V  aere  freddo  suona 
Ne'  brevi  giorni,   quando  borea  '1  fiede; 


104  Petrarca. 

E  '1  sasso  ove  a'  gran  dì  pensosa  sir.de 
Madonna,  e  sola  seco  si  ragiona; 
Con  quanti  luoghi  sua  bella  persona 
Coprì  mai  d'  onìbra  o  disegnò  col  piede; 

E  '1  fiero  passo  ove  m'  aggiunse'  Amore; 
E  la-  nova  stagion  che  d'anno  in  anno 
Mi  rinfresca  in  quel  dì  l'antiche  piaghe; 

E  '1  volto  e  le  parole  che  mi  stanno 
Altamente  confitte  in  mezzo  '1  core, 
Fanno  le  luci  rnie  di  pianger  vaghe. 
^  agiunse     -  Ila 

SONETTO  LXXX.  101 

Spera  dopo  il  quatlordiceshno  anno  d'' aversi  a  liberar 'S. 

Lasso,  ben  so  che  dolorose  prede 

Di  noi  fa  quella  eh' a  null'uom^  perdona; 
E  che  rapidamente  n'  abbandona- 
li mondo,  e  picciol  tempo  ne  tien  fede. 

Veggio  a  molto  languir  poca  mercede, 
E  già  r  ultimo  dì  nel  cuor  mi  tuona: 
Per  tutto  questo.  Amor  non  mi  sprigiona,^ 
Che  r  usato  tributo  agli  occhi  chiede. 

So  come  i  dì,  come  i  momenti  e  l'ore 
Ne  portan  gli  anni  e  non  ricevo  inganno. 
Ma  forza  assai  maggior  che  d'arti  maghe 

La  voglia  e  la  ragion  combattut'  hanno  ' 
Sette  e  sett' "*  anni  ;  e  vincerà  ii  migliore, 
S' anime  son  quaggiù  del  ben  presaghe. 

nullo  huom    -  abandona    ■'  spregiona    '  combattuto  anno    ''  sette 

SONETTO  LXXXI.  102 

P-cr  nascondere  alla  gerite  le  sue  a>igosce  aìnorose  ride  e  finge  Lilltirezctt. 

Cesare,  poi  che  '1  traditor  d'  Egitto 
Li  fece  il  don  dell'onorata  testa, 
Celando  l'allegrezza  manifesta. 
Pianse  per  gli  oixhi  fuor,  siccome   è  scritto; 


Rime.  105 

Ed  Annibal,  quand' "^  all' imperio  afflitto 
Vide  farsi  fortuna  sì  molesta, 
Rise  fra  gente  lagrimosa  e  mesta, 
Per  isfogare  il  suo  acerbo  despitto; 

E  così  avven-  che  l'animo  ciascuna 
Sua  passion  sotto  '1  contrario  manto 
Ricopre  con  ''  la  vista  or  chiara  or  bruna. 

Però,  s' alcuna  volta  i'"*rido  o  canto. 

Facciol  perch'i' non  ho^'  se  non  quest'una 
Via  da  celare  il  mio  angoscioso  pianto. 
^  HanibaI  quando     ''  aven     "  co    *  io    ■'  o 

SONETTO  LXXXII  {Var.  arg.  XI).      103 

A  Stefano  Colonna,    perchè   segua  il  corso  di  sua  vittoria  contro  gli 

Orsini. 

Vinse  Annibal,  ^  e  non  seppe  usar  poi 

Ben  la  vittoriosa  sua  ventura; 

Però,  Signor  mio  caro,  aggiate  cura 

Che  similmente  non  avvegna-  a  voi. 
L'orsa,  rabbiosa  per  gli  orsacchi  suoi 

Che  trovaron  di  maggio  aspra  pastura. 

Rode  se  dentro,  e  i   denti  e  1'  unghie  indura-'^ 

Per  vendicar  suoi  danni  sopra  noi. 
Mentre '1  novo  dolor  dimque  l'accora, 

Non  riponete  l'onora'ca  spada, 

Anzi  seguite  là  dove  vi  chiama 
Vostra  fortuna  dritto  per  la  strada 

Che  vi  può  dar,   dopo  la  morte  ancora^ 

Mille  e  miir'*anni,  al  mondo  onore**  e  fama. 
*  hanibal     -  aveE:na     ■'  endura     *  anchora     ^  mille     *'  honor 

SONETTO  LXXXIII  (Var.  arg.  XII).    104 

Alla   virtù   del   Malatesta,    cK  ei  vuol  render  i>;iyrtcrtale ,    scrivendo  in 

sua  lode. 

L'aspettata  virtù,  ^  che  'n  voi   fioriva 

Quando  Amor  cominciò  darvi  battaglia.'^ 
Produce  or  frutto  che  quel  fiore  agguaglia,^ 
E  che  mia  speme  fa  venire  a  riva. 


106  Petrarca. 

Però  mi  dice  '1  cor  ^  eh'  io  in  carte  scriva 
Cosa  onde '1  vostro  nome  in  pregio  saglia; 
Che  'n  nulla  parte  sì  saldo  s' intaglia, 
Per  far  di  marmo  una  persona  viva. 

Credete  voi  che  Cesare  o  Marcello 
O  Paolo  od  African''  fossin  cotali 
Per  incude  giammai  né  per  martello? 

Pandolfo  mio,   quest'  opere  son  frali 

Al  lungo  andar,  ma '1  nostro  studio  é  quello 
Che  fa  per  fama  gli  uomini  immortali. 

'  aspectata  vertu     '-'  bataglia     -  sguaglia    ■*  il  core     •"'  aifrican 

CANZONE  XI.  105 

Delibera  di'  volersi  partire  dall'amore  di  Laura 

Mai  non  vo'  più  cantar  ^  com'  io  soleva. 

Ch'altri  non  m'intendeva;  ond' ebbi  scorno: 

E  puossi  in  bel  soggiorno  esser  molesto. 

Il  sempre  sospirar  nulla  rileva.  ^ 

Già  su  per  1'  alpi  neva  d'  ogn'  intorno  : 

Ed  è  già  presso  al  giorno;  ond' io  son  desto. 

Un  atto"  dolce  onesto"^  è  gentil  cosa: 

Ed  in  donna  amorosa  ancor''  m'aggrada 

Che  'n  vista  vada  altera  e  disdegnosa, 

Non  superba  e  ritrosa. 

Amor  regge  suo  imperio  senza  spada. 

Chi  smarrit  ha^  la  strada,   torni  indietro; 

Chi  non  ha'  albergo,  posisi  in  sul  verde: 

Chi  non  ha^  l'auro  o '1  perde. 

Spenga  la  sete  sua  con  un  bel   vetro. 

^cantare     '^  releva      •''  acto     *  honesto      ^  anchor      '■  s'-o-irrita  a 
a     '^  '.'. 

r  die' in  guardia  a  San  Pietro;  or  non  più.   no; 
Intendami  chi  può,'   eh' i' m'intend' io. 
Grave  sorna  f^  un  rn^il   fio  a  mantenerlo. 
(j^^)ii:into'^   piJi:io   ;ni  iij.  ■lio,   <-  -^^j{  mi  sto. 


Rime.  107 

Fetonte  odo  che 'n  Po  cadde,  e  morie; 

E  già  di  là  dal  rio  passato  è  '1  merlo: 

Deh''^  venite  a  vederlo:  or  io'*  non  voglio. 

Non  è  gioco  uno  scoglio  in  mezzo  1'  onde, 

E  'ntra  le  fronde  il  visco.  Assai  mi  doglio, 

Quand'"'un  soverchio  orgoglio 

Molte  virtuti*^  in  bella  donna  asconde. 

Alcun  è  che  risponde  a  chi  noi  chiama; 

Altri  chi '1  prega,  si  dilegua'  e  fugge; 

Altri  al  ghiaccio  si  strugge; 

Altri  dì  e  notte  la  sua  morte  brama. 

pò    ^  Quando    •'  De    *  i     ''  Quando    ^  vertuti     "'  delegua 

Proverbio,  ama  chi  t'ama,  è  fatto  antico. 

r^so  ben  quel  ch'io  dico.  Or  lassa"  andare; 

Che  conven  eh'  altri  impare  alle  sue  spese. 

Un'  umiF'  donna  gra.ma  un  dolce  amico. 

Mal  si  conosce  il  fico.  A  me  pur  pare 

Senno  a  non  cominciar '^  tropp'alte  imprese: 

E  per  ogni  paese  è  buona •''  stanza. 

L'infinita  speranza  occide  altrui: 

Ed  anch'  io  fui  alcuna  volta  in  danza. 

Quel  poco  che  m'avanza, 

Pia  chi  noi  schifi  s'  i'  '1  vo'  dare  a  lui. 

l'mi  fido  in  colui  che '1  mondo  regge 

E  eh'  e'  seguaci  suoi  nel  bosco"  alberga, 

Che  con  pietosa  verga 

Mi  meni  a  pasco''  omai  tra  le  sue  gregge. 
!o     -  lass     ■■  humi!     *  cominciare     "'  bona    ^  boscho     '  passo 

Forse  ch'ogni  uom  che  legge  non  s'intende; 
E  la  rete  tal  tende  che  non  piglia; 
E  chi  troppo  assottiglia^   si  scavezza. 
Non  sia  zoppa  la  legge  ov'  altri  attende. 
Per  bene  star  si  scende  molte  miglia. 
Tal  par  gran  maraviglia,  ^  e  poi  sì  spregia. 
Una  :-^'h\<-^-^   ì.p^iu^-;,  è  pi,;\  :5oave. 


108  Petrarca. 

Benedetta  la  chiave  che  s'avvolse 

Al  cor,  e  sciolse  l'alma,  e  scossa  l'ave 

Di  catena  sì  grave, 

E  'nfiniti  sospir  del  mio  sen  tolse. 

Là  dove  più  mi  dolse,  altri  si  dole; 

E  dolendo  addolcisce'^  il  mio  dolore; 

Ond'io  ringrazio^  Amore 

Che  più  noi  sento;  ed  è  non  men  che  suole. 

'  assotiglla     -  meravìglia    ^  adolcisse     '  ringratio 

In  silenzio^  parole  accorte  e  sagge, 

E '1  suon  che  mi  sottragge  ogni  altra  cura, 

E  la  prigion-  oscura  ov' è '1  bel  lume; 

Le  notturne^  viole  per  le  piagge, 

E  le  fere  selvagge  entr'  alle^  mura, 

E  la  dolce  paura  e  M  bel  costume, 

E  di  duo  fonti  un  fiume  in  pace  volto 

Dov'  io  bramo,   e  raccolto  ove  che  sia; 

Amor  e  gelosia  m'hanno  '1^  cor  tolto; 

E  i  segni  del  bel  volto, 

Che  mi  conducon  per  più  piana  via 

Alla  speranza  mia,  al  fin  degli  affanni. 

O  riposto  mio  bene;  e  quel  che  ssgue: 

Or  pace  or  guerre"  or  tregue,^ 

Mai  non  m'  abbandonate  in  questi  panni. 

1  sileiitio    -'  pregione    "  nocturne    '  entra  le    ''  marmo  il    "  puerra 
'  triegue 

De'  passati  miei  danni  piango  e  rido, 
Perchè  molto  mi  fido  in  quel  eh'  i'  odo. 
Del  presente  mi  godo  e  meglio  aspetto; 
E  vo  contando  gli  anni;  e  taccio,  e  grido; 
E'n  bel  ramo  m'annido,  ed  in  tal  modo, 
Ch' i' ne  ringrazio ^  e  lodo  il  gran  disdetto. 
Che  l'indurato  affetto-  al  fine  ha'^  vinto, 
E  nell'alma  dipinto:*  i' sare' udito, 
E  mostratone  a  dito;  ed  hanne  estinto.^' 


Rime.  109 

Tanto  innanzi**  son  pinto, 

Ch' i' iP  pur  dirò:  non  fostu  tanto*  ardito. 

Chi  m'ha'l^  fianco  ferito  e  chi '1  risalda, 

Per  cui  nel  cor  via  più  che 'n  carte ^^  scrivo; 

Chi  mi  fa  morto  e  vivo: 

Chi  'n  un  punto  m'  agghiaccia  e  mi  riscalda. 

'  ringratio    -  affecto    'a    *  depinto    *  anne  extinto    *  inangi    '  1 
*  tant    ^  mal    i°  carta 

MADRIGALE  111.  106 

AUegoricamenti-:  descrive  le  circostanze  del  suo  dolce  innamor amento. 

Nova  angeletta  sovra  V  ale  accorta 
Scese  dal  cielo  in  su  la  fresca  riva 
Là  ondMo^  passava  sol  per  mio  destino 
Poi  che  senza  compagna  e  senza  scorta 
Mi  vide,  un  laccio,  che  di  seta  ordiva. 
Tese  fra  1'  erba  ond'  è  verde  il  cammino. 
AUor  fui  preso;  e  non  mi  spiacque  poi; 
Sì  dolce  lume   uscia  degli  occhi  suoi. 

^  Landio 

SONETTO  LXXXIV.  107 

Si  duole  che  gli  o<:chi  di  Laura  gli  sieno  sempre  presenli  nella  mev.'i  e 
.    fuori,  e  sempre  lo  incendano. 

Non  veggio  ove  scampar  mi  possa  omai: 
Sì  lunga  guerra  i  begli  occhi  mi  fanno, 
Ch'io^  temo,  lasso,  no '1  soverchio  affanno 
Distrugga '1-  cor,  che  triegua  non  ha''  mai. 

Fuggir  vorrei;  ma  gli  amorosi  rai. 
Che  dì  e  notte  nella  mente  stanno, 
Risplendon  sì,  ch'ai  quintodecim' '^  anno 
M'abbaglian  più  che '1  primo  giorno  assai: 

E  l'immagini  "^  lor  son  sì  cosparte, 

Che  volver  non  mi  posso  ov'  io  non  veggia 
0  quella  o  simii,  indi  accesa,  luce. 


1 1 0  Petrarca. 

Solo  d'un   l.niii'c   lai  selva  verdeg^fin 

Che  '1  mio  avversario*''  con  mirabil  arte 
Vago  fra  i  rami,  ovunque  vuol,  m'adduce. 

^  Chi     -  Distrugal     "a    *  quintcdecimo     •'  limagine    ^''  adver5.ario 

SONETTO  LXXXV.  i08 

Volgesi   lieto   a   salutar   Quel  terreno  dove  Laura  cortese  lo  riguardò  e 
domanda  ancora  maggior  cosa  cioè  o  lagrimetta  o  sospiro. 

Avventuroso  più  d'altro  terreno, 
Ov'  Amor  vidi  già  fermar  le  piante, 
Ver  me  volgendo  quelle  luci  sante, 
Che  fanno  intorno  a  se  1'  aere  sereno; 

Prima  poria  per  tempo  venir  meno 
Un'  immagine^  salda  di  diamante, 
Che  r  atto  dolce  non  mi  stia  davante, 
Del  qual  ho^  la  memoria  e  '1  cor  sì  pieno. 

Né  tante  volte  ti  vedrò  giammai,' 

Ch'  i'  non  m' inchini  a  ricercar  dell'  orme 
Che  '1  bel  pie  fece  in  quel  cortese  giro. 

Ma  se'n  cor  valoroso  Amor  non  dorme, 
Prega  Sennuccio  mio  quando  '1  vedrai, 
Di  qualche  lagrimetta  o  d'un  sospiro. 

A  irnafjine     '  o    ^  giamai 

SONETTO  LXXXVI.  109 

Loda  quel  luogo  dove  aveva  veduto  Laura  verso  lui  più  pietosa. 

Lasso,  quante  fiate  Amor  m'assale. 

Che  fra  la  notte  e '1  dì  son  più  di  mille, 
Torno  dov'  arder  vidi  le  faville 
Che  '1  foco   del  mio  cor  fanno  immortale. 
•     Ivi  m'acqueto:  e  son  condotto  a  tale, 

Ch'  a  nona,  a  vespro,  all'alba  ed  alle  squille 
Le  trovo  nel  pensier  tanto  tranquille 
Che  di  null'altro  mi  rimembra  o  cale. 


Rime.  Il  j 

L'aura  soave,  che  dai  chiaro  viso 
Move  col  suon  delle  parole  accorte, 
Per  far  dolce  sereno  ovunque  spira; 

Quasi  un  spirto  gentil  di  Paradiso 

Sempre  in  quell'aere  par  che  mi  conforte; 
Sì  che  '1  cor  lasso  altrove  non  respira. 

SONETTO  LXXXVII.  HO 

Sopratizinyiiagli  Laura  quando  men   se  l  aspettava  non  si  atienia  pure 

di  parlarle. 

Perseguendomi  Amor  al  luogo  usato, 

Ristretto  in  guisa  d'uom  ch'aspetta  guerra. 
Che  si  provvede'   e  i  passi  intorno  serra. 
De'  mie"  antichi  pensier  mi  stava  armato. 

Volsimi,  e  vidi  un'  ombra  che  da  lato 
Stampava  il  sole,  e  riconobbi  in  terra 
Quella  che,  se  '1  giudicio  mio  non  erra, 
Era  più  degna  d'immortale  stato. 

r   dicea  fra  mio  cor:  perchè  paventi? 

Ma  non  fu  prima  dentro  il  penser  giunto, 
Che  i  raggi  ov'  io  mi  struggo  eran  presenti. 

Come  col  balenar  tona  in  un  punto. 
Così  fu'  io  da'  "'  begli  occhi  lucenti 
E  d'un  dolce  saluto  insieme"  aggiunto. 
^  provede     -'  de     ^  inseme 

SONETTO  LXXXVIII.  HI 

//  dolce  e  pietoso  saluto  della  sua  Donna  lo  rende  estatico  dal  piacere 
La  Donna  che  '1  mio  cor  nel  viso  porta. 
Là  dove  sol  fra  bei  pensier  d'amore 
Sedea.  m'apparve;  ed  io  per  farle  onore ^ 
Mossi  con  fronte  reverente  e  smorta. 
Tosto  che  del  mio  stato  fussi  accorta, 
A  me  si  volse  in  sì  novo  colore, 
Ch'  avrebbe  a  Giove  nel  maggior  lurore 
Tolto  l'arme  di  mano  e  l'ira  morta. 


j  J2  Petrarca. 

r  mi  riscossi;  ed  ella  oltra.  parlando, 
Passò,  che  la  parola  i'  non  soffersi, 
Nè'l  dolce  sfavillar  degli  occhi  suoi. 

Or  mi  ritrovo  pian  di  sì  diversi 
Piaceri,  in  quel  saluto  ripensando, 
Che  duol  non  sento,  né  sentii-  ma    poi. 
'  honore    "^  senti 

SONETTO  LXXXIX.  112 

Sisnifica  il  suo  staio  a  Sennuccio,  come  sia  iraiiato  da  Laura,  e  comi 
egli  viva  nel  pensiero  di  lei. 
Sennuccio,  i' vo' che  sappi  ^  in  qual  maniera - 
Trattato^  sono,  e  qual  vita  è  la  mia. 
Ardomi  e  struggo  ancor*  com'  io  solia; 
Laura  mi  volve;  e  son  pur  quel  eh'  i'  m  era. 
Qui  tutta  umile^  e  qui  la  vidi  altera. 
Or  aspra  or  piana,  or  dispietata  or  pia; 
Or  vestirsi  onestate»  or  leggiadria, 
Or  mansueta  or  disdegnosa  e  fera. 
Qui  cantò  dolcemente,  e  qui  s'  assise; 
Qui  si  rivolse  e  qui  rattenne  il  passo; 
Qui  co'  begli  occhi  mi   trafisse  il  core; 
Qui  disse  una  parola,  e  qui  sorrise; 

Qui  cangiò '1  viso.    In  questi  pensier  lasso. 
Notte-  e  dì  tienmi  il  signor  nostro,  Amore. 
1  sapi     -  manera      •  Tractato      '  anchor      -^  humile     "  honestato 
'  Nocte 

SONETTO  XC.  113 

La  '.ola  vista  di  Valchiu.sa  gli  fa  dimenticare  tutti  i  pericoli  di  quel  viaggio. 
Qui,  dove  mezzo  son,  Sennuccio  mio, 
(Così  ci  foss'  io  intero,  e  voi  contento) 
Venni  fuggendo  la  tempesta  e '1  vento  i 

Channo  subito  fatto  il  tempo  rio. 
Qui  son  securo  :  e  vovvi  ^  dir  perch'  io 
Non,  come  soglio,  il  folgorar  pavento; 
E  perchè  mitigato,  non  che  spento, 
Né  mica-   trovo  il  mio  ardeiite  desio. 


Rime.  1 12 

Tòsto  che,  giunto  all'  amorosa  reggia, 
Vidi  onde  nacque  Laura  dolce  e  pura, 
Ch'  acqueta  l'aere  e  mette  i  tuoni  in  bando  ; 

Amor  neir  alma,  ov'  ella  signoreggia. 
Raccese  iP  foco,  e  spense  la  paura: 
Che  farei'*  dunque  gli  occhi  suoi  guardando! 
1  vovi    '  micha    '  1    *  farrei 

SONETTO  XCI.  114 

Tornato  a  Valchìusa,  brama  solo  la  pace  con  Laura  e  Vonore  delColonnese. 
Dell'  empia  Babilonia,  ond'  è  fuggita 
Ogni  vergogna,  ond'  ogni  bene  è  fori, 
Albergo  di  dolor,  madre  d'  errori, 
Son  f uggit'  ^  io  per  allungar  la  vita. 
Qui  mi  sto  solo,  e,  come  Amor  m' invita. 
Or  rime  e  versi,  or  colgo  erbette^  e  fiori, 
Seco  parlando,  ed  a'  tempi  migliori 
Sempre  pensando;  e  questo  sol  m'aita. 

Ne  del  vulgo  mi  cai  né  di  fortuna. 
Né  di  me  molto  né  di  cosa  vile, 
Né  dentro  sento  né  di  fuor  gran  caldo. 

Sol  due  persone  cheggìo;  e  vorrei  l'una 
Col  cor  ver  me  pacificato  e  umile,  ^ 
L'altro  col  pie,  sì  come  mai  fu,  saldo. 

fuggito    '  horbette    '  humile 

SONETTO  XCII.  115 

Voltasi  Laura  a  salutarlo,  il  Sole  per  gelosia  si  ricopre  con  una  nube 
In  mezzo  di  duo  amanti  onesta'  altera 
Vidi  una  donna,  e  quel  signor  con'^  lei. 
Che  fra  gli  uomini  regna  e  fra  gli'^  Dei; 
E  dall'un  lato  il  Sole,  io  dall'altr'era. 
Poi  che  s'  accorse  chiusa  dalla  spera 
Dell'  amico  più  bello,  agli  occhi  miei 
Tutta  lieta  si  volse;  e  ben  vorrei. 
Che  mai  non  fosse  inver  di  me  più  fera. 
Bìbl.  rom    12.15.  8 


1  14  Petrarca. 

Subito  in  allegrezza  si  converse 

La  gelosia  che  'n  su  la  prima  vista, 

Per  sì  alto  avversario,*  al  cor  mi  nacque. 

A  lui  la  faccia  lagrimosa  e  trista 
Un  nuviletto  intorno  ricoverse: 
Cotanto  r  esser  vinto  li  dispiacque. 
1  honesta     -  co     *  li    *  adversario 

SONETTO  xeni.  116 

Non   desidera,    non   contempla  e  non  trova  che  la  sola  immagine  della 

sua  donna. 

Pian  di  quella  ineffabile  dolcezza 

Che  del  bel  viso  trassen  gli  occhi  miei 
Nel  dì  che  volentier  chiusi  gli  avrei 
Per  non  mirar  giammai  minor  bellezza, 

Lassai  quel  eh' i' più  bramo;  ed  ho'  sì  avvezza 
La  mente  a  contemplar  sola  costei, 
Ch'  altro  non  vede,  e  ciò  che  non  è  lei 
Già  per  antica  usanza  odia  e  disprezza. 

In  una  valle  chiusa  d'  ogni  'ntorno, 
Oh'  è  refrigerio  de'  sospir  miei  lassi, 
Giunsi  sol  con"'^  Amor,  pensoso  e  tardo. 

Ivi  non  donne,  ma  fontane  e  sassi, 
E  l'immagine'*  trovo  di  quel  giorno 
Che  '1  pensier  mio  figura  ovunqu''*  io  sguardo. 
1  o    "cu    *  imagine    *  ovunque 

SONETTO  XCIV.  117 

Se  veder  potesse  la  casa  di  Laura,  i  sospiri  le  giugnerebbero  più  spediti. 

Se  '1  sasso  end'  è  più  chiusa  questa  valle. 
Di  che  '1  suo  proprio  nome  si  deriva. 
Tenesse  volto,  per  natura  schiva, 
A  Roma  il  viso  ed  a  Babel  le  spalle; 

I  miei  sospiri  più  benigno  calle 

Avrian  per  gire  ove  lor  spene  è  viva; 
Or  vanno  sparsi  e  pur  ciascuno  arriva 
Là  dov'io'l^  mando,  che  sol  un  non  falle. 


Rime.  116 

E  son  di  là  sì  dolcemente  accolti, 

Com'  io  m'  accorgo,  che  nessun  mai  torna: 
Con  tal  diletto  in  quelle  parti  stanno. 

Degli  occhi  è  '1  duol  ;  che  tosto  che  s'  aggiorna, 
Per  gran  desio  de'  be'  luoghi  a  lor  tolti, 
Danno  a  me  pianto,  ed  a'  pie  lassi  affanno. 

il 

SONETTO  XCV.  118 

Contuttoché  si  volga  il  sestodecimo  anno  del  suo  affanno  ed  abbia  noiosa 
vita  e  si  sia  provato  di  lasciare  Laura  non  muta  proponimento  d'amarla. 

Rimansi  addietro  il  sestodecim'^  anno 
De' miei  sospiri;  ed  io  trapasso  innanzi ^ 
Verso  r  estremo  ;  ^  e  parmi  che  pur  dianzi 
Fosse  '1  principio  di  cotanto  affanno. 

L'amar  m'  è  dolce,  ed  util  il  mio  danno, 
E '1  viver  grave;  e  prego  ch'egli  avanzi 
L'  empia  fortuna;  e  temo  non*  chiuda  anzi 
Morte  i  begli  occhi  che  parlar  mi  fanno. 

Or  qui  son,  lasso,  e  voglio  esser  altrove, 
E  vorrei  più  volere,  e  più  non  voglio, 
E  per  più  non  poter  fo  quant'  io  posso. 

E  d'  antichi  desir  lagrime  nove 

Provan  com'  io  son  pur  quel  eh'  i'  mi  soglio. 
Ne  per  mille  rivolte  ancor  son*^  mosso. 
^  sestodecimo     ^  inangi     '  extremo    *  no    *  an  . . . .  on 

CANZONE  XII  (Var.  arg.  III).  119 

5'  è  innamorato  della  Gloria,  perch'essa  gli  mostrerà  la  strada  della  Virtù- 

Una  donna  più  bella  assai  che  '1  sole 
E  più  lucente,  e  d'  altrettanta  etade. 
Con  famosa  beltade, 

Acerbo  ancor,  ^  mi  trasse  alla  sua  sch'-ra. 
Questa  in  pensieri,  ^  in  opre  ed  in  parole 
(Però  eh'  è  delb  cose  al  mondo  rade),  6 

Questa  per  mille  strade 
Sempre  innanzi^  mi  fu  leggiadra,  alterar 


116  Petrarca. 

Solo  per  lei  tornai  'da  quel  eh'  f  era. 

Poi  eh' i' soffersi  gli  oeehi  suoi  da  presso: 

Per  suo  amor  m'  er'  io  messo 

A  fatieosa  impresa  assai  per  tempo; 

Tal  che  s' i'  arrivo  al  desiato*  porto, 

Spero  per  lei  gran  tempo 

Viver,  quand'  altri  mi  terrà  per  morto. 

*  anchor    '  penseri    '  inan^i    *  disiato 

Questa  mia  donna  mi  menò  molt'  anni 
Pien  di  vaghezza  giovenile  ardendo, 
Siceom'^  ora  io  eomprendo, 
Sol  per  aver  di  me  più  eerta  prova, 
Mostrandomi  pur  1'  ombra  o  'I  velo  o'  panni 
Talor  di  se,  ma'l  viso  nascondendo  ;  6 

Ed  io,  lasso,  credendo 
Vederne  assai,  tutta  1'  età  mia  nova 
Passai  contento,  e  '1  rimembrar  mi  giova. 
Poi  eh'  alquanto  di  lei  veggi'  or  più  innanzi,* 
r  dico  che  pur  dianzi, 
Qual  io  non  1'  avea  vista  infin  allora, 
Mi  si  scoverse;  onde  mi  nacque  un  ghiaccio 
Nel  core,  ed  ewi  ancora,'* 
E  sarà  sempre  fin  eh'  i'  le  sia  in  braccio. 

^  Sicome    '  inangi    ^  anchora 

Ma  non  mei  tolse  la  paura  o '1  gelo;^ 

Che  pur  tanta  baldanza  al  mio  cor  diedi, 

Ch'  i'  le  mi  strinsi  a'  piedi 

Per  più  dolcezza  trar  degli  occhi  suoi: 

Ed  ella,  che  rimosso'^  avea  già  il  velo 

Dinanzi  a'  miei,  mi  disse:  amico,  or  vedi  6 

Com'  io  son  bella;  e  chiedi 

Quanto  par  si  convenga  agli  anni  tuoi. 

Madonna,  dissi,  già  gran  tempo  in  voi 

Posi  '1  mio  amor,  eh'  io^  sento  or  ^  'nfiammato;* 


Rime.  1 1 7 

Ond'  a  me  in  questo  stato, 

Altro  volere  o  disvoler  m'  è  tolto. 

Con  voce  allor  di  sì  mirabil  tempre 

Rispose,  e  con  un  volto, 

Che  temer  e  sperar  mi  farà  sempre: 

*  gielo    -  remosso    '  chi     *  infiammato 

Rado  fu  al  mondo,  fra  così  gran  turba. 
Ch'  udendo  ragionar  del  mio  valore. 
Non  si  sentisse  al  core. 
Per  breve  tempo  almen,  qualche  favilla; 
Ma  l'avversaria'  mia,  che '1  ben  perturba. 
Tosto  la  spegne;  ond'  ogni  vertù  more,  6 

E  regna  altro  signore. 
Che  promette  una  vita  più  tranquilla. 
Della  tua  mente  Amor,  che  prima  aprilla, 
Mi  dice  cose  veramente  ond'  io 
Veggio  ch  '1  gran  desio 
Pur  d'  onorato  fin  ti  farà  degno  ; 
E  come  già  se'  de'  miei  rari  amici, 
Donna  vedrai  per  segno, 
Che  farà  gli  occhi  tuoi  via  più  felici. 

1  ladversaria 

r  volea  dir:  quest'è  impossibil  cosa; 

Quand'  ella:  or  mira,  e  leva  gli  occhi  un  poco, 

In  più  riposto  loco 

Donna  eh' a  pochi  si  mostrò   giammai. 

Ratto  inchinai  la  fronte  vergognosa, 

Sentendo  novo  dentro  maggior  foco  6 

Ed  ella  il  prese  in  gioco. 

Dicendo  :  i'  veggio  ben  dove  tu  stai. 

Siccome  '1  Sol  co'  ^  suoi  possenti  rai 

Fa  subito  sparir 2  ogni  altra  stella, 

Così  par  or  men  bella 

La  vista  mia,  cui  maggior  luce  preme. 


1 1 8  Petrarca. 

Ma  io  però  da' miei  non  ti  diparto; 
Che  questa  e  me  d'un  seme, 
Lei  davanti  e  me  poi,  produsse  un  parto. 
^  con     ^  sparire 

Ruppesi  intanto  di  vergogna  il  nodo 
Ch'  alla  mia  lingua  era  distretto  intorno 
Su  nel  primiero  scorno, 
AUor  quand'  io  dei  suo  accorger  m'  accorsi; 
E 'ncominciai:  s'egli  è  ver  quel  eh' i' odo. 
Beato  il  padre  e  benedetto  il  giorno  6 

C  ha  di  voi  'l^  mondo  adorno, 
E  tutto  '1  tempo  eh'  a  vedervi  io  corsi  ! 
E  se  mai  dalla  via  dritta  mi  torsi, 
Ducimene  forte,  assai  più  eh'  i'  non  mostro. 
Ma  se  dell'  esser  vostro 
Fossi  degno  udir  più,  del  desir  ardo. 
Pensosa  mi  rispose,  e  così  fiso 
Tenne '1 2  suo  dolce  sguardo, 
Ch'  al  cor  mandò  con''  le  parole  il  viso. 
MI    MI    «co 

Siccome  piacque  al  nostro  eterno  padre, 
Ciascuna  di  noi  due  nacque  immortale. 
Miseri  1  a  voi  che  vale? 
Me'  v'  era  che  da  noi  fosse  '1  difetto.^ 
Amate,  belle,  gioveni  e  leggiadre 
Fummo  alcun  tempo;  ed  or  siam  giunte  a  tale,  ó 
Che  costei  batte  1'  ale 
Per  tornar  all'antico ^  suo  ricetto; 
r  per  me  sono  un'  ombra;  ed  or  t'  ho^  detto, 
Quanto  per  te  sì  breve  intender  puossi. 
Poi  che  i  pie  suoi  fur  mossi, 
Dicendo:  non  temer  eh'  i'  m'  allontani. 
Di  verde  lauro  una  ghirlanda  colse. 
La  qual  con*  le  sue  mani 
Intorno  intorno  alle  mie  tempie  avvolse.^ 
'  il  d»fecto     -  antiche    '  o    *  co    ''  avolse 


Rime.  119 

Canzon,  chi  tua  ragion  chiamasse  oscura,^ 
Di':  non  ho'^  cura,  perchè  tosto  spero 
Ch'  altro  messaggio  il  vero 
Farà  in  più  chiara  voce  manifesto. 
Io*  venni  sol  per  isvegliare  altrui, 
Se  chi  m' impose  questo,  6 

Non  m' ingannò^  quand'  io  partii^  da  lui. 
*  obscura    *  o    'I     *  mingano     ^  parti 

SONETTO  XCVI  (Var.  arg.  XIII).       120 

A  M.  Anionio  de^  Beccar i  Ferrarese  per  acquetarlo  e  tarlo  certo  cK ei 

vive  ancora. 

Quelle  pietose  rime,  in  eh'  io  m'  accorsi 
Di  vostro  ingegno  e  del  cortese  affetto,* 
Èbben  tanto  vigor  nel  mio  cospetto," 
Che  ratto  a  questa  penna  la  man  porsi, 

Per  far  voi  certo  che  gli  estremi*^  morsi 
Di  quella  eh'  io  con  tutto  '1  mondo  aspetto, 
Mai  non  sentii;*  ma  pur  senza  sospetto 
Infin  all'  uscio  del  suo  albergo  corsi; 

Poi  tornai  'ndietro,'^  perch'  io  vidi  scritto® 
Di  sopra '1  limitar,  che '1  tempo  ancora'^ 
Non  era  giunto,  al  mio    viver  prescritto; 

Bench'  io  non  vi  leggessi  ^  il  dì  né  1'  ora. 

dunque  s'acqueti  omai '1  cor  vostro  afflitto; 
E  cerchi  uom  ^  degno,  quando  sì  1'  onora. 

1  affecto      ^  conspetto      '  extremi     *  senti     *  indietro     ®  scripto 
'  anchora    *  legassi    *•  huom 

MADRIGALE  IV.*  121 

Eccita  Amore  a  far  vendetta  di  Laura,  che  superba  di  sprezza  il  suo  regno. 
Or  vedi.  Amor,  che  giovenetta  donna 

Tuo  regno  sprezza  e  del  mio  mal  non  cura, 
E  tra  duo  ta'  nemici  è  sì  secura. 
Tu  se'  armato,  ed  ella  in  trecce ^  e  'n  gonna 
Si  siede  e  scalza  in  mezzo  i  fiori  e  l'erba, 
Ver  me  spietata  e  contro^  te  superba. 


1 20  Petrarca. 

1' son  prigion;^  ma  se  pietà  ancor*  sorba 

L'arco  tuo  saldo,  e  qualcuna*  saetta, 

Fa  di  te  e  di  me,  signor,  vendetta. 

'  Scritto  d' altra  mano.     ^  treccie    •''  encontra    *  pregion    "  anchor 
'  qual  chuna 

SONETTO  XCVII.  122 

Prova  in  se  che  l'abito  non  si  lascia,  benché  abbiasene  danno,  e  desidera 
0  di  liberarsi  dall'amore  o  d'amare  moderatamente  e  a  suo  senno. 

Dicesett'^  anni  ha'^  già  rivolto  il  cielo 

Poi  che'n*^  prima  arsi  e  giammai  non  mi  spensi; 
Ma  quando  avven*  eh'  al  mio  stato  ripensi, 
Sento  nel  mezzo  delle  fiamme  un  gelo.* 

Vero  è  '1  proverbio,  eh'  altri  cangia  il  pelo 
Anzi  che  '1  vezzo  ;  e  per  lentar  i  sensi, 
Gli  umani  affetti **  non  son  meno  intensi: 
Ciò  ne  fa  l'ombra  ria  del  grave  velo. 

Oimè  lasso;  e  quando  fia  quel  giorno 
Che  mirando 'P  fuggir  degli  anni  miei, 
Esca  del  foco  e  di  sì  lunghe  pene? 

Vedrò  mai'l'^  dì  che  pur  quant' io  vorrei 
Queir®  aria  dolce  del  bel  viso  adorno 
Piaccia  a  quest'  occhi,  e  quanto  si  convene? 
1  Dicesette     *  a     '  chem     *  aven      '  gielo     "  affecti     *  il     *  11 
'Quel 

SONETTO  XCVIII.  123 

Laura  impallidisce  alla  novella  ch'egli  debba  da  lei  allontanarsi. 
Quel  vago  impallidir  che  '1  dolce  riso 
D'  un'  amorosa  nebbia  ricoperse. 
Con  tanta  maestade^  al  cor  s'offerse, 
Che  li  si  fece  incontro^  a  mezzo  '1  viso. 
Conobbi  allor  sì  come  in  paradiso 

Vede  l'un  l'altro;  in  tal  guisa  s'aperse 
Quel  pietoso  pensier,'*  ch'altri  non   scerse. 
Ma  vidil'io,  ch'altrove  non  m'affiso. 
Ogni  angelica  vista,  ogni  atto  umile* 

Che  giammai  in  donna,  ov'amor  fosse,  apparve 
Fora  uno  sdegno  a  lato  a  quel  eh'  i'  dico. 


Rime.  121 

Chinava  a  terra  il  bel  guardo  gentile, 
E  tacendo  dicea  (com''^  a  me  parve)  : 
Chi  m'  allontana  il  mio  fedele  amico? 

^  maiestade    ^  incontra    ^  penser    *  humile     °  come 

SONETTO  XCIX.  124 

Amore,  Fortuna  e  memoria  del  passato  vietangU  di  sperare  giorni  felici 

Amor,  Fortuna,  e  la  mia  mente  schiva 
Di  quel  che  vede  e  nel  passato  volta, 
M'affliggon  sì,  ch'io  porto  alcuna  volta 
Invidia  a  quei  che  son  su  l'altra  riva. 

Amor  mi  strugge '1  cor;  fortuna  il  priva 
D'ogni  conforto,  onde  la  mente  stolta 
S'adira  e  piagne:^  e  così  in  pena  molta 
Sempre  conven  che  combattendo  viva. 

Ne  spero  i  dolci  dì  tornino  indietro, 

Ma  pur  di  male  in  peggio  quel  eh'  avanza; 
E  di  mio  corso  ho*  già  passato  il**  mezzo. 

Lasso,  non  di  diamante,  ma  d'un  vetro. 
Veggio  di  man  cadérmi  ogni  speranza, 
E  tutt'  i  miei  pensier  romper  nel  mezzo. 

*  piange    *  o    '1 

CANZONE  XIII.  125 

Si  duole  che  tutte  le  vie  da  mitigare  il  suo  dolore  sieno  vane. 

Se'l  pensier  che  mi  strugge, 
Com'è  pungente  e  saldo, 
Così  vestisse  d'un  color  conforme, 
Forse  tal  m'arde  e  fugge, 
Ch'avria  parte  del  caldo, 

E  desteriasi  Amor  là  dov'  or  dorme;  6 

Men  solitarie  l'orme 
Foran  de' miei  pie  lassi 
Per  campagne  e  per  colli: 
Men  gli  occhi  ad  ogni'  or  molli; 


122  retr:ircA. 

Ardendo  lei  che  come  un  ghiaccio  sta^ 
•    E  non  lassa  2  in  me  dramma 
Che  non  sia  foco  e  fiamma. 
'  ogn    '  lascia 

Però  ch'Amor  mi  sforza 
E  di  saver  mi  spoglia, 
Parlo  in  rim'^  aspre  e  di  dolcezza  ignuda. 
Ma  non  sempre  alla  scorza 
Ramo,  nè'n'^  fior,  né 'n  foglia, 
Mostra  di  fuor*  sua  naturai  virtude.*  6 

Miri  ciò  che  '1  cor  chiude, 
Amor  e  que'begli  occhi 
Ove  si  siede  all'ombra. 
Se  '1  dolor  che  si  sgombra 
Avven^  che 'n  pianto  o  'n*  lamentar  trabocchi 
L'un  a  me  noce,  e  l'altro 
Altrui,  ch'io  non  Io  scaltro. 
^  rime    *  in    *  for    *  vertude    *  aven    "  in 

Dolci  rime  leggiadre 

Che  nel  primiero  assalto 
D'Amor  usai,  quand'io  non  ebbi  altr'arme. 
Chi  verrà  mai  che  squadre 
Questo  mio  cor  di  smalto, 

Ch' almen,  com'io  solca,  possa  sfogarme?  6 

Ch'  aver  dentr'^  a  lui  parme 
Un  che  Madonna  sempre 
Dipinge,^  e  di*^  lei  parla: 
A  voler  poi  ritrarla. 

Per   me  non  basto;  e  par  eh'  io  me  ne  stempre. 
Lasso,  così  m'è  scorso 
Lo  mio  dolce  soccorso. 
'  dentro    '  depinge    *  de 

Come  fanciul  eh'  appena^ 
Volge  la  lingua  e  snoda: 
Che  dir  non  sa.  ma '1  più  tacer  gli  è^  noia, 


Rime.  123 

Così  '1  desir  mi  mena 

A  dire;  e  vo'che  m'oda 

La  mia  dolce ^  nemica  anzi  ch'io  moia.  6 

Se  forse  ogni  sua  gioia 

Nel  suo  bel  viso  è  solo, 

E  di  tutt' altre"*  è  schiva; 

Odil  tu,  verde  riva, 

E  presta  a'  miei  sospir  sì  largo  volo, 

Che  sempre  si  ridica 

Come  tu  m'  eri  amica. 

*  a  pena    ^  gle    '  dolce  mia    *  altro 

Ben  sai  che  sì  bel  piede 

Non  toccò  ^  terra  unquanco,^ 

Come  quel,  di  che  già  segnata  fosti: 

Onde  '1  cor  lasso  riede 

Col  tormentoso  fianco^ 

A  partir  teco  i  lor  pensier  nascosti.  6 

Così  avestu  riposti 

De' bei*  vestigi  sparsi 

Ancor '^  tra'  fiori  e  1'  erba; 

Che  la  mia  vita  acerba 

Lagrimando  trovasse  ove  acquetarsi. 

Ma  come  può^  s'appaga 

L'alma  dubbiosa  e  vaga. 

*  tocche    ^  unquancho    ^  fiancho    *  be    **  Anchor    "  pò 

Ovunque  gli  occhi  volgo, 
Trovo  un  dolce  sereno, 
Pensando:  qui  percosse  il  vago  lume. 
Qualunque  erba^  o  fior  colgo. 
Credo  che  nel  terreno 

Aggia  radice,  ov'ella  ebbe  in  costume  6 

Gir  fra  le  piagge  e  '1  fiume, 
E  talor  farsi  un  seggio 
Fresco,  fiorito  e  verde. 


124  Petrarca. 

Così  nulla  sen  perde; 
E  più  certezza  averne,  fora  il  peggio. 
Spirto  beato,  quale 
Se',  quando  altrui  fai  tale? 
^  herba 

O  poverella  mia,  come  se' rozza 
Credo  che  tei  conoscili: 
Rimanti  in  questi  boschi. 

CANZONE  XIV.  126 

Disperandosi  il  Poeta  delibera  di  morire  nel  luogo  dove  già  V aveva  veduta. 

Chiare,  fresche  e  dolci  acque. 
Ove  le  belle  membra 
Pose  colei  che  sola  a  me  par  donna; 
Gentil  ramo,  ove  piacque 
(Con  sospir  mi  rimembra) 

A  lei  di  fare  al  bel  fianco^  colonna;  6 

Erba*  e  fior,  che  la  gonna 
Leggiadra  ricoverse 
Con^  l'angelico  seno; 
Aer*  sacro  sereno, 

Ov'^  Amor  co'  begli  occhi  il  cor  m'  aperse  ; 
Date  udienza®  insieme 
Alle  dolenti  mie  parole  estreme.' 
'  fiancho    '  Herba     ^  Co    *  Aere    ^  Ove    •  udien^ia     '  extreme 

S'  egli  è  pur  mio  destino 
(E  il^  Cielo  in  ciò  s'adopra) 
Ch'  Amor  quest'  occhi  lagrimando  chiuda. 
Qualche  grazia^  il  meschino 
Corpo  fra  voi  ricopra, 

E  torni  l'alma  al  proprio  albergo  ignuda.  6 

La  morte  fia  men  cruda 
Se  questa  speme*  porto 
A  quel  dubbioso  passo; 


Rime.  126 

Che  lo  spirito  lasso 
Non  porìa  mai  in  più  riposato  porto 
Né  'n*  più  tranquilla  fossa 
Fuggir  la  carne  travagliata  e  l'ossa. 
^  El    ^  grati  a    *  spene    *  in 

Tempo  verrà  ancor  ^  forse, 
Ch'  air  usato  soggiorno 
Torni  la  fera  bella  e  mansueta, 
E  là  Velia  mi  scorse 
Nel  benedetto  giorno, 

Volga  la  vista  desiosa*  e  lieta,  6 

Cercandomi;  ed,  o  pietà! 
Già  terra  infra  le  pietre 
Vedendo,  Amor  l'inspiri 
In  guisa  che  sospiri 
Sì  dolcemente  che  mercè  m'impetre, 
E  faccia  forza  al  Cielo, 
Asciugandosi  gli  occhi  col  bel  velo. 

*  anchor    "^  disiosa 

Da' be' rami  scendea 
(Dolce  nella  memoria) 
Una  pioggia  di  fior  sovra  '1  suo  grembo; 
Ed  ella  si  sedea 
Umile  ^  in  tanta  gloria, 

Coverta  già  dell'  amoroso  nembo.  6 

Qual  fior  cadea  sul  lembo, 
Qual  su  le  trecce^  bionde, 
Ch'oro  forbito  e  perle 
Eran  quel  dì  a  vederle; 
Qual  si  posava  in  terra,  e  qual  su  l'onde; 
Qual  con  un  vago  errore 
Girando,  parca  dir:  qui  regna  Amore. 

*  Humile    ^  treccie 

Quante  volte  diss'io 
Allor  pien  di  spavento: 


126  Pptrarc?. 

Costei  per  fermo  nacque  in  Paradiso  1 

Così  carco  d'obblio^ 

Il  divin  portamento 

E  '1  volto  e  le  parole  e  '1  dolce  riso  6 

M'aveano,  e  sì  diviso 

Dall'immagine^  vera, 

Ch'i'  dicea  sospirando: 

Qui  come  venn'io,  o  quando? 

Credendo  esser  in  Ciel,  non  là  dov'  era. 

Da  indi  in  qua  mi  piace 

Quest'erba'^  sì,  ch'altrove  non  ho'  pace. 

•  oblio    ^  imagine    ^  Questa  herba    *  o 

Se  tu  avessi  ornamenti  quant'hai^  voglia, 
Potresti^  arditamente 
Uscir  del  bosco '^  e  gir  infra  la  gente. 

^  ai    ^  potesti    *  boscho 

CANZONE  XV.  127 

Lontano  da  Laura,  si  conforta  trovando  la  sua  immagine  da  per  tutto. 

In  quella  parte  dov' Amor  mi  sprona, 
Conven  eh'  io  volga  le  dogliose  rime. 
Che  son  seguaci  della  mente  afflitta^ 
Quai  fien  ultime,  lasso,  e  qua'  fien  prime? 
Colui  ^  che  del  mio  mal  meco  ragiona. 
Mi  lascia  in  dubbio;  sì  confuso  ditta.  6 

Ma  pur  quanto  l'istoria'*  trovo  scritta* 
In  mezzo  '1  cor,  che  sì  spesso  rincorro. 
Con'"'  la  sua  propria  man,  de' miei  martiri, 
Dirò;  perchè  i  sospiri, 

Parlando,  han^  triegua,  ed  al  dolor  soccorro. 
Dico  che,  perch'  io  miri 
Mille  cose  diverse  attento  e  fiso. 
Sol  una  donna  veggio  e  '1  suo  bel  viso. 

^  affllcta    •  collui    '  lastoria    *  scripta    'co    '  an 


Rime.  127 

Poi  che  la  dispietata  mia  ventura 

M  'ha^  dilungato  dal  maggior  mio  bene, 
Noiosa,  inesorabile^  e  superba; 
Amor  col  rimembrar  sol  mi  mantene: 
Onde  s' io  veggio  in  giovenil  figura 
Incominciarsi  '1^  mondo  a  vestir  d'erba,  6 

Farmi  veder*  in  quella  etate  acerba 
La  bella  giovenetta,  eh'  ora  è  donna. 
Poi  che  sormonta  riscaldando  il  sole, 
Parmi  qual  esser  sole 

Fiamma  d'amor  che  'n  cor  alto  s'indonna;^ 
Ma  quando  il  dì  si  dole 
Di  lui  che  passo  passo  addietro®  torni, 
Veggio  lei  giunta  a'  suoi  perfetti  '  giorni. 
^  a    ^  inexorabile    ^  il    ^  vedere    ^  sendonna   "  a  dietro  '  perfecti 

In  ramo  fronde,  ovver^  viole 'n^  terra 
Mirando  alla  stagion  che  '1  freddo  perde, 
E  le  stelle  migliori^  acquistan  forza. 
Negli  occhi  he*  pur  le  violette  e  '1  verde 
Di  ch'era  nel  principio  di^  mia  guerra 
Amor  armato  sì  ch'ancor^  mi  sforza;  6 

E  quella  dolce  leggiadretta  scorza 
Che  ricopria  le  pargolette  membra, 
Dov''oggi  alberga  l'anima  gentile, 
Ch'  ogni  altro  piacer  vile 
Sembrar^  mi  fa;  sì  forte  mi  rimembra 
Del  portamento  umile,* 

Ch'  allor  fioriva,  e  poi  crebbe  anzi  agli  anni, 
Cagion  sola  e  riposo  de'  mie'  affanni. 

*  over     *  in     ^  miglior     *  o     ^  de    **  anchor     '  Dove    ^  Sembiar 
humile 

Qualor  tenera  neve  per  li  colli 

Dal  Sol  percossa  veggio  di  lontano. 
Come  '1  Sol  neve  mi  governa  Amore, 
Pensando  nel  bel  viso  più  che  umano,* 
Che  può®  da  lunge  gli  occhi  miei  far  molli. 


t28  Petrarca. 

Ma  da  presso  gli  abbaglia,  e  vince  il  core;        6 

Ove,  fra  '1  bianco^  e  1'  aureo  colore. 

Sempre  si  mostra  quel  che  mai  non  vide 

Occhio  mortai,  ch'io  creda,  altro  che  '1  mio; 

E  del  caldo  desio, 

Ch'  è  quando  i'  sospirando  *  ella  sorride, 

M'infiamma  sì  che  obblio^ 

Niente  apprezza,®  ma  diventa  eterno; 

Né  state  il  cangia,  né  lo  spegne  il  verno. 

*  humano    'pò     ^  bianche    *  quando  sosp.     *  oblio    "  aprezza 

Non  vidi  mai  dopo  notturna'  pioggia 
Gir  per  l'aere  sereno  stelle  erranti, 
E  fiammeggiar  fra  la  rugiada  e  '1  gelo."^ 
Ch' i' non  avessi''  i  begli  occhi  davanti. 
Ove  la  stanca*  mia  vita  s'  appoggia, 
Qual'^io  gli  vidi  all'ombra  d'un  bel  velo:  6 

E  siccome  di  lor  bellezze  il  cielo 
Splendea  quel  dì,  così,  bagnati  ancora,^ 
Li  veggio  sfavillar:'  ond' io  sempr'^  ardo. 
Se  '1  Sol  levarsi  sguardo, 
Sento  il  lume  apparir  che  m'innamora; 
Se  tramontarsi  al  tardo, 
Parmel  veder  quando  si  volge  altrove, 
Lassando  tenebroso  onde  si  move. 

*  nocturna      ^  gielo      '  avesse      *  stancha      "  Quali      ^  anchora 
^  sfavillare    •*  sempre 

Se  mai  candide  rose  con  vermiglie 
In  vasel  d'oro  vider  gli  occhi  miei, 
Allor  allor  da  vergine  man  colte; 
Veder  pensaro  il  viso  di  colei 
Ch'avanza  tutte  l'altre  maraviglie^ 
Con  tre  belle  eccellenzie^  in  lui  raccolte:  6 

Le  bionde  trecce'  sopra '1  collo  sciolte, 
Ov'  ogni  latte*  perderla  sua  prova, 
E  le  guance,*^  eh'  adorna  un  dolce  foco. 
Ma  pur  che  l'ora  un  poco 


Rime.  1 29 

Fior  bianchi  e  gialli  per  le  piagpfe  mova, 
Torna  alla  mente  il  loco 
E  '1  primo  dì  eh'  i'  vidi  a  l'aura  sparsi 
I   capei  d'oro,  ond'  io  sì  subit'^  arsi. 
^  meraviglie     "  excellentie     "  treccie    ^  lacte    ^  guancia    ^  subit' 

Ad  una  ad  una  annoverar  le  stelle, 

E  'n  picciol  vetro  chiuder  tutte  l'acque 
Forse  credea,  quando  in  sì  poca  carta 
Novo  pensieri   di  ricontar  mi  nacque 
In  quante  parti '^  il  fior  dell'altre  belle, 
Stando  in  se  stessa,  ha'*  la  sua  luce  sparta        6 
Acciocché^  mai  da  lei  non  mi  diparla; 
Né  farò  io;  e  se  pur  talor  fuggo, 
In  cielo  e 'n  terra  m'ha  racchiusi^  i  passi; 
Perchè '^  agli  occhi  miei  lassi 
Sempre  è  presente,  ond' io  tutto  mi  struggo; 
E  così  meco  stassi, 

Ch'  altra  non  veggio  mai,  ne  veder  bramo. 
Né  '1  nome  d'  altra  ne'  sospir  miei  chiamo. 
^  penser    '"  quanti  parte    ''a    ^  A  ciò  che    ^  ma  rachiuso    ''  Perch 

Ben  sai,  Canzon,  che  quant'  io  parlo  é  nulla 
Al  celato  amoroso  mio  pensiero,^ 
Che  dì  e  notte ^  nella  mente  porto; 
Solo  per  cui  conforto 
In  così  lunga  guerra  anco^  non  pero; 
Che  ben  m'  avria  già  morto  6 

La  lontananza  del  mio  cor  piangendo; 
Ma  quinci  dalla   morte  indugio  prendo. 
^  penserò     -  nocte     ^  ancho 

CANZONE  XVI  (Var.  arg.  IV).  Ì28 

Grandi  d' Italia,  eccitandoli    a  liberarla  una   volta   dalla  dura  sua 
chiavi  tu. 

Italia  mia,  benché  '1  parlar  sia  indarno 

Alle  piaghe  mortali 

Che  nel  bel  corpo  tuo  sì  spesse  veggio, 

Bibl.  rem.  12/15.  9 


130  Petrarca. 

Piacemi  almen  eh'  e'  miei  sospir  sien  ^  quali 

Spera '1  Tevero  e  l'Arno, 

E  '1  Po,  dove  doglioso  e  grave  or  seggio. 

Rettor  del  ciel,^  io  cheggio 

Che  la  pietà  che  ti  condusse  in  terra, 

Ti  volga  al  tuo  diletto''  almo  paese: 

Vedi,  Signor*^  cortese. 

Di  che  lievi  cagion  che  crudel  guerra; 

E  i  cor,  che  'ndura  e  serra 

Marte  superbo  e  fero. 

Apri  tu,  Padre,  e  'ntenerisci  e  snoda  ; 

Ivi  fa  che  '1  tuo  vero 

(  Qual  io  mi  sia)  per  la  mia  lingua  s'  oda. 

*  sian     -  cielo     *  dilecto    *  segnor 

Voi  cui  fortuna  ha^  posto  in  mano  il  freno 
Delle  belle  contrade. 
Di  che  nulla  pietà  par  che  vi  stringa, 
Che  fan  qui  tante  pellegrine  spade? 
Perchè  '1  verde  terreno 
Del  barbarico  sangue  si  dipinga?-^ 
Vano  error  vi  lusinga; 
Poco  vedete  e  parvi  veder  molto. 
Che  'n  cor  venale  amor  cercate  o  fede. 
Qual  più  gente  possedè. 
Colui  è  più  da' suoi  nemici  avvolto.^ 
O  diluvio  raccolto 
Di  che  deserti  strani 
Per  innondar*  i  nostri  dolci  campi! 
Se  dalle  proprie  mani 
Questo  n'avven,*  or  chi  fia  che  ne  scampi? 

1  a    *  depinga    *  avolto    *  inondar    ^  avene 

Ben  provvide^  Natura  al  nostro  stato. 
Quando  dell'Alpi  schermo 
Pose  fra  noi  e  la  tede.sca  rabbia; 


Rime.  131 

Ma  *1  deslr  cieco  e  'ncontra  '1  suo  ben  fermo 

S'  è  poi  tanto  ingegnato, 

Ch'  al  corpo  sano  ha^  procurato  scabbia.  6 

Or  dentro  ad  una  gabbia 

Fere^  selvagge  e  mansuete  gregge 

S'  annidan  sì  che  sempre  il  miglior  geme: 

Ed  è  questo  del  seme, 

Per  più  dolor,  del  popol  senza  legge, 

Al  qual,  come  si  legge, 

Mario  aperse  sì  '1  fianco. 

Che  memoria  dell'  opra  anco*  non  langue, 

Quando,  assetato  e  stanco. 

Non  più  bevve  del  fiume  acqua,  che  sangue. 

'  provide    ^  a    *  Fiere    *  ancho 

Cesare  taccio,  che  per  ogni  piaggia 
Fece  l'erbe  sanguigne 
Di  lor  vene,  ove  '1  nostro  ferro  mise. 
Or  par,  non  so  per  che  stelle  maligne. 
Che  '1  Cielo  in  odio  n'  aggia: 
Vostra  mercè,  cui  tanto  si  commise.  6 

Vostre  voglie  divise 
Guastan  del  mondo  la  più  bella  parte. 
Qual  colpa,  qual  giudicio  o  qual  destino 
Fastidire  il  vicino 

Povero,  e  le  fortune  afflitte^  e  sparte 
Perseguire,  e  'n  disparte 
Cercar  gente,  e  gradire 

Che  sparga  '1  sangue  e  venda  l'alma  a  prezzo? 
Io  parlo  per  ver  dire. 
Non  per  odio  d'altrui  né  per  disprezzo. 

^  afflicte 

Ne  v'accorgete  ancor,^  per  tante  prove, 
Del  bavarico  inganno. 
Che,  alzando  '1^  dito,  con  la'^  morte  scherza? 


1 32  Petrarca. 

Peggio  è  lo  strazio,  al  mio  parer,  che  '1  danno 

Ma  '1  vostro  sangue  piove 

Più  largamente;  eh'  altr'  ira  vi  sferza.  6 

Dalla  mattina^  a  terza 

Di  voi  pensate,  e  vederete  come 

Tien  caro  altrui  chi-^  tien  se  così  vile. 

Latin  sangue  gentile, 

Sgombra  da  te  queste  dannose  some: 

Non  far  idolo  un  nome 

Vano,  senza  soggetto; 

Che '1  furor  di*'  lassù,  gente  ritrosa, 

Vincerne  d'intelletto,' 

Peccato  è  nostro  e  non  naturai  cosa. 

'  anchor    -Chalzando  il    ^  colla    *  matina    'che    ®  de    '  intelkctc 

Non  è  questo '1  terren  eh' i' toccai  ^  pria? 
Non  è  questo  '1^  mio  nido, 
Ove  nudrito  fui  sì  dolcemente? 
Non  è  questa  la  patria  in  ch'io  mi  fido, 
Madre  benigna  e  pia, 

Che  copre  l'uno^  e  l'altro  mio  parente?  6 

Per  Dio,  questo  la  mente 
Talor  vi  mova,  e  con  pietà  guardate 
Le  lagrime  del  popol  doloroso, 
Che  sol  da  voi  riposo 
Dopo  Dio  spera:  e  pur  che  voi  mostriate 
Segno  alcun  di  pietate, 
Virtù  ^  centra  furore 

Prenderà  l'arme;  e  fia '1  combatter  corto; 
Che  l'antico  •''  valore 
Nell'italici  cor  non  è  ancor ^  morto. 
'  tocchai     '  il     ^  lun     *  Vertu     ^  lantiquo    "  anchor 

Signor,   mirate  come  '1  tempo  vola. 
E  sì  come  la  vita 

Fugge    e  la  morto  n'è  sovra  le  spalle. 
Voi  siete  or  qui:  pensate  alla  partita; 


Riir 


133 


Che  l'alma  ignuda  e  sola 

Conven  eh'  arrive  a  quel  dubbioso  calle.  t 

Al  passar  questa  valle, 
Piacciavi  porre  giù  l'odio  e  lo  sdegno, 
Venti  contrari  alla  vita  serena; 
E  quel  che  'n  altrui  pena 

Tempo  si  spende,  in  qualche  atto^   più  degno, 
O  di  mano  o  d'ingegno, 
In  qualche  bella  lode. 
In  qualche  onesto'-^  studio  si  converta. 
Così  quaggiù  si  gode, 
E  la  strada  del  ciel  si  trova  aperta. 
^  acto     -  honesto 

Canzone,  io  t'ammonisco 
Che  tua  ragion  cortesemente  dica: 
Perchè  fra^  gente  altera  ir  ti  conviene 2 
E  le  voglie  son  piene 
Già  dell'usanza  pessima  ed  antica 
Del  ver  sempre  nemica.  5 

Proverai  tua  ventura 
Fra  magnanimi  pochi  a  chi  '1  ben  piace: 
Di'  lor:  chi  m'assicura? 
r  vo  gridando:  pace,  pace,  pace. 
*  tra  (?)    ^  convene 

CANZONE  XVII.  129 

intano  da  Laura  racconta  come  trapassi  il  tempo  con  minore  noia. 
Di  pensier  in  pensier,  di  monte  in  monte 
Mi  guida  Amor;  eh'  ogni  segnato  calle 
Provo  contrario  alla  tranquilla  vita. 
Se  'n  solitaria  piaggia,  rivo  o  fonte, 
Se'n  fra  duo  poggi  siede  ombrosa  valle, 
Ivi  s'  acqueta  1'  alma  sbigottita;  6 

E  com'^  Amor  la  'nvita,^ 
Or  ride  or  piagne ^  or  teme  or  s' assicura:  * 


^34  Petrarca. 

E  '1  volto  che  lei  segue,  ov'  ella  il  mena, 

Si  turba  e  rasserena, 

Ed  in  un  esser  picciol  tempo  dura; 

Onde  alla  vista  uom^  di  tal  vita  esperto "^ 

Diria:  questi'  arde,  e  di  suo  stato  è  incerto. 

'come   "lenvita  'piange    *  sassecura  ^  huom    "  experto    'questo 

Per  alti  monti  e  per  selve  aspre  trovo 
Qualche  riposo;  ogni  abitato^  loco 
È  nemico  mortai  degli  occhi  miei. 
A  ciascun  passo  nasce  un  pensieri  novo 
Della  mia  donna,  che  sovente  in  gioco 
Gira  il^  tormento  eh' i' porto  per  lei;  6 

Ed  appena*  vorrei 

Cangiar  questo  mio  viver  dolce  amaro, 
Ch'i' dico:  forse  ancor '^  ti  serva  Amore 
Ad  un  tempo  migliore; 
Forse  a  te  stesso  vile,  altrui  se'  caro  : 
Ed  in  questa  trapasso  sospirando: 
Or  potrebb'  '^  esser  vero?  or  come?  or  quando? 

'  habitato    ^  pensar    M    *  a  pena     ^  anchor    «  porrebbe 

Ove  porge  ombra  un  pino  alto  od  un  colle. 
Talor  m'arresto,  e  pur  nel  primo  sasso 
Disegno  con^  la  mente  il  suo  bel  viso. 
Poi  eh'  a  me  torno,  trovo  il  petto  molle 
Della  pietate;  ed  allor^  dico:  ahi^  lasso, 
Dove  se' giunto,  ed  onde  se' diviso!  6 

Ma  mentre  tener  fiso 
Posso  al  primo  pensier  la  mente  vaga, 
E  mirar  lei,  ed  obbliar^  me  stesso, 
Sento  Amor  sì  da  presso. 
Che  del  suo  proprio  error  l'alma  s'  appaga: 
In  tante  parti ^  e  sì  bella  la  veggio. 
Che  se  l'error  durasse,  altro  non  cheggio. 

^  co     '  alor     '  ai     '  obliar     *  tanti  parte 


Rime.  135 

r  r  ho^  più  volte  (or  chi  fia  che  mel^  ci'eda?) 
Nell'acqua  chiara  e  sopra  l'erba  verde 
Veduta^  viva,  e  nel  troncone  d'un  faggio, 
E  'n  bianca  nube,  sì  fatta  che  Leda 
Avria  ben  detto  che  sua  figlia  perde, 
Come  stella  che '1  Sol  copre  col  raggio;  6 

E  quanto  in  più   selvaggio 
Loco  mi  trovo  e  'n  più  deserto  lido, 
Tanto  più  bella  il  mio  pensier  l'adombra. 
Poi  quando  '1^  vero  sgombra 
Quel  dolce  error,  pur  lì  medesmo  assido 
Me  freddo,  pietra  morta  in  pietra  viva, 
In  guisa  d'uom  che  pensi  e  pianga  e  scriva. 

o    '  mil    ^  Veduto    *  tronchon     ^  il 

Ove  d'altra  montagna  ombra  non  tocchi, 
Verso '1  maggior^  e '1  più  spedito ^  giogo 
Tirar  mi  suol  un  desiderio  intenso. 
Indi  i  miei  danni  a  misurar  con  gli  occhi 
Comincio,  e  'ntanto  lagrimando  sfogo 
Di  dolorosa  nebbia  il  cor  condenso,  6 

Allor"  eh'  i'  miro  e  penso. 
Quanta  aria  dal  bel  viso  mi  diparte. 
Che  sempre  m'  è  sì  presso  e  sì  lontano. 
Poscia  fra  me  pian  piano: 
Che  fai^  tu  lasso?  forse  in  quella  parte 
Or  di  tua  lontananza  si  sospira: 
Ed  in  questo  pensier*  l'alma  respira. 

maggiore     -  expedito     '^  Alor    *  sai     ^  penser 

Canzone,  oltra  quell'  alpe, 

Là  dove'P  ciel  è  più  sereno  e  lieto, 
Mi  rivedrai  sovr'  un  ruscel  corrente. 
Ove  r  aura  si  sente 
D'un  fresco  ed  odorifero  laureto. 
Ivi  è '1  mio  cor,  e  quella  che '1  m'invola;  6 

Qui  veder  puoi  l'immagine-  mia  sola, 
'  il    ■■'  poi  limagine 


136  Petrarca. 

SONETTO  C.  130 

Allontanatosi  da  Laura,  piange,  sospira,  e  si  conforta  colla  sua  immagine. 
Poi  che  '1  cammin  m'  è  chiuso  di  mercede, 
Per  disperata^  via  son  dilungato 
Dagli  occhi  ov'  era  (i'  non  so  per  qual  fato) 
Riposto  il  guidardon  d'ogni  mia  fede. 
Pasco  '1  cor  di  sospir,  ch'altro  non  chiede, 
E  di  lagrime  vivo,  a  pianger  nato: 
Né  di  ciò  ducimi,  perchè  in  tale  stato 
È  dolce  il  pianto  più  eh'  altri  non  crede. 
E  solo-  ad  una  immagine^  m' attegno, 
Che  fé  non  Zeusi  o  Prassitele'^  o  Fidia, 
Ma  miglior  mastro  e  di  più  alto  ingegno. 
Qual  Scizia^  m'  assicura  o  qual  Numidla, 
S'ancor^'  non  sazia'  del  mio  esilio^  indegno, 
Così  nascosto  mi  ritrova  invidia? 
1  desperata      -  sol      "  imagine      *  Ceusi    o    Prasitele       "'  Scithia 
^  anchor     '  satia    "'  ex  ilio 

SONETTO  CI.  131 

Dice  che  s'ei  potesse  parlare  in  presenza  di  Laura,  direbbe  tali  cose,  che 

ella  non  solamente  gli  avrebbe  compassione,   ma  s'innamorerebbe  e  gli 

compiacerebbe  di  ciò  ch'egli  desidera. 

Io  canterei  d'amor  sì  novamente, 

Ch'  al  duro  fianco^  il  dì  mille  sospiri 
Trarrei  per  forza,  e  mille  alti  desiri 
Raccenderei  nella  gelata  mente; 

E  '1  bel  viso  vedrei  cangiar  sovente, 
E  bagnar  gli  occhi,  e  più  pietosi  giri 
Far,  come  suol  chi^  degli  altrui  martiri 
E  del  suo  error,  quando  non  vai,  si  pente; 

E  le  rose  vermiglie  infra  la  neve 
Mover  dall'  ora,  e  discovrir  l'avorio. 
Che  fa  di  marmo  chi  da  presso '1  guarda; 

E  tutto  quel,  perchè  nel  viver  breve 

Non  rincresco  a  me  stesso,  anzi  mi  glorio 
D'esser  servato  alla  stagion  più  tarda. 
^  fiancho    '^  che 


Rime.  137 

SONETTO  CU.  132 

Scrive  una  battaglia  di  pensieri,  che  sente  deìilro  il  suo  cuore,  per  lo  siato 
che  si  trovava. 

S'amor  non  è,  che  dunque  è  quel  ch'i'^  sento? 

Ma  s'  egli  è  amor,  per  Dio,  che  cosa  e  quale? 

Se  buona,^  ond'  è  l'effetto  '  aspro  mortale? 

Se  ria,  ond'  è  sì  dolce  ogni  tormento? 
S'  a  mia  voglia  ardo,  ond'  è  '1  pianto  e'I*  lamento? 

S'  a  mal  mio  grado,  il  lamentar  che  vale? 

0  viva  morte,  e  dilettoso^  male. 

Come  puoi  tanto  in  me  s' io  noi  consento? 
E  s'  io  '1  consento,  a  gran  torto  mi  doglio. 

Fra  sì  contrari  venti,  in  frale  barca 

Mi  trovo  in  alto  mar,  senza  governo, 
Sì  lieve  di  saver,  d'error  sì  carca, 

Ch'  i'  medesmo  non  so  quel  eh'  io  mi  voglio, 

E  tremo  a  mezza  state,  ardendo  il  verno. 
^  io     -  bona    '  leffecto    *  e    ''  dilectoso 

SONETTO  CUI.  133 

Racconta  le  cagioni  della  sua  miseria  sotto  quattro  similitudini,  le  quali 
tutte  dice  procedere  da  Laura. 

Amor  m'  ha^  posto  come  segno  a  strale, 
Come  al  Sol  neve,  come  cera  al  foco, 
E  come  nebbia  al  vento;  e  son  già  roco, 
Donna,  mercè  chiamando,  e  voi  non  cale 

Dagli  occhi  vostri  uscio  '1  colpo  mortale. 
Centra  cui  non  mi  vai  tempo  né  loco; 
Da  voi  sola  procede  (e  parvi  un  gioco) 
Il  Sole  e  '1  foco  e  '1  vento,  ond'  io  son  tale. 

I  pensier  son  saette,  e  '1  viso  un  Sole, 

E '1  desir  foco;  e'nsieme'^   con  quest'arme 
Mi  punge  Amor,  m'  abbaglia  e  mi  distrugge. 

E  l'angelico  canto,  e  le  parole, 

Col  dolce  spirto,  ond'  io  non  posso  aitarme, 
Son  l'aura  innanzi*^  a  cui  mia  vita  fugge. 
'  a    *  enseme     *  inangi 


138  r -trarci 

SONETTO  CIV.  134 

Scrive  lo  stato  nel  quale  si  trova  per  cagione  di  Laura.    Ne'  primi  otto 

'jersi  dice  che  è  incerto  se  sia  amato  o  no.  Negli  altri,  dice  che  è  ridotto 

a  pessimo  stato. 

Pace  non  trovo,  e  non  ho^  da  far  guerra; 

E  temo  e  spero,  ed  ardo,  e  son  un  ghiaccio; 

E  volo  sopra'!  cielo,  e  giaccio  in  terra; 

E  nulla  stringo,  e  tutto  '1  mondo  abbraccio. 
Tal  m'  ha^  in  prigione  che  non  m'apre  né  serra, 

Né  per  suo  mi  ritien*  né  scioglie  il  laccio; 

E  non  m'  ancide  Amor^  e  non  mi  sferra, 

Né  mi  vuol  vivo  né  mi  trae  d'impaccio. 
Veggio  senz'^  occhi  ;  e  non  ho  '  lingua,  e  grido  : 

E  bramo  di  perir,  e  cheggio  aita; 

Ed  ho^  in  odio  me  stesso,  ed  amo  altrui: 
Pascomi  di  dolor,  piangendo  rido; 

Egualmente  mi  spiace  morte  e  vita. 

In  questo  stato  son,  Donna,  per  vui.® 
^  o    'a    '  pregion    *  riten    ^  amore    ®  senza    '  o    ■■  o    ■'  voi 

CANZONE  XVIII.  135 

Assomiglia  se  a  qualunque  più  nuova  cosa  sia  in  estranio  clima. 
Qual  più  diversa  e  nova 

Cosa  fu  mai  in  qualche  stranio  clima, 
Quella,  se  ben  si  stima,^ 
Più  mi  rassembra;  a  tal  son  giunto,  Amore. 
Là,  onde  '1^  dì  ven  fore. 

Vola  un  augel,  che  sol,  senza  consorte,  6 

Di  volontaria  morte 
Rinasce,  e  tutto  a  viver  si  rinnova.^ 
Così  sol  si  ritrova 
Lo  mio  voler,  e  così  in  su  la  cima 
De'  suoi  alti  pensieri  al  Sol  si  volve, 
E  così  si  risolve, 

E  così  torna  al  suo  stato  di  prima; 
Arde,  e  more,  e  riprende  i  nervi  suoi; 
E  vive  poi  con  la  Fenice  a  prova. 
'  SBStJma    '  il    "'  rinova 


Rime.  1 39 

Una  pietra^  è  sì  ardita 

Là  per  l'indico  mar,  che  da  natura 

Tragge  a  se  il  ferro,  e  '1  fura 

Dal  legno  in  guisa  che  i  navigi^  affonde. 

Questo  prov'  io  fra  l'onde 

D'amaro  pianto;  che  quel  bello  scoglio  6 

Ha^  col  suo  duro  orgoglio* 

Condotta  ov'^  affondar  conven  mia  vita: 

Così  l'alma  ha  sfornita® 

(Furando  '1  cor,  che  fu  già  cosa  dura, 

E  me  tenne  un,  eh'  or  son  diviso  e  sparso) 

Un  sasso  a  trar  più  scarso 

Carne  che  ferro.  O  cruda  mia  ventura! 

Che  'n  carne  essendo,  veggio  trarmi  a  riva 

Ad  una  viva,  dolce  calamita. 

^  petra     ®  che  navigi     '  A     ^  argoglio     *  Condutta  ove    ''  lalma 
afornita 

Nell'estremo  ^  occidente 

Una  fera  è  soave  e  queta  tanto, 

Che  nulla  più;  ma  pianto 

E  doglia  e  morte  dentro  agli  occhi  porta: 

Molto  convene  accorta 

Esser  qual  vista  mai  ver  lei  si  giri:  6 

Pur  che  gli  occhi  non  miri, 

L'altro  puossi  veder  securamente. 

Ma  io,  incauto,  dolente. 

Corro  sempre  al  mio  male;  e  so  ben  quanto 

N'  ho^  sofferto  e  n'  aspetto;  ma  l'ingordo*'^ 

Voler,  eh'  è  cieco  e  sordo, 

Sì  mi  trasporta,  che  '1  bel  viso  santo 

E  gli  occhi  vaghi,  fien  cagion  eh'  io  pera. 

Di  questa  fera  angelica,  innocente. 

^  extremo    ^  No    '  lengordo 

Surge  nel  mezzogiorno 

Una  fontana,  e  tien  nome  del^  Sole; 


1 40  Petrarca. 

Che  per  natura  sole 

Bollir  le  notti,  e  'n  sul  giorno  esser  fredda; 

E  tanto  si  raffredda 

Quanto  '1  Sol  monta,  e  quanto  è  più  da  presso.   6 

Così  avven^  a  me  stesso, 

Che  son  fonte  di  lagrime  e  soggiorno: 

Quando  '1  bel  lume  adorno, 

Ch'  è  '1  mio  Sol,  s'allontana,  e  triste  e  sole 

Son  le  mie  luci,  e  notte  oscura  è  loro; 

Ardo  allor:  ma  se  l'oro 

E  i  rai  vegg;io  apparir  del  vivo  Sole, 

Tutto  dentro  e  di  for  sento  cangiarme, 

E  ghiaccio  farme;  così  freddo  torno. 

'dal     ^  aven 

Un'  altra  fonte  ha^  Epiro 

Di  cui  si  scrive  eh'  essendo  fredda  ella, 

Ogni  spenta  facella 

Accende,  e  spegne  qual  trovasse  accesa 

L'anima  mia,  eh'  offesa 

Ancor-  non  era  d'amoroso  foco,  6 

Appressandosi  un  poco 

A  quella  fredda  eh'  io  sempre  sospiro. 

Arse  tutta;  e  martire 

Simil  giammai  né  Sol  vide  né  stella; 

Ch'  un  cor  di  marmo  a  pietà  mosso  avrebbe: 

Poi  che  'nfiammata  l'ebbe. 

Rispensela  virtù  '  gelata  e  bella. 

Così  più  volte  ha 'P  cor  racceso  e  spento: 

Io  '1^  so  che  '1  sento;  e  spesso  me  n'  adiro. 

'  a     "-'  Anchor     ^  vertu    *  al    '^  Il 

Fuor  tutt'  i  nostri  lidi, 

Neil'  isole  famose  di  Fortuna. 

Due  fonti  ha:^  chi  dell'  una 

Bea,  mor  ridendo;  e  chi  dell'altra,  scampa 


Rime.  141 

Simil  fortuna  stampa 

Mia  vita,  che  morir  porla  ridendo  6 

Del  gran  piacer  eh'  io  prendo, 

Se  noi  temprassen  dolorosi  stridi. 

Amor,  eh'  ancor  ^  mi  guidi 

Pur  all'ombra  di  fama  occulta  e  bruna, 

Tacerem  questa  fonte,  eh'  ogni  or  piena, 

Ma  con  più  larga  vena 

Veggiam  quando  col  Tauro  il  Sol  s'  aduna 

Così  gli  occhi  miei  piangon  d'ogni  tempo, 

Ma  più  nel  tempo  che  Madonna  vidi. 

■^  a     -  chanchor 

Chi  spiasse,  Canzone, 

Quel  eh'  i'  fo,  tu  puoi^  dir:  Sott'^  un  gran  sasso 

In   una  chiusa  valle,  end'  esce  Sorga, 

Si  sta;  ne  chi  lo  scorga 

V  è,  se  no  Amor,  che  mai  noi  lascia  un   passo, 

E  l'immagine'*  d'una  che  lo  strugge: 

Che  per  se  fugge  tutt'  altre  persone. 

'  poi     '^  Sotto     '  imagine 

SONETTO  CV  (Var.  arg.  XIV).  136 

Inveisce  contro  gli  scandali  che  recava  a  que'  tempi  la  certe  d'Avignone.. 

Fiamma  dal  elei  su  le  tue  trecce^  piova. 
Malvagia,  che  dal  fiume  e  dalle  ghiande. 
Per  r  altru'  -  impoverir  se'  ricca  e  grande, 
Poi  che  di  mal  oprar  tanto  ti  giova: 

Nido  di  tradimenti,  in  cui  si  cova 

Quanto  mal  per  lo  mondo  oggi  si  spande, 
Di'^  vin  serva,   di  letti  ^  e  di  vivande, 
In  cui  lussuria'^  fa  l'ultima  prova. 

Per  le  camere  tue  fanciulle  e  vecchi 
Vanno  trescando,  e  Belzebub  in  mezzo, 
Co'  mantici  e  col  foco  e  con  gli'*  specchi. 


142  Petrarca, 

Già  non  fostu  nudrita  in  piume  al  rezzo, 
Ma  nuda  al  vento,  e  scalza  fra  li'  stecchi; 
Or  vivi  sì,  oh'  a  Dio  ne  venga  il  lezzo. 

^  treccie     -  laltrui     ''De    *  lecti    ^  luxuria    "  co  li    '  gli 

SONETTO  evi  (Var.  arg.  XV).  137 

Predice  a  Roma  la  venuta  di  un  gran   personaggio,   che  la  ritornerà 
air  antica  virtù. 

L'avara  Babilonia  ha^  colmo  '1^  sacco 
D'ira  di  Dio,  e  di  vizi  empi*^  e  rei 
Tanto  che  scoppia;  ed  ha^  fatti  suoi  Dei, 
Non  Giove  e  Palla,  ma  Venere  e  Bacco. 

Aspettando-'*  ragion  mi  struggo  e  fiacco: 
Ma  pur  novo  soldan  veggio  per  lei, 
Lo  qual  farà,  non  già  quand'  io  vorrei, 
Sol  una  sede;  e  quella  fia  in  Baldacco. 

GÌ'  idoli  suoi  saranno  "  in  terra  sparsi, 
E  le  torri  superbe,  al  Giel  nemiche; 
E  suoi  terrier'  di  for,  come  dentr'^  arsi. 

Anime  belle  e  di  virtute  amiche 

Terranno '1*  mondo;  e  poi  vedrem  lui  farsi 
Aureo  tutto  e  pien  dell'opre  antiche. 

^  a     -  il      *  viti]  empii      *  e  da    '••  Aspectando    '^  sarranno     '  Ei 
suoi  torrer    **  dentro    **  il 

SONETTO  CVII  (Var.  arg.  XVI).        138 

Attribuisce    le   reità    della   corte    di  Roma   alle   donazioni  fattele    da 

Costantino. 

Fontana  di  dolore,  albergo  d' ira, 
Scola  d'errori,  e  tempio^   d'eresia; 
Già  Roma,  or  Babilonia  falsa  e  ria, 
Per  cui  tanto  si  piagne-  e  si  sospira: 

O  fucina  d'inganni,  o  prigion''  dira, 

Ove  '1  ben  more,  e  '1  mal   si  nutre  e  cria. 
Di  vivi  inferno;  un  gran  miracol  fia 
Se  Cristo*  teco  al  fine  non  s'adira. 


Rime.  143 

Fondata  in  casta  ed  umil*  povertate, 
Centra  tuoi  fondatori  alzi  le  corna, 
Putta  sfacciata:  e  dov'hai®  posto  spene? 

Negli  adulteri  tuoi,  nelle  mal  nate 

Ricchezze  tante?  or  Constantin  non  torna. 
Ma  tolga  il  mondo  tristo  che  '1  sostene. 

^  tempio    ^  piange    *  pregion    ■*  xpo     '^  humil    ^  dove  ai 

SONETTO  CVIII  (Var.  arg.  XVII).      139 

Lontano   da'  suoi    amici,    vola  tra   lor   col    pensiere  e   vi  si   arresta 

col  cuore. 

Quanto  più  disiose  1'  ali  spando 

Verso  di  voi,  o  dolce  schiera  amica, 
Tanto  Fortuna  con  più  visco  intrica 
Il  mio  volare,  e  gir  mi  face  errando. 

Il  cor,  che  mal  suo  grado  attorno^  mando, 
È  con  voi  sempre  in  quella  valle  aprica, 
Ove  '1  mar  nostro  più  la  terra  implica: 
L'altr'  ier  da  lui  parti'  mi'^  lagrimando. 

r  da  man  manca,  e'  tenne  il  cammin  dritto; 

r  tratto  a  forza,  ed  e'  d'Amor«  scorto; 

Egh  in  Gierusalem,^  ed  io  in  Egitto.* 
Ma  sofferenza  è  nel  dolor  conforto; 

Che  per  lungo  uso,  già  fra  noi  prescritto,^ 

Il  nostro  esser  insieme  è  raro  e  corto. 

'  a  torno    *  partimi    '  Jerusalem    *  egipto    ^  prescripto 

SONETTO  CIX.  140 

Si  scusa  perchè  non  palesi  gli  affanni  suoi  a  Laura,  onde  possa  trovar 
rimedio,  né  però  vuole  lasciare  di  amarla. 

Amor,  che  nel  pensieri  mio  vive  e  regna, 
E  '1  suo  seggio  maggior  nel  mio  cor  tene, 
Talor  armato  nella  fronte  vene, 
Ivi  si  loca  ed  ivi  pon  sua  insegna. 


144  Petrarca. 

Quella  eh'  amare  e  sofferir  ne  'nsegna. 
E  vuol^  che  '1  gran  desio,  l'accesa  spene, 
Ragion,  vergogna  e  reverenza  affrene; 
Di  nostro  ardir  fra  se  stessa  si  sdegna. 

Onde  Amor  paventoso  fugge  al  core, 

Lassando'^  ogni  sua  impresa,  e  piange  e  trema; 
Ivi  s'asconde,   e  non  appar  più  fore. 

Che  poss'io  far,  temendo  il  mio  Signore, 
Se  non  star  seco  infin  all'ora  estrema?^ 
Che  bel  fin  fa  chi  ben  amando  more. 
^  penser    ^  voi     ''  Lasciando    *  extrema 

SONETTO  ex.  141 

Paragona  se  stesso  alla  farfalla  che,  volando  negli  occhi  altrui,   trova 

la  morte. 

Come  talora  al  caldo  tempo  sole 

Semplicetta  farfalla  al  lume  avvezza^ 
Volar  negli  occhi  altrui  per  sua  vaghezza, 
Ond'  avven''^  ch'ella  more,  altri  si  dole; 

Così  sempr'  io*^  corro  al  fatai  mio  sole 
Degli  occhi  onde  mi  ven  tanta  dolcezza. 
Che  '1  fren  della  ragion  Amor  non  prezza, 
E  chi  discerne  è  vinto  da  chi  vola. 

E  veggo ^  ben  quant'  elli  a  schivo  m'  hanno,'' 
E  so  eh'  i'  ne  morrò  veracemente: 
Che  mia  vertù  non  può*^  centra  l'affanno: 

Ma  sì  m'abbaglia  Amor  soavemente, 

Ch'  i'  piango  l'altrui  noia  e  no  '1  mio  danno; 
E,  cieca,  al  suo  morir  l'alma  consente. 
•  avegga    "^  Onde  aven     ^  sempre  io     '  veggio     ''•  marino     "  pò 

SESTINA  V.  142 

Marra  la  storia  fedele^del  suo  amore  e  dice  esser  ben  tempo  di  darsi  a  Dio. 

Alla  dolce  ombra  delle  belle  frondi 
Corsi  fuggendo  un  dispietato  lume 
Che  'nfin  quaggiù  m'ardea  dal  terzo  cielo; 


Rime.  145 

E  disgombrava  già  di  neve  i  poggi 
L'aura  amorosa  che  rinnova^  il  tempo, 
E  fiorian  per  le  piagge  l'erbe  e  i  rami. 

Non  vide  il  mondo  sì  leggiadri  rami 
Né  mosse  '1^  vento  mai  sì  verdi  frondi, 
Come  a  me  si  mostrar  quel  primo  tempo; 
Tal  che  temendo  dell'ardente  lume, 
Non  volsi  al  mio  refugio  ombra  di  poggi, 
Ma  della  pianta  più  gradita  in  cielo. 

Un  lauro  mi  difese  allor  dal  cielo; 
Onde  più  volte,  vago  de'  bei  rami, 
Da  poi''  son  gito  per  selve  e  per  poggi: 
Né  giammai  ritijDvai  tronco  né  frondi 
Tanto  onorate^  dal  superno  lume. 
Che  non  cangiassero  qualitate  a  tempo. 

Però  più  fermo  ogni  or  di  tempo  in  tempo 
Seguendo  ove  chiamar  m'udia  dal  cielo, 
E  scorto  d'un  soave  e  chiaro  lume, 
Tornai  sempre  devoto  ai  primi  rami, 
E  quando  a  terra  son  sparte  le  frondi, 
E  quando  '1^  Sol  fa  verdeggiar  i  poggi. 

Selve,  sassi,  campagne,  fiumi  e  poggi, 

Quant'é'  creato,  vince  e  cangia  il   tempo; 
Ond'io  cheggio  perdono  a  queste  frondi 
Se  rivolgendo  poi  molt'  anni  il  cielo, 
Fuggir  disposi  gì'  invescati  rami 
Tosto  ch'incominciai  di  veder  lume. 

Tanto  mi  piacque  prima  il  dolce  lume, 
Ch'  i'  passai  con  diletto  assai  gran  poggi 
Per  poter  appressar  gli  amati  rami: 
Ora  la  vita  breve  e  '1  loco  e  '1  tempo 
Mostranmi  altro  sentier  di  gir^  al  cielo, 
E  di  far  frutto,  non  pur  fiori®  e  frondi. 
Bibl.  rom.  12/15.  10 


1 46  Petrarca. 

Altro '^  amor,  altre  frondi  ed  altro  lume, 
Altro  salir  al  eie!  per  altri  poggi 
Cerco,  (che  n'è  ben  tempo)  ed  altri  rami. 

'  rinova      *  il      ^  pò      *  honorate      ^  mutasser     ^  il      '  Quanto  e 
»  gire    **  fior    *°  Altr 

SONETTO  CXI.  143 

Commenda  la  piacevolezza  del  parlare  d'una  donna,  per  la  quale  gli  torna 
a  memoria  Laura,   quando  gli  si  mostrava  con  vista  o  con  atti  piace- 
vole.   Ma  pel  severchio  piacere  non  può  ritrarla  quale  gli  appare. 

Quand'io  v'odo  parlar  sì  dolcemente, 
Com'Amor  proprio  a'  suoi  seguaci  instilla, 
L'acceso  mio  desir  tutto  sfavilla. 
Tal  che  'nfiammar  devria  l'anime  spente. 

Trovo  la  bella  donna  allor  presente, 
Ovunque  mi  fu  mai  dolce  o  tranquilla, 
Nell'abito^  ch'ai  suon,  non  d'altra  squilla, 
Ma  di  sospir,  mi  fa  destar  sovente. 

Le  chiome  a  l'aura  sparse,  e  lei  conversa 
Indietro  veggio;  e  così  bella  riede 
Nel  cor,  come  colei  che  tien  la  chiave. 

Ma  '1  soverchio  piacer  che  s'attraversa  ^ 
Alla  mia  Ungua,  qual  dentro  ella  siede 
Di  mostrarla  in  palese  ardir  non  ave. 
*  Nel  habito     "  satraversa 

SONETTO  CXII.  144 

Quali  fossero  le  bellezze  di  Laura,  quando  egli  la  prima  volta  se  ne  invaghi. 

Né  così  bello  il  Sol  giammai  levarsi 

Quando '1  ciel  fosse  più  di^  nebbia  scarco, 
Né  dopo  pioggia  vidi  '1  celeste  arco 
Per  l'aere  in  color  tanti  variarsi, 

In  quanti  fiammeggiando  trasformarsi 
Nel  dì  ch'io  presi  l'amoroso  incarco, 
Quel  viso  al  qual'^  (e  son  nel  mio  dir  parco) 
Nulla  cosa  mortai  potè  agguagliarsi.'* 


Rime.  147 

r  vidi  Amor  eh'  e'  begli  occhi  volgea 
Soave  sì,  ch'ogni  altra  vista  oscura 
Da  indi  in  qua  m'incominciò  apparere. 

Sennuccio,  il  vidi,  e  l'arco  che  tendea. 
Tal  che  mia  vita  poi  non  fu  secura, 
Ed  è  sì  vaga  ancor  ^  del  rivedere. 
^  de    -  quale    ^  aguagliarsi    *  anchor 

SONETTO  CXIII.  145 

In  qualunque  luogo  o  stato  ei  si  trovi,  vivrà  sempre  sospirando  per  Laura. 
Ponmi  ove  '1  SoF  occide  i  fiori  e  l'erba, 

O  dove  vince  lui  '1^  ghiaccio  e  la  neve; 

Ponmi  ov'  è  '1  carro  suo  temprato  e  leve, 

Ed  ov'  è  chi  cel  rende  o  chi  cel  serba; 
Ponm'  in  umil^  fortuna,  od  in  superba, 

Al  dolce  aere  sereno,  al  fosco  e  greve; 

Ponmi  alla  notte,  al  dì  lungo  ed  al  breve. 

Alla  matura  etate  od  all'acerba; 
Ponm'  in  cielo  od  in  terra  od  in  abisso, 

In  alto  poggio,  in  valle  ima  e  palustre, 

Libero  spirto  od  a' suoi  membri  affisso; 
Ponmi  con  fama  oscura  o  con  illustre:"^ 

Sarò  qual  fui,  vivrò  com'  io  son  visso, 

Continuando  il  mio  sospir  trilustre. 
*  sole    ®  il    ^  humil    *  ilustre 

SONETTO  CXIV.  146 

Si  duole  di  non  poter  scrivere  in  lingua  che  la  fama  di  Laura  si  spanda 
per  tutto  il  mondo;  ma  promette,  per  la  lingua  volgare,  che  tutta  Italia 

il  saprà. 

O  d'ardente  virtute^  ornata  e  calda 
Alma  gentil,  cui^  tante  carte  vergo; 
O  sol  già  d'onestate  intero  albergo, 
Torre  in  alto  valor  fondata  e  salda; 

O  fiamma,  o  rose  sparse  in  dolce  falda 

Di  viva  neve,  in  eh'  io  mi  specchio  e  tergo  ; 
O  piacer,  onde  l'ali  al  bel  viso  ergo, 
Che  luce  sovra  quanti 'l'^  Sol  ne  scalda; 


1 48  Petrarca. 

Del   vostro  nome,  se  mie  rime  intese 

Fossin  sì  lunge,  avrei  pien  Tile*  e  Battro,  j 

La  Tana,  il  Nilo,  Atlante,^  Olimpo  e  Calpe. 

Poi  che  portar  noi  posso  in  tutte *^  quattro 
Parti  del  mondo,  udrallo  il  bel  paese 
Ch'Appennin  parte,  e  '1  mar  circonda  e  l'Alpe. 
*  vertute    ^  chui    'il    *  Tyle    ^  Athlante    ®  tutte  et 

SONETTO  CXV.  147 

/  guardi  dolci  e  severi  di  Laura,  lo  confortano  timido,  lo  frenano  ardito. 
Quando  '1  voler  che  con  duo  sproni  ardenti 
E  con  un  duro  fren  mi  mena  e  regge, 
Trapassa  ad  or  ad  or  l'usata  legge 
Per  far  in  parte  i  miei  spirti  contenti; 
Trova  chi  le  paure  e  gli  ardimenti 
Del  cor  profondo  nella  fronte  legge; 
E  vede  Amor  che  sue  imprese  corregge, 
Folgorar  ne'  turbati  occhi  pungenti: 

Onde,  come  colui  ^  che'l  colpo  teme 
Di   Giove  irato,  si  ritragge  indietro; 
Che  gran  temenza  gran  desire  affrena. 
Ma  freddo  foco  e  paventosa  speme 
Dell'alma,  che  traluce  come  un   vetro, 
Talor  sua  dolce  vista  rasserena. 
'  coUui 

SONETTO  CXVI.  148 

Non  sa  scriver  rime  degne  di  Laura,  che  in  riva  di  Sorga  e  all'ombra 

del  lauro. 

Non  Tesin,  Po,  Varo,  Arno,  Adige  e  Tebro, 
Eufrate,  Tigre,  Nilo,   Ermo,'   Indo  e  Gange, 
Tana,  Istro,- Alfeo,'*  Garonna^  e'I  mar  che  frange. 
Rodano,   Ibero,''  Ren,  Sena,  Albia,   Era,   Ebro;*' 

Non  edra,  abete,  pin,  faggio  o  ginebro 

Porla  '1  foco  allentar  che  '1  cor  tristo  ange, 
Quant'un  bel  rio  ch'ad  ogni  or  meco  piange. 
Con'   rarboscel  ohe 'n  rime  orno  e  celebro. 


Rime.  1 49 

Quest'^  un  soccorso  trovo  tra  gli  assalti 
D'Amore,  onde''*  conven  eh'  armato  viva 
La  vita,  che  trapassa  a  sì  gran  salti. 

Così  cresca 'P^  bel  lauro  in  fresca  riva; 
E  chi  '1  piantò,  pensier  leggiadri  ed  alti 
Nella  dolce  ombra,  al  suon  dell'acque,  scriva. 

^  Hermo    "  Histro    "'  Alpheo    *  Garona    ^  Hibeio    **  Hebro    ''  Co 
«  Questo    **  ove    *"  il 

BALLATA  VI.  149 

Bench'ella  siagli  men  severa,    egli  non  è  contento  e  tranquillo  nel  core. 

Di  tempo  in  tempo  mi  si  fa  men  dura 
L' angelica  figura  e  '1  dolce  riso, 
E  l'aria  del  bel  viso 
E  degli  occhi  leggiadri  meno  oscura. 

Che  fanno  meco  omai  questi  sospiri, 
Che  nascean  di  dolore, 
E  mostravan  di  fore 
La  mia  angosciosa  e  disperata^  vita? 
S'avven"  che  '1  volto  in  quella  parte  giri 
Per  acquetar^  il  core, 
Farmi  veder*  Amore 
Mantener  mia  ragion  e  darmi  aita. 
Ne  però  trovo  ancor  ^  guerra  finita 
Né  tranquillo  ogni  stato  del  cor  mio; 
Che  più  m'arde  '1  desio, 
Quanto  più  la  speranza  m'assicura. 

'  desperata     -'  Saven     •■  acquetare    *  vedere    ^  anchor 

SONETTO  CXVII.  150 

Quasi  certo  dell'amore    di  Laura,   pure  non   avrà   pace  finch'ella  non 

gliel  palesi. 

»Che  fai,  alma?  che  pensi?  avrem  mai  pace? 
Avrem  mai  tregua?  od  avrem  guerra  eterna?* 
y-Che  fia  di  noi,  non  so;  ma  in  quel  ch'io  scerna 
A'  suoi  begli  occhi  il  mal  nostro  non  piace.* 


1 50  Petrarca. 

j>Che  prò,  se  con  quegli ^  occhi  ella  ne  face 
Di  state  un  ghiaccio,  un  fuoco  quando  vernaV-^;- 
>Ella  non,  ma  colui  che  gli  governa.* 
»  Questo  ch'è  a  noi,  s'ella  sei  vede  e  tace?*; 

Talor  tace  la  lingua,  e  '1  cor  si  lagna 
Ad  alta  voce,  e  'n  vista  asciutta  e  lieta 
Piagne^  dove  mirando  altri  noi  vede. 

Per  tutto  ciò  la  mente  non  s'acqueta, 

Rompendo '1*  duol  che 'n  lei  s'accoglie  e  stagna; 
Ch'a  gran  speranza  uom^  misero  non  crede. 
^  quelli     ^  iverna    ^  Piange    *  il    ^  huom 

SONETTO  CXVIII.  151 

Lode  degli  occhi  di  Laura,   da' quali  é  rasserenato  d'ogni  affanno,  sic- 
come il  nocchiero  è  in  porto  rasserenato  dall'  affanno  della  tempesta. 

Non  d'altra  e  tempestosa  onda  marina 

Fuggìo  in  porto  giammai  stanco  nocchiero. 

Com'io  dal  fosco  e  torbido  pensiero' 

Fuggo  ove  '1  gran  desio  mi  sprona  e  'nchina. 

Né  mortai  vista  mai  luce  divina 

Vinse,  come  la  mia  quel  raggio  altero 

Del  bel  dolce  soave  bianco  e  nero, 

In  che  i  suoi  strali  Amor  dora  ed   affina. 

Cieco  non  già,  ma  faretrato-  il  veggo; 
Nudo,  se  non  quanto  vergogna  il  vela; 
Garzon  con  l'ali,  non  pinto,  ma  vivo. 

Indi  mi  nostra  quel  ch'a  molti  cela; 

Ch'a  parte  a  parte  entr'^  a'  begli  occhi  leggo 
Quant'  io  parlo  d'Amore  e  quant'  io  scrivo. 
^  penserò     -  pharetrato     ^  entro 

SONETTO  CXIX.  152 

Vuole  indur  Laura  a  liberar  lo  dal  suo  amore  o  a  trattarlo  bene,  col  mi- 
nacciarla, che,  tenendolo  più  in  i stento,  egli  s'ucciderà.  _^ 

Questa  umil^  fera,  un  cor  di  tigre  o  d'orsa,  ? 

Che  'n  vista  umana-  e  'n  forma  d'angel  vene. 

In  riso  e  'n  pianto,  fra  paura  e  spene 

Mi  rota  sì,  ch'ogni  mio  stato  inforsa. 


Rime.  151 

Se'n  breve  non  m'accoglie  o  non  mi  smorsa, 

Ma  pur,  come  suol  far,  tra  due  mi  tene; 

Per  quel  ch'io  sento  al  cor  gir  fra  le  vene 

Dolce  veneno,  Amor,  mia  vita  è  corsa. 
Non  può  8  più  la  vertù  fragile  e  stanca 

Tante  varietati  omai  soffrire; 

Che  'n  un  punto  arde,  agghiaccia,  arrossa  e'  mbianca.* 
Fuggendo  spera  i  suoi  dolor  finire. 

Come  colei  che  d'ora  in  ora»  manca; 

Che  ben  può®  nulla  chi  non  può  morire. 
^  humil    2  humana    ^  pò    *  enbianca    ^  bora  «  pò 

SONETTO  CXX.  153 

Delibera  di  raccontare  lo  staio  suo  a  Laura  ancora  una  volta,   dopo  il 
guai  racconto  o  troverà  pietà  a  s'ucciderà.  Nondimeno  per  alcun  segno, 

spera  bene. 

Ite,  caldi  sospiri,  al  freddo  core; 

Rompete  il  ghiaccio  che  pietà  contende, 
E  se  prego  mortai ^  al  Ciel  s'intende. 
Morte  o  mercè  sia  fine  al  mio  dolore. 

Ite,  dolci  pensier,^  parlando  fore 

Di  quello  ove '1  bel  guardo  non  s'estende: 
Se  pur  sua  asprezza  o  mia  stella  n'  offende. 
Sarem  fuor  di  speranza  e  fuor  d'errore. 

Dir  si  può^  ben  per  voi,  non  forse  appieno,^ 
Che  '1  nostro  stato  è  inquieto  e  fosco 
Siccome  '1  suo  pacifico  e  sereno. 

Gite  securi  omai,  ch'Amor  ven  vosco; 
E  ria  fortuna  può^  ben  venir  meno, 
S'  ai  segni  del  mio  Sol  l' aere  conosco. 
1  mortale    ^  penser    '  se  pò    *  a  pieno     '  pò 

SONETTO  CXXI.  154 

Loda  gli  occhi  di  Laura  dalla  cura  di  chi  intese  a  formarli,   dall'alle- 
grezza che  ne  prende  la  Natura,  e' l  Sole,  dal  lampeggiar  divino,  e 
dal  muovere  Puomo  ad  onestà. 
Le  stelle  e 'P  cielo  e  gli  elementi  a  prova 
Tutte  lor  arti  ed  ogni  estrema  "^  cura 


152  Petrarca. 

Poser  nel  vivo  lume  in  cui  Natura 

Si  specchia  e '1  Sol,  ch'altrove  par  non  trova. 

L'opra  è  sì  altera,  sì  leggiadra  e  nova, 
Che  mortai  guardo  in  lei  non  s'assicura:" 
Tanta  negli  occhi  bei  for  di  misura 
Par  ch'Amor^  e  dolcezza  e  grazia ^  piova. 

L'aere  percosso  da'  lor  dolci  rai 

S'infiamma  d'onestate,  e  tal  diventa, 
Che'l  dir  nostro  e '1  pensieri  vince  d'assai. 

Basso  desir  non  è  eh'  ivi  si  senta; 

Ma  d'  onor,  di  virtute.'    Or  quando  mai 
Fu  per  somma  beltà  vii  voglia  spenta? 
^  stelle  il     2  extrema     =»  sassecura     *  amore      ^  gratia     «  penser 
'  vertute 

SONETTO  CXXII.  155 

Dice  che  s'era  trovato  al  pianto  e  ai  lar^^enti  di  Laura,  e  quella  pietosa 
imagine  essergli  rimasa  nell'animo,  ondi  sovente  piange  e  sospira. 
Non  fur  mai^  Giove  e  Cesare  sì   mossi 
A  fulminar  colui,^  questo  a  ferire, 
Che  pietà  non  avesse  spente  l'ire, 
E  lor  dell'  usat'  ^  arme  ambedue  scossi. 
Piangea  Madonna,  e  '1  mio  Signor  eh'  io^  fossi 
Volse  a  vederla  e  i  suoi  lamenti  a  udire, 
Per  colmarmi  di  doglia  e  di  desire 
E  ricercarmi  le  midolle"^  e  gli  ossi. 
Quel  dolce  pianto  mi  dipinse^  Amore, 
Anzi  scolpio,  e  que'  detti  soavi 
Mi  scrisse  entr''  un  diamante  in  mezzo '1  core; 
Ove  con  salde  ed  ingegnose  chiavi 
Ancor ^  torna  sovente  a  trarne  l'ore 
Lagrime  rare  e  sospir  lunghi   e  gravi. 
1  ma      -  folminar  collui       •'  usate      *  chi      ^  medolle      «  depinse 
'  entro    *"  Anchor 

SONETTO  CXXIII.  156 

//  pianto  di  Laura  rende  attoniti  gli  elementi. 
V  vidi  in  terra  angelici  costumi 
E  celesti  bellezze  al  mondo  sole; 


Rime.  1 53 

Tal  che  di  rimembrar  mi  giova  e  dole; 

Che  quant'  io  miro  par  sogni,  ombre  e  fumi. 
E  vidi  lagrimar  que'  duo  bei  lumi, 

C  han  fatto  mille  volte  invidia  al  Sole; 

Ed  udii  ^  sospirando  dir  parole 

Che  farian  gir'^  i  monti  e  stare  i  fiumi. 
Amor,  senno,  valor,  pietate  e  doglia 

Facean  piangendo  un  più  dolce  concento 

D'ogni  altro  che  nel  mondo  udir  si  soglia: 
Ed  era  'l'^  cielo  all'armonia  sì  'utente,-^ 

Che  non  si^  vedea  'n«  ramo  mover  foglia; 

Tanta  dolcezza  avea  pien  l'aere  e  '1  vento. 
1  udì     -  gire    ^  il    ^  intento     '^  se    «  in 

SONETTO  CXXIV.  157 

Pone  come  sovente  si  ricorda  del  giorno  che  vide  piangere  Laura  e  la 
cagione  che  sono  le  bellezze  sue. 

Quel  sempre  acerbo  ed  onorato  ^  giorno 
Mandò  sì  al  cor  l'immagine'^  sua  viva, 
Che  'ngegno  o  stil  non  fia  mai  che  '\  descriva, 
Ma  spesso  a  lui  con^  la  memoria  torno. 

L'atto  d'ogni  gentil  pietate  adorno, 

E  '1  dolce  amaro  lamentar  eh'  i'  udiva, 
Facean  dubbiar  se  mortai  donna  o  diva 
Fosse  che  '1  ciel  rasserenava  intorno 

La  testa  òr  fino,   e  calda  neve  il  volto, 
Ebeno*  i  cigli,  e  gli  occhi  eran   due  stelle, 
Ond'^'Amor  l'arco  non  tendeva  in  fallo; 

Perle  e  rose  vermiglie,  ove  l'accolto 
Dolor  formava  ardenti   voci   e  belle: 
Fiamma  i  sospir,^  le  lagrime  cristallo. 
»  honorato     -  imagine     ^  co     *  Hebeno     ^  Onde    "  sospiri 

SONETTO  CXXV.  158 

Dice  che  volga  gli  occhi  dove  si  voglia,  sempre  gli  viene  a  memoria  la 
orma  di  Laura  lagrimosa  e  non  pur  la  forma,  ma  k  parole  e  i  sospiri. 

Ove  eh'  i'  posi  gli  occhi  lassio  giri 

Per  quetar  la  vaghezza  olia  gli  spinge, 


1 54  Petrarca. 

Trovo  chi  bella  donna  ivi  dipinge^ 
Per  far  sempre  mai  verdi  i  miei  desiri. 

Con  leggiadro  dolor  par  oh'  ella  spiri 
Alta-  pietà  che  gentil  core  stringe: 
Oltra  la  vista,  agli  orecchi  orna  e 'nfinge 
Sue  voci  vive  e  suoi  santi-'  sospiri. 

Amor  e  '1  ver  fur  mecc^  a  dir  che  quelle 
Ch'  i'  vidi,  eran  bellezze  al  mondo  sole, 
Mai  non  vedute  più  sotto  le  stelle. 

Né  sì  pietose  e  sì  dolci  ^  parole 

S'udiron  mai,  né  lagrime  sì  belle 

Di  sì  begli»  occhi  uscir  mai  vide  il-  Sole. 

R  .j  \  depinge    -  (Daliramano)    »  sancti    *  (Amor  -  meco  d'altra  mano) 
*  (dolci  d'allya  mano)    «  belli     '  1 

SONETTO  CXXVI.  159 

Loda  d  volto,  i  capelli  e  le  virtù  di  Laura:  soggiunge  che  altri  non  sa 
che  sia  divina  bellezza,  se  non  chi  ha  veduto  gli  occhi  di  lei,  né  la  vita 
ne  la  morie  amorosa  se  non  chi  l'ha  veduta  sospirare,  parlare  e  ridere. 
In  qual  parte  del  Ciel,  in  quale  idea^ 
Era  l'esempio 2  onde  Natura  tolse 
Quel  bel  viso  leggiadro,  in  eh'  ella  volse 
Mostrar  quaggiù  quanto  lassù  potea? 
Qual  ninfa  3  in  fonti,  in  selve  mai  qual  Dea 
Chiome  d'oro  sì  fino  a  l'aura  sciolse? 
Quand'-^  un  cor  tante  in  se  virtuti''  accolse? 
Benché  la  somma  è  di  mia  morte  rea. 
Per  divina  bellezza  indarno  mira, 

Chi  gli  occhi  di  costei  giammai  non  vide, 
Come  soavemente  ella  gli  gira. 
Non  sa  com'*'Amor  sana  e  come  ancide, 
Chi  non  sa  come  dolce  ella  sospira, 
E  come  dolce  parla  e  dolce  ride. 
'  ydea    ^  exempio     •''  nimpha     '  Quando    ^  vertuti    *  come 

SONETTO  CXXVII.  160 

Parli,  rida,  guardi,  sieda,  cammini,  è  cosa  sovrumana  e  maravigliosa. 
Amor  ed  io  sì  pian  di  maraviglia^ 
Come  ohi  mai  cosa  incredibil  vide. 


Rime.  155 

Miriam  costei,  quand'ella  parla  o  ride, 
Che  sol  sé  stessa  e  nuU'altra  simiglia. 
Dal  bel  seren  delle  tranquille  ciglia, 
Sfavillar!  sì  le  mie  due  stelle  fide, 
Ch'  ali.o  lume  non  è  eh'  infiammi  o  guide 
Chi  d'amar  altamente  si  consiglia. 

Qual  miracolo^  è  quel,  quando  fra^  l'erba 
Quasi  un  fior  siede!  ovver^  quand'ella  preme 
Col  suo  candido  seno  un  verde  cespo  I 

Qual  dolcezza  è  nella  stagione  acerba 
Vederla  ir  sola  coi  pensier  suoi  'nsieme^ 
Tessendo  un  cerchio  all'oro  terso  e  crespo. 
^  meraviglia    ^  miracol    ">  tra    *  over    *  inseme 

SONETTO  CXXVIII.  161 

Dice   che   il  suo  amoroso  male  è  maggior  di  quello  degli  allri  amanti 
e  chiama  gV  innamorati  vivi  e  morti  a  farne  fede. 

O  passi  sparsi,  o  pensier  vaghi  e  pronti, 
0  tenace  memoria,  o  fero  ardore. 
O  possente  desire,  o  debil  core, 
O^  occhi  miei,  occhi  non  già,  ma  fonti; 

O  fronde,  onor^  delle  famose  fronti, 
O  sola  insegna  al  gemino  valore: 
O  faticosa  vita,  o  dolce  errore, 
Che  mi  fate  ir  cercando  piagge  e  monti; 

0  bel  viso,  ov'^Amor  insieme*  pose 

Gli  sproni  e  '1  fren.ond'  e''^  mi  punge  e  volve 
Com'**  a  lui  piace,  e  calcitrar  non  vale; 

O  anime  gentili  ed  amorose, 

S' alcuna  ha'  '1  mondo;  e  voi  nude  ombre  e  polve, 
Deh,  restate^  a  veder  qual  è '1  mio  male. 
^  Oi     ■'  hon:  r     ^  ove     *  inseme     ^  el    ^  Come     'a    **  De  ristate 

SONETTO  CXXIX.  162 

Invidia  tutti  quegli  oggetti  e  que'  luoghi  che  la  veggono  o  ascoltano 
0  son  toccati  da  lei. 
Lieti  fiori  e  felici,  e  ben  nate  erbe,^ 
Che  Madonna,  pensando,  premer  sole; 


1 56  Petrarca. 

Piaggia  eh'  ascolti  sue  dolci  parole, 
E  del  bel  piede  alcun  vestigio  serbe; 

Schietti  arboscelli,  e  verdi  frondi  acerbe, 
Amorosette  e  pallide  viole; 
Ombrose  selve,  ove  percote  il  Sole, 
Che  vi  fa  co'suoi  raggi  alte  e  superbe; 

O  soave  contrada,  o  puro  fiume. 

Che  bagni  '1^   suo  bel  viso  e  gli  occhi  chiari, 
E  prendi  qualità  dal  vivo  lume; 

Quanto  v'invidio  gli  atti  onesti^  e  cari! 

Non  fia  in  voi  scoglio  ornai  che  per  costume 
D'arder  con  la"^  mia  fiamma  non  impari. 
^  herbe    "^  il     '*  honesti     '^  cola 

SONETTO  CXXX.  163 

Soffrirà  costante  le  pene  di  Amore,    purché  Laura  il  vegga,    e  ne  sia 

conleiìta. 

Amor,  che  vedi  ogni  pensiero^  aperto 
E  i  duri  passi  onde  tu  sol  mi  scorgi. 
Nel  fondo  del  mio  cor  gli  occhi  tuoi  porgi, 
A  te  palese,  a  tutt'altri  coverto. 

Sai  quel  che  per  seguirti  ho-  già  sofferto; 
E  tu  pur  via  di  poggio  in  poggio  sorgi 
Di  giorno  in  giorno,   e  di  me  non  t'accorgi 
Che  son  sì  stanco  e  il"*  sentier  m'è  tropp'erto. 

Ben  vegg'  io  di  lontano  il  dolce  lume 
Ove  per  aspre  vie  mi  sproni  e  giri; 
Ma  non  ho,'  come  tu,  da  volar  pinme. 

Assai  contenti  lasci  i  miei  desiri, 

Pur  che  ben  desiando  i'  mi  consume, 
Né  le  dispiaccia  che  per  lei  sospiri. 
*  penserò     '^  seguirle  o     "  el     ■•  o 

SONETTO  CXXXI.  164 

Mostra  il  misero  suo  stato,  prima  per  comparazione  di  tutte  le  cose  che 
di  notte  hanno  riposo,  poi  per  la  qualità  della  miseria. 

Or  che  '1  ciel  e  la  terra  e  '1  vento  tace, 

E  le  fere  e  gli  augelli  il  sonno  afi'r  ;na, 


Rime.  157 

Notte 'H  carro  .stellato  in  giro  mena, 
E  nel  suo  letto  il  mar  senz'onda  giace; 

Veggio,'^  penso,  ardo,  piango;  e  chi  mi  sface 
Sempre  m'è  innanzi'^  per  mia  dolce  pena: 
Guerra  è  '1  mio  stato,   d'ira  e  di  duol  piena, 
E  sol  di  lei  pensando  ho  ^  qualche  pace. 

Così  sol  d'una  chiara  fonte  viva 

Move '1  dolce  e  l'amaro  ond' io  mi  pasco; 
Una  man  sola  mi  risana  e  punge. 

E  perchè  '1  mio  martir  non  giunga  a  riva, 
Mille  volte  il  dì  moro  e  mille  nasco; 
Tanto  dalla  salute  mia  son  lunge. 
*  il     -  Vegghio    ^  inangi    *  o 

SONETTO  CXXXII.  165 

Loda  in   Laura  l'andare,  gli  occhi,   il  parlare  ed  il  portamento  della 
persona:  quattro  faville  che  producono  il  fuoco  dove  arde  e  vive. 

Come  '1  candido  pie  per   l'erba  fresca 
I  dolci  passi  onestamente^   move, 
Vertù  che 'ntorno  i  fior'^  apra  e  rinnove'' 
Delle  tenere  piante  sue  par  eh'  esca. 

Amor,  che  solo  i  cor  leggiadri  invesca, 
Né  degna  di  provar  sua  forza  altrove. 
Da' begli  occhi  un  piacer  sì  caldo  piove, 
Ch'  i'  non  curo  altro  ben  né  bramo  al tr' esca. 

E  con  r^  andar  e  col  soave  sguardo 
S'accordan  le  dolcissime  parole, 
E  l'atto  mansueto,  umile''  e  tardo. 

Di  tai  quattro  faville,  e  non  già  sole. 

Nasce '1  gran  foco  di  ch'io  vivo  ed  ardo; 
Che  son  fatto  un  augel  notturno  al  Sole. 
^  honestamente     -  fiori     ^  rinove    ^  col     ''  humile 

SONETTO  CXXXIII  (Var.  arg.  XVIII).    166 

Dichiara  che  s'  e  avesse  continuato  nello  studio,    avrebbe  ora  la  fama 
di  gran  poeta. 

S'  io  fossi  ^  stato  fermo  alla  spelunca 

Là  dov'- Apollo  diventò  profeta. 


1-58  Petrarca. 

Fiorenza  avria  fors'"''  oggi  il  suo  poeta. 
Non  pur  Verona  e  Mantoa  ed  Arunca: 

Ma  perchè'!  mio  terren  più  non  s'ingiunca 
Dell'umor^  di  quel  sasso,  altro  pianeta 
Conven  eh'  i'  segua,  e  del  mio  campo  mieta 
Lappole  e  stecchi  con^  la  falce  adunca. 

L'oliva  è  secca,  ed  è  rivolta  altrove 
L'acqua  che  di  Parnaso  si  deriva, 
Per  cui  in  alcun  tempo  ella  fioriva. 

Così  sventura  ovver^  colpa  mi  priva 
D'ogni  buon  frutto;'  se  l'eterno^  Giove 
Della  sua  grazia^  sopra  me  non  piove. 

*  Si  fussi      ^  dove      ^  forse      *  humor      ^  co      ^'  over      '  fructo 
^  etterno    ^  gratia 

SONETTO  CXXXIV.  167 

Rapito  dal  saluto  di  Laura,  morrebbe  se  il  suono  della  sua  voce  non 
legasse  gli  spirti  che  st  espandono  per  troppa  allegrezza. 

Quando  Amor  i  begli  ^  occhi  a  terra  inchina 
E  i  vaghi  spirti  in  un  sospiro  accoglie 
Con^  le  sue  mani,  e  poi  in  voce  gli  scioglie 
Chiara,  soave,  angelica,  divina, 

Sento  far  del  mio  cor  dolce  rapina, 
E  sì  dentro  cangiar  pensieri  ^  e  voglie, 
Ch' i' dico:  or  fien  di  me  l'ultime  spoglie. 
Se  '1  Ciel  sì  onesta*  morte  mi  destina. 

Ma  '1  suon,  che  di  dolcezza  i  sensi  lega, 
Col  gran  desir  d'udendo  esser  beata, 
L'anima,  al  dipartir  presta,  raffrena. 

Così  mi  vivo,  e  così  avvolge'^  e  spiega 
Lo  stame  della  vita  che  m'è  data, 
Questa  sola  fra  noi  del  ciel  sirena. 

*  belli     *  Co    ^  penseri    *  honesta    **  avolge 

SONETTO  CXXXV.  168 

Crede,  discrede  di  veder  Laura  pietosa;  si  duole  che  in  queste  dubbiezze 

venga  Veto  non  atta  ad  amare,  ma  se  la  passione  non  V uccide  gli  sarà 

caro,  anche  all'ultimo,  di  essere  accolto  da  Laura. 

Amor  mi  manda  quel  dolce  penserò, 

Che  secretarlo  antico^  é  fra  noi  due; 


Rime.  159 

E  mi  conforta,  e  dice  che  non  fue 
Mai,  com'  '-^  or,  presto  a  quel  oh'  ì  ^  bramo  e  spero. 
Io,  che  tal  or  menzogna  e  talor  vero 
Ho*  ritrovato  le  parole  sue. 
Non  so  s' il  creda,  e  vivomi  intra  due. 
Ne  sì  né  no  nel  cor  mi  sona  intero. 

In  questa  passa  '1  tempo,  e  nello  specchio 
Mi  veggio  andar  ver  la  stagion  contraria 
A  sua  impromessa  ed  alla  mia  speranza. 

Or  sia  che  può:'^  già  sol  io  non  invecchio; 
Già  per  etate  il  mio  desir  non  varia. 
Ben  temo  il  viver  breve  che  n'  avanza. 
^  antiche    ^  come    '  io    "  O    °  pò 

SONETTO  CXXXVI.  169 

Va  a  trovar  Laura  e  nella  prima  giunta,  per  turbata  vista  che  gli  mo- 
ìtra,  teme;  poi,  veggendola  rasserenare,  si  delibera  di  palesarle  i  suoi 
affanni,  ma  per  la  troppa  copia  non  sa  donde  cominciare. 

Pien  d'un  vago  pensier,^  che  mi'^  desvia 

Da  tutti  gli  altri  e  fammi  al  mondo  ir  solo. 
Ad  or  ad  or^  a  me  stesso  m'involo, 
Pur  lei  cercando  che  fuggir  devrìa; 

E  veggiola  passar  sì  dolce  e  ria. 

Che  l'alma  trema  per  levarsi  a  volo; 
Tal  d'  armati  sospir  conduce  stuolo 
Questa  bella  d'Amor  nemica  e  mia. 

Ben,  s'io^  non  erro,  di  pietate  un  raggio 
Scorgo  fra  '1  nubiloso  altero  ciglio, 
Che 'n  parte  rasserena  il  cor  dogHoso: 

A.llor  raccolgo  l'alma,  e  poi  eh'  i'  aggio 
Di  scovrirle  il  mio  mal  preso  consiglio. 
Tanto  le  ho^  a  dir  che  'ncominciar  non  oso. 
*  penser     -  me    ■'  ora    *  si     "'  glio 

SONETTO  CXXXVII.  170 

Dice  di  non  potere,  per  troppo  amore,  raccontare  i  suoi  affanni  a  Laura. 
Più  volte  già  dal  bel  sem.biante  umano  ^ 
Ho-  preso  ardir  con"  le  mie  fide  scorte 


160 


Petrarca. 


D'assalir  con  parole  oneste"*  accorte 

La  mia  nemica,  in  atto  umile ^  e  piano: 

Fanno  poi  gli  occhi  suoi  mio  penser  vano, 
Perch'ogni  mia  fortuna,  ogni  mia  sorte, 
Mio  ben,  mio  male,  e  mia  vita  e  mia  morte 
Quei  che  solo  il  può»  far,  l'ha'   posto    in  mano. 

Ond'  io  non  potè'  mai  formar  parola 
Ch'altro  che  da  me  stesso  fosse  intesa; 
Così  m'ha^  fatto  Amor  tremante  e  fioco. 

E  veggi'  or  ben  che  caritate  accesa 
Lega  la  lingua  altrui,  gli  spirti  invola. 
Chi  può»  dir  com'egli  arde,  è 'n  picciol  foco. 
J  humano    "  O    'co    *  honeste    ^  humile    "■  pò     Ma    ^  ma    '■'  pò 

SONETTO  CXXXVIII.  171 

Amore  l'ho  dato  in   forza  di  donna,   alla   quale  nulla  giova  d  porger 
prieghi,  anzi  nuoce.    Nondimeno  sempre  vuole  sperare. 

Giunto  m'  ha  Amor  fra  belle  e  crude  braccia, 
Che  m'ancidono  a  torto;  e  s'io  mi  doglio. 
Doppia '1  martir;  onde,  pur  com' io  soglio. 
Il  meglio  è  ch'io  mi  mora  amando  e  taccia: 

Che  porla  questa  il  Ren,  qualor  più  agghiaccia. 
Arder  con  gli  occhi,  e  rompre  ogni  aspro  scoglio; 
Ed  ha^  sì  egual  alle  bellezze  orgoglio. 
Che  di  piacer  altrui  par  che  le  spiaccia. 

Nulla  posso  levar  io  per  mio  'ngegno-' 

Del  bel  diamante  ond' eli' ha  »  il  cor  sì  duro; 
L'altro  è  d'un  marmo  che  si  mova  e  spiri: 

Ned  ella  a  me  per  tutto  '1  suo  disdegno 
Terrà  giammai,  né  per  sembiante  oscuro, 
Le  mie  speranze  e  i  miei*  dolci  sospiri. 
»  a    -  mingegno     •'•  ella    ^  mei 

SONETTO  CXXXIX.  172 

?;•  duole  della  invidia  che  gli  ha  reso  più  cruda  Laura  ;  tuttavia  le  a/fer- 

ìachepert^^^^^^^^^^  non  è  per  lasciare  d'amarla  e  d,  sperare 

0  invidia,  nemica^   di  virtute." 

Th'  a'  bei  principii  volentier  contrasti. 


Rime.  161 

Per   qual  sentier  così  tacita  intrasti 
In  quel  bel  petto,  e  con  qual'  arti  il  mute? 
Da  radice  n'hai^  svelta  mia  salute: 
Troppo  felice  amante  mi  mostrasti 
A  quella  che  miei  preghi  umili  ^  e  casti 
Gradì  alcun  tempo,  or  par  ch'odii-''  e  refute. 

Né  però  che  con  atti  acerbi  e  rei 

Del  mio  ben  pianga  e  del  mio  pianger  rida. 
Porla  cangiar  sol  un  de'  pensier  miei.* 

Non  perchè  mille  volte  il  dì  m'  ancida, 

Fia  eh'  io  non  V  ami  e  eh'  i'  non  speri  in  lei  : 
Che  s'  ella  mi  spaventa,  Amor  m'affida. 
'  nimica    ^  vertute     '  nai    *  humili    "  odi    ^  mei 

SONETTO  CXL.  173 

Dice  che  quando  vede  gli  occhi  di  Laura,    l'anima  lo  abbandona  per 
andare  in  lei,    ove  trova  amaritudine  e  dolcezza:  se  ne  duole,  ma  con- 
chiude che  Amore  non  può  produrre  altro  frutto. 
Mirando  '1  SoU  de'  begli  occhi  sereno, 

Ov'^  è  chi  spesso  i  miei  dipinge^  e  bagna, 

Dal  cor  l'anima  stanca  si  scompagna 

Per  gir  nel  paradiso  suo  terreno. 
Poi  trovandol  di   dolce  e  d'amar  pieno, 

Quanto  aH  mondo  si   tesse,  opra  d'aragna 

Vede:  onde  seco  e  con  Amor  si  lagna, 

Ch'ha^  sì  caldi  gli  spron,  sì  duro  il^  freno. 
Per  questi  estremi'  duo,  contrari  e  misti, 

Or  con  voglie  gelate  or  con  accese, 

Stassi  così  fra  misera  e  felice. 
Ma  pochi  lieti,  e  molti  pensier'*  tristi; 

E '1  più  si  pente  dell'ardite  imprese: 

Tal  frutto  nasce  di  cotal  radice. 

1  sole       -  Ove      ^  depinge      *  Quanta!      *'  Glia      '''  1       '  extremi 
*  pei  :»er 

SONETTO  CXLI.  174 

Pensa  nel  suo  dolore  eh'  è  meglio  patire  per  Laura  che  gioir  d'altra  donna . 
Fera  stella  (se  '1  Cielo  ha^  forza  in  noi 
Quant'  alcun  crede)  fu  sotto  eh'  io  nacqui, 
Bibl    rem.   12/15.  11 


1 62  Petrarca. 

E  fera  cuna  dove  nato  giacqui, 
E  fera  terra  ov'  e'  pie  mossi  poi  ; 

E  fera  donna  che  con  gli  occhi  suoi 

E  con  r  arco  a  cui  sol  per  segno  piacqui, 
Fé  la  piaga  ond',^  Amor,  teco  non  tacqui. 
Che  con  quali'  arme  risaldar  la  puoi.'^ 

Ma  tu  prendi  a  diletto  i  dolor  miei; 
Ella  non  già,  perchè  non  son  più  duri, 
E'I  colpo  è  di  saetta  e  non  di  spiedo. 

Pur  mi  consola  che  languir  per  lei 

Meglio  è  che  gioir  d'altra;  e  tu  mei  giuri 
Per  l'orato  tuo  strale;  ed  io  tei  credo. 

^  a.    ''  onde     "  poi 

SONETTO  CXLII.  175 

Quando  si  ricorda  del  tempo,  del  luogo  e  di  Laura,  allorachè  se  ne  inna- 
morò, di  nuovo  s'innamora,  contuttoché  Laura  sia  al  presente  attempata. 

Quando  mi  vene  innanzi^  il  tempo  e '1  loco 
Ov' io-  perdei  me  stesso,  e '1  caro  nodo 
Ond'Amor  di  sua  man  m'avvinse^  in  modo 
Che  l'amar  mi  fé  dolce  e '1  pianger  gioco; 

Solfo  ed  esca  son  tutto,  e  '1  cor  un  foco, 
Da  quei  soavi  spirti,  i  quai  sempr'-*odo, 
Acceso  dentro  sì,  eh'  ardendo  godo, 
E  di  ciò  vivo,  e  d'altro  mi  cai  poco. 

Quel  Sol,  che  solo  agli  occhi  miei  risplende,^ 
Coi  vaghi  raggi  ancor®  indi  mi  scalda 
A  vespro  tal  qual  era  oggi  per  tempo; 

E  così  di  lontan  m'alluma  e'ncende. 

Che  la  memoria  ad  ogni  or  fresca  e  salda 
Pur  quel  nodo  mi  mostra  e  '1  loco  e  'l  tempo. 
^  inangi     '^  Ovi     ^  avinse    *  sempre    ^  resplende     •  anchor 

SONETTO  CXLTII.  176 

Scrive  la  sicurtà  sua  mentre  venendo  da  Colonia  per  ritornare  in  Pro- 
venza passa  per  la  selva  d'Ardenna  e  il  piacere  che  ne  prende,  in 
quanto  gli  rappresenta  Laura;  solamente  egli  ve  la  desidera  in  verità, 
non  per  immaginazione. 
Per  mezz' i  boschi  inospiti  ^  e  selvaggi, 

Onde  vanno  a  gran  rischio  uomini  ed  arme. 


Rime.  163 

Vo  secur"^  io;  che  non  può^  spaventarme 
Altri  che  '1  Sol  eh'  ha*  d'Amor  vivo  i  raggi. 
E  vo  cantando  (o  penser  miei  non  saggi!) 
Lei  che '1  Ciel  non  poria  lontana  farme; 
Ch' i' r  ho^  negli  occhi;  e  veder  seco  parme 
Donne  e  donzelle,  e  sono  abeti  e  faggi. 

Farmi®  d'udirla,  udendo  i  rami  e  I'  ore 

E  le  frondi,  e  gli  augei  lagnarsi,  e  1'  acque 
Mormorando  fuggir  per  l'erba  verde. 

Raro  un  silenzio,'  un  solitario  orrore® 
D'  ombrosa  selva  mai  tanto  mi  piacque; 
Se  non  che  del  mio  Sol  troppo  si  perde. 

^  inhospiti       -  securo      'pò      *  cha      "^  lo      ^  Parme      '  silentio 
*  horrore 

SONETTO  CXLIV.  177 

La  vista  del  bel  paese  di  Laura  gli  fa  dimenticare  i  pericoli  del  viaggio. 

Mille  piagge  in  un  giorno  e  mille  rivi 
Mostrato  m'  ha^  per  la  famosa  Ardenna 
Amor,  eh'  a'  suoi  le  piante  e  i  cori  impenna 
Per  farli ^  al  terzo  ciel  volando  ir  vivi. 

Dolce  m'  è  sol  senz'  arme  esser  stato  ivi. 
Dove  armato  fier  Marte  e  non  accenna,^ 
Quasi  senza  governo  e  senza  antenna 
Legno  in  mar,  pien  di  pensieri  gravi  e  schivi. 

Pur  giunto  al  fin  della  giornata  oscura, 

Rimembrando  ond'  io  vegno  e  con  quai  piume, 
Sento  di  troppo  ardir  nascer  paura. 

Ma  '1  bel  paese  e  '1  dilettoso^  fiume 
Con  serena  accoglienza^  rassecura 
Il  cor  già  volto  ov'  abita  il  suo  lume. 
*  ma    *  fargli    ^  acenna    *  penser    ^  dilectosa    *  accoglenza 

SONETTO  CXLV.  178 

Tormentato   da  Amore   vuol  frenarlo  con  la  ragione  e  mal  suo  grado 

noi  può. 

Amor  mi  sprona  in  un  tempo  ed  affrena, 

Assecura  e  spaventa,  arde  ed  agghiaccia. 


164  Petrarca. 

Gradisce  e  sdegna,  a  sé  mi  chiama  e  scaccia. 
Or  mi  tene  in  speranza  ed  or  in  pena; 

Or  alto  or  basso  il  mio^  cor  lasso  mena; 
Onde  '1  vago  desir  perde  la  traccia, 
E '1  suo  sommo  piacer  par  che  li  spiaccia; 
D'  error  sì  novo  la  mia  mente  è  piena. 

Un  amico  pensieri  le  mostra  il  vado, 

Non  d'acqua  che  per  gli  occhi  si  risolva/'^ 
Da  gir  tosto  ove  spera  esser  contenta: 

Poi,  quasi  maggior  forza  indi  la  svolva, 

Conven  eh'  altra  via  segua,  e  mal  suo  grado 
Alla  sua  lunga  e  mia  morte  consenta. 
^  meo    *  penser     ^  resolva 

SONETTO  CXLVI.  *179i 

Scrive  ad  un  amico  la  via  unica  di  placare  la  sua  donna  quando  gli  si 
mostra  turbata,  essere  l'umiltà. 

Ceri,  quando  talor  meco  s'  adira 

La  mia  dolce  nemica,  eh'  è  sì  altera, 
Un  conforto  m'  è  dato,  eh'  i'  non  pera. 
Solo  per  cui  vertù  1'  alma  respira. 

Ovunqu' ella  sdegnando  gli  2  occhi  gira, 
Che  di  luce  privar  mia  vita  spera. 
Le  mostro  i  miei  pien  d'umiltà  sì  vera, 
Ch'  a  forza  ogni  suo  sdegno  indietro  tira. 

Se  ciò*^  non  fosse, ^  andrei  non  altramente 
A  veder  lei,  che  '1  volto  di  Medusa, 
Che  facea  marmo  diventar  la  gente. 

Così  dunque  fa  tu;  ch'i'  veggio  esclusa •"* 

Ogni  altr'«  aita;  e '1  fuggir  vai  niente 

Dinanzi  all'  ali  che  '1  Signor  nostro  usa. 

^  (Della  mano  di  Petrarca)       Mi       =*  Ee  ciò       *  fusse      -^  exclusa 
"  altra 

SONETTO  CXLVII.  180 

Veniva  il  Petrarca  verso  Lombardia  per  Po.  Or  dice  rivolgendo  il  parlare 
al  Po,  che  quantunque  ne  meni  il  corpo  suo,  l'animo  però  vola  a  Laura. 
Po,  ben  può'  tu  portartene  la  scorza 
Di  me  con  tue  possenti  e  rapid' '  onde. 


Rime.  165 

Ma  lo  spirto  oh'  iv'  entro  si  nasconde 
Non  cura  né  di  tua  né  d'altrui  forza. 

Lo  qual,  senz'  alternar  poggia  con  orza, 
Dritto  per  l'aure  al  suo  desir  seconde, 
Battendo  1'  ali  verso  l'aurea  fronde, 
L'  acqua  e  '1  vento  e  la  vela  e  i  remi  sforza. 

Re  degli  altri,  superbo,  altero  fiume, 

Che  'ncontri  '1  Sol  quando  e'  ne  mena  iP  giorno, 
E  'n  Ponente  abbandoni^  un  più  bel  lume; 

Tu  te  ne  vai  col  mio  mortai  sul  corno; 
L'  altro,  coverto  d'amorose  piume. 
Torna  volando  al  suo  dolce  soggiorno. 
^  rapide     "  1    ^  abandoni 

SONETTO  CXLVIII.  181 

Egli  impensatamente  restò  preso  nelle  reti  di  Amore  tese  sotto  un  alloro. 

Amor  fra  l'erbe  una  leggiadra  rete 
D'  oro  e  di  perle  tese  sott'  un  ramo 
Dell'arbore  sempre  verde  eh'  i'  tant'  amo, 
Benché  n'  abbia  ombre  più  triste  che  liete. 

L'  esca  fu  '1  seme  eh'  egli  sparge  e  miete, 
Dolce  ed  acerbo,  ch'io^  pavento  e  bramo; 
Le  note  non  fur  mai,  dal  dì  ch'Adamo 
Aperse  gli  occhi,  sì  soavi  e  quete. 

E  '1  chiaro  lume  che  sparir  fa  '1  Sole 
Folgorava  d'  intorno:  e  '1  fune  avvolto^ 
Era  alla  man  ch'avorio  e  neve  avanza. 

Così  caddi  alla  rete,  e  qui  m'han-*  colto 
Gli  atti  vaghi  e  1'  angeliche  parole 
E  '1  piacer  e  '1  desire  e  la  speranza. 
*  (sic)     ^  chi     "  avolto    ■*  man 

SONETTO  CXLIX.  182 

Amore  e  gelosia  vanno  insieme;  tuttavia  egli  ama  Laura,  ma  per  la  som- 
ma virtù  di  lei  o  meglio  indifferenza  di  lei  verso  tutti  gli  uomini  non 

è  geloso. 
Amor,  che  'ncende  '1^  cor  d'  ardente  zelo. 
Dì  gelata  paura  il  tien  costretto,^ 


1 66  Petrarca. 

E  qual  sia  più,  fa  dubbio  all'intelletto,' 

La  speranza  o  '1  timor,*  la  fiamma  o  \  gielo. 

Trem'  al  più  caldo,  ard'  al  più  freddo  cielo. 
Sempre  pien  di  desire  e  di  sospetto; 
Pur  come  donna  in  un  vestire  schietto 
Celi  un  uom^  vivo,  o  sott'®  un  picciol  velo. 

Di  queste  pene  è  mia  propria  la  prima. 

Arder  dì  e  notte;  e  quanto  è  '1  dolce  male. 

Né 'n  pensier'  cape,  non  che 'n  versi  e'n^rma: 

L'  altra  non  già;  che  '1  mio  bel  foco  è  tale, 

Ch'  ogni   uom   pareggia;    e  del  suo  lume  in  cima 
Chi  volar  pensa,  indarno  spiega  1'  ale. 

^11  '  ten  constretto  '  intellecto  *  temor  "huom  **  sotto  'pensar 
*  on 

SONETTO  CL.  183 

Se  i  dolci  sguardi  di  lei  lo  tormentano  a  morte,   che  sarebbe  se  glieli 

negasse? 

Se  '1  dolce  sguardo  di  costei  m'  ancide 
E  le  soavi  parolette  accorte, 
E  s'Amor  sopra  me  la  fa  sì  forte 
Sol  quando  parla,  ovver^  quando  sorride; 

Lasso,  che  fia  se  forse  ella  divide, 

O  per  mia  colpa  o  per  malvagia  sorte. 
Gli  occhi  suoi  da  mercè,  sì  che  di  morte 
Là  dov'-  or  m'assecura,^  allor  mi  sfide? 

Però  s' i'  tremo  e  vo  col  cor  gelato 
Qualor  veggio  cangiata  sua  figura, 
Questo  temer  d'antiche  prove  è  nato. 
Femmina*  è  cosa  mobil  per  natura; 
Ond'io  so  ben  eh' un  amoroso  stato 
In  cor  di  donna  picciol  tempo  dura. 
'  over    '^  dove    ^  massicura    *  Femina 

SONETTO  GLI.  184 

Essendo  Laura  inferma  egli  teme  che  muo/a. 
Amor,  Natura  e  la  bell'^  alma  umile,* 
Ov'  ogni''  alta  virtù  te'   alberga  e  re^na. 


Rime.  167 

Centra  me  son  giurati.    Amor  s'ingegna 
Ch' i' mora  affatto;'^  e 'n  ciò  segue  suo  stile: 
Natura  tien®  costei  d'  un  sì  gentile 

Laccio,  che  nullo  sforzo  è  che  sostegna: 
Ella  è  sì  schiva,  eh'  abitar  non  degna 
Più  nella  vita  faticosa  e  vile. 

Così  lo  spirto  d'  or  in  or  vien  '  meno 
A  quelle  belle  care  membra  oneste,*^ 
Che  specchio  eran  di  vera  leggiadria. 

E  s' a  morte  pietà  non  stringe  iP  freno. 
Lasso,  ben  veggio  in  che  stato  son  queste 
Vane  speranze  ond'io  viver  solia. 

^  bella     *  humile      '  o§n      *  vertute      ^  a  fatto      ^  ten      '  ven 
"  honeste    *  1 

SONETTO  CLII.  185 

Attribuisce  a  Laura  le  bellezze  tutte  e  le  rare  doti  della  Fenice. 

Questa  Fenice,  dell'  aurata  piuma 
Al  suo  bel  collo  candido  gentile 
Forma  senz'  arte  un  sì  caro  monile. 
Ch'ogni  cor  addolcisce  e '1  mio  consuma: 

Forma  un  diadema  naturai  oh'  alluma 
L'aere  d' intorno  ;  e  '1  tacito  focile 
D'Amor  tragge  indi  un  liquido  sottile 
Foco  che  m'  arde  alla  più  algente  bruma. 

Purpurea  vesta,  d'  un  ceruleo  lembo 
Sparso  di  rose  i  belli  omeri ^  vela; 
Novo  abito  ^  e  bellezza  unica  e  sola. 

Fama  nell'  odorato  e  ricco  grembo 
D'  arabi  monti  lei  ripone  e  cela, 
Che  per  lo  nostro  ciel  sì  altera  vola. 
^  homeri    ^  habito 

SONETTO  CLIII.  186 

/  più  famosi  poeti  non  avrebbero  cantato   che    di  Laura  se   Favessero 

veduta. 

Se  Virgilio  ed  Ornerò^  avessin  visto 

Quel  sole  il  qual  vegg'  io  con  gli  occhi  miei, 


1 68  Petrarca. 

Tutte  lor  forze  in  dar  fama  a  costei 
Avrian  posto,  e  1'  un  stil  con^  1'  altro  misto: 
Di  che  sarebbe  Enea  turbato  e  tristo, 
Achille,  Ulisse^  e  gli  altri  semidei, 
E  quel  che  resse  anni  cinquantasei 
Sì  bene  il  mondo,  e  quel  eh'  ancise  Egisto. 

Quel  fior  antico*  di  virtuti^'  e  d'arme, 
Come  sembiante  stella  ebbe  con  questo 
Novo  fior  d'onestate  e  di  bellezze! 
Ennio  di  quel  cantò  ruvido  carme, 

Di  quest' altr' ^  io:  ed  o  pur  non  molesto 
Gli  sia'l'  mio  ingegno,  e '1  mio  lodar  non  sprezze! 
^  H omero    ^  col    ^  Ulixe    *  fiore  antiche     ^  vertuti     *  altro     '  il 

SONETTO  CLIV.  187 

Teme  che  le  sue  rime  non  sieno  atte  a  celebrar  degnamente  le  virtù    di 

Laura. 

Giunto  Alessandro^  alla  famosa  tomba 
Del  fero  Achille,  sospirando  disse: 
O  fortunato,  che  sì  chiara  tromba 
Trovasti  e  chi  di  te  sì  alto  scrisse! 

Ma  questa  pura  e  candida  colomba, 

A  cui  non  so  s'  al  mondo  mai  par  visse. 
Nel  mio  stil  frale  assai  poco  rimbomba: 
Così  son  le  sue  sorti  a  ciascun  fisse. 

Che  d'Omero  dignissima  e  d'Orfeo,^ 

O  del  pastor  eh'  ancor  ^  Mantova  onora,^ 
Ch'  andassen  sempre  lei  sola  cantando. 

Stella  difforme,  e  fato  sol  qui  reo 

Commise  e  tal  che  '1  suo  bel  nome  adora, 
Ma  forse  scema  sua  lode  parlando. 
^  Alexandro     ^  Orpheo     ^  anchor     '  honora 

SONETTO  CLV.  188 

Prega  il  Sole  a  non  privarlo  della  vista  del  beato  paese  di  Laura. 
Almo  Sol,  quella  fronde  eh'  io  sol'  ^  amo. 
Tu  prima  amasti:  or  sola  al  bel  soggiorno 


Kime.  169 

Verdeggia  e  senza  par,  poi  che  1'  adomo® 
Suo  male  e  nostro  vide  in  prima  Adamo. 

Stiamo  a  mirarla.    V  ti  pur  prego  e  chiamo, 
0  Sole;  e  tu  pur  fuggi,  e  fai  d' intorno 
Ombrare  i  poggi,  e  te  ne  porti 'P  giorno, 
E  fuggendo  mi  toi  quel  eh'  i'  più  bramo. 

L'ombra  che  cade  da  quell'  umiH  colle, 
Ove  favilla  il  mio  soave  foco. 
Ove  '1  gran  lauro  fu  picciola  verga. 

Crescendo  mentr'  io  parlo,  agli  occhi  lolle 
La  dolce  vista  del  beato  loco 
Ove  '1  mio  cor  con  la^  sua  donna  alberga. 
1  sola    ^  laddorno     ^11    *  quel  humil     '"  cola 

SONETTO  CLVI.  189 

Paragonasi  ad  una  nave  in  tempesta,   e  che  incomincia  a  disperare 

del  porto. 

Passa  la  nave  mia  colma  d'  obblio^ 

Per  aspro  mare  a  mezza  notte  il  verno 
Infra^  Scilla  e  Cariddi;"  ed  al  governo 
Siede '1  signor,*  anzi '1  nemico^  mio. 

A  ciascun  remo  un  pensier**  pronto  e  rio, 

Che  la  tempesta  e  '1  fin  par  ch'abbia  a  scherno  : 
La  vela  rompe  un  vento  umido,'  eterno 
Di  sospir,  di  speranze  e  di  desio. 

Pioggia  di  lagrimar,  nebbia  di  sdegni 
Bagna  e  rallenta  le  già  stanche  sarte, 
Che  son  d'error  con  ignoranza^  attorto. 

Celansi  i  duo  miei^  dolci  usati  segni; 
Morta  fra  1'  onde  è  la  ragion  e  1'  arte: 
Tal  eh'  incomincio  a  disperar  ^<^  del  porto. 

^  oblio    "  Enfra     ^  caribdi     *  signore     ®  nimico     ^  penser     '  hu- 
mido     ^  ignorantia    *  mei     ^°  desperar 

SONETTO  CLVII.  190 

Contempla  estatico  Laura  in  visione,  e  predice,  dolente,  la  morte  di  lei. 
Una  candida  cerva  sopra  1'  erba 

Verde  m'  apparve,  con  duo  corna  d'  oro, 


17C  PelTarca. 

Fra  due  riviere,  all'^  ombra  d'  un  alloro. 
Levando '1  Sole,  alla  stagiona  acerba. 
Era  sua  vista  sì  dolce  superba 

Ch'  l' lasciai  per  seguirla  ogni  lavoro  ; 
Come  r  avaro,  che  'n  cercar  tesoro, 
Con  diletto  V  affanno  disacerba. 

»  Nessun  mi  tocchi,*  al  bel  collo  d' intorno 
Scritto  avea  di  diamanti  e  di  topazi; 
»  Libera  farmi  al  mio  Cesare  parve.  « 

Ed  era '1  Sol  già  volto  al  mezzo  giorno: 
Gli  occhi  miei  stanchi  di  mirar,  non  sazi, 
Quand'  io  caddi  nell'  acqua,  ed  ella  sparve. 
'  (sic)     •  stagione 

SONETTO  CLVIII.  *191 

Ripone  tutta  la  sua  ielicità  solo  nel  contemplar  le  bellezze  di  Laura. 

Siccome  eterna  vita  è  veder  Dio, 

Né  più  si  brama,  né  bramar  più  lice. 
Così  me,  donna,  il  voi  veder,  felice 
Fa  in  questo  breve  e  frale '^  viver  mio. 

Né  voi  stessa,  com'  or,  bella  vid'  io 

Giammai,  se  vero  al  cor  1'  occhio  ridice; 
Dolce  del  mio  pensier  óra^  beatrice, 
Che  vince  ogni  alta  speme,  ogni  desio. 

E  se  non  fosse '^  il  suo  fuggir  sì  ratto. 
Più  non  dimanderei:'*  che  s'  alcun  vive 
Sol  d'  odore,  e  tal  fama  fede  acquista, 

Alcun  d'  acqua  o  di  foco  il"*  gusto  e  '1  tatto 
Acquetan,  cose  d'  ogni  dolzor  prive; 
r  perché  non  della  vostr'^^alma  vista? 

*  fraile    ^  penser  hora     •'  fusse    *  demanderei     ^  el    "^  vostra 

SONETTO  CLIX.  *192 

Invita  Amore  a  vedere  il  bell'andare  e  gli  atti  dolci  e  soavi  di  Laura. 
Stiamo,  Amor,  a  veder  la  gloria  nostra. 
Cose  sopra  natura  altere  e  nove. 


Rime.  171 

Vedi  ben  quanta  in  lei  dolcezza  piove; 
Vedi  lume  che  'i  Cielo  in  terra  mostra. 

Vedi  quant' arte  dora  e 'mperla  e'nnostra' 
L'abito  eletto '2  e  mai  non  visto  altrove; 
Che  dolcemente  i  piedi  e  gli  occhi  move 
Per  questa  di  bei  colli  ombrosa  chiostra. 

L'  erbetta  verde  e  i  fior  di  color  mille, 
Sparsi  sotto  quell'  ^  elee  antiqua  e  negra, 
Pregan  pur  che  '1  bel  pie  li  prema  o  tocchi. 

E  '1  ciel  di  vaghe  e  lucide  faville 

S'  accende  intorno,  e  'n  vista  si  rallegra 
D'  esser  fatto  seren  da  sì  begli*  occhi. 

*  enostra    '  electo    '  quel    *  belli 

SONETTO  CLX.  *193 

Nulla  può   immaginarsi  di  più  perfetto  che  veder  Laura,    e  sentirla 

parlare. 

Pasco  la  mente  d'  un  sì  nobil  cibo, 

Ch'  ambrosia  e  nettar^  non  invidio  a  Giove; 
Che  sol  mirando,  obblio'^  neh'  alma  piove 
D'  ogni  altro  dolce,  e  Lete*''  al  fondo  bibo. 

Talor  ch'odo  dir  cose  e  'n  cor  describo, 
Perchè  da  sospirar  sempre  ritrove. 
Ratto*  per  man  d'  Amor,  né  so  ben  dove, 
Doppia  dolcezza  in  un  volto  delibo: 

Che  quella  voce  infin  ai  Ciel  gradita, 
Suona  in  parole  sì  leggiadre  e  care, 
Che  pensar  noi  porla  chi  non  l'ha^  udita 

Allor  insieme^  in  men  d'un  palmo  appare 
Visibilmente,  quanto  in  questa  vita 
Arte,  ingegno  e  natura  e  '1  Ciel  può'  fare. 

*  nectar    ^  oblio    '  Lethe    *  Rapto    "^  la    ^  inseme    '  pò 

SONETTO  CLXI.  *194 

Appressandosi   al   paese  di  Laura  sente  la  forza  dell'amore   eh'' egli  le 

porta. 

L'aura  gentil  che  rasserena  i  poggi 

Destando  i  fior^  per  questo  ombroso  bosco 


1 72  Petrarca. 

Al  soave  suo  spirto  riconosco, 

Per  cui  conven  che  'n  pena  e  'n  fama  poggi. 
Per  ritrovar  ove  '1  cor  lasso  appoggi, 

Fuggo  dal  mio^  natio  dolce  aere  tosco; 

Per  far  lume  al  pensieri  torbido  e  fosco, 

Cerco  '1  mio  Sole,  e  spero  vederlo  oggi. 
Nel  qual  provo '^  dolcezze  tante  e  tali, 

Ch'  Amor  per  forza  a  lui  mi  riconduce; 

Poi  sì  m'  abbaglia,  che  '1  fuggir  m'  è  tardo 
Io  chiedere'*"'  a  scampar  non  arme,  anzi  ali: 

Ma  perir  mi  dà   1  Ciel  per  questa  luce, 

Che  da  lunge  mi  struggo,  e  da  press' ^  ardo. 
'  fiori    ^  mi     '  penser    *  prevo    ^  I  chiederei    *'  presso 

SONETTO  CLXII.  *195 

Non  può  sanarsi  la  sua  amorosa  ferita,  che,  o  dalla  pietà  di  Laura 
0  dalla  morte. 

Di  dì  in  dì  vo  cangiando  il  viso  e  '1  pelo; 
Né  però  smorso  i  dolce  inescati  ami,^ 
Né  sbranco  i  verdi  ed  invescati  rami 
Dell'arbor  che  né  Sol  cura  né  gielo. 

Senz'acqua  il  mare,  e  senza  stelle  il  cielo 

Pia  innanzi-^  ch'io  non  sempre  tema  e  brami 
La  sua  bell'ombra,  e  eh'  i'  non  odii^  ed  ami 
L'alta  piaga  amorosa  che  mal  celo. 

Non  spero  del  mio  affanno  aver  mai  posa 
Infin  eh'  i'  mi  disosso  e  snervo  e  spolpo, 
O  la  nemica  mia  pietà  n'  avesse. 

Esser  può^  in  prima  ogn'^  impossibil  cosa, 
Ch'  altri  che  morte  od  ella  sani  '1  colpo 
Ch'  Amor  co'  suoi  begli"  occhi  al  cor  m'impresse. 
*  hami    *  inangi     '  odi    *  pò     '*  ogni    ^  belli 

SONETTO  CLXIII.  "^196 

Sin  dal  primo  dì  in  cKei  la  vide,  crebber  in  Laura  le  grazie, 
ed  in  esso  l'amore. 

L'aura  serena  che,  fra  verdi  fronde 

Mormorando,  a  ferir  nel  volto  viemme. 


^sS\l  OF  MEDI^^ 


Rime.  1 73 

Fammi  risovvenir  ^  quand'  Amor  diemme 
Le  prime  piaghe  sì  dolci  e  profonde;'^ 

E  '1  bel  viso  veder,  ch'altri  m'asconde, 
Che  sdegno  o  gelosia  celato  tiemme; 
E  le  chiome,  or  avvolte^  in  perle  e  'n  gemme, 
Allora  sciolte  e  sovra  òr  terso  bionde; 

Le  quali  ella  spargea  sì  dolcemente, 
E  raccogliea^  con  sì  leggiadri  modi, 
Che,  ripensando,  ancor ^  trema  la  mente. 

Tersele  il  tempo  po'*^  in  più  saldi  nodi, 
E  strinse  '1  cor  d'un  laccio  sì  possente 
Che  morte  sola  fia  eh'  indi  lo  snodi. 
'  risovenir  "  dolci  profonde    '  avolte    *  raccoglea   ■'  anchor    **  poi 

SONETTO  CLXIV.  *197 

La  presenza  di'  Laura  lo  trasforma,  e  la  sola  sua  ombra  lo  fa  impallidire. 

L'aura  celeste  che  'n  quel  verde  lauro 
Spira,  ov'Amor  ferì  nel  fianco  Apollo, 
Ed  a  me  pose  un  dolce  giogo  al  collo, 
Tal  che  mia  libertà  tardi  restauro; 

Può^  quello  in  me  che  nel  gran  vecchio  mauro 
Medusa,  quando  in  selce  trasformollo. 
Né  posso  dal  bel  nodo  omai  dar  crollo, 
Là  've  'P   Sol   perde,  non  pur  l'ambra  o  l'auro; 

Dico  le  chiome  bionde  e  '1  crespo  laccio. 
Che  sì  soavemente  lega  e  stringe 
L'alma,  che  d'umiltate  e  non  d'altr'  armo. 
L'ombra  sua  sola  fa  '1  mio  core^  un  ghiaccio, 
E  di  bianca  paura  il  viso  tinge: 
Ma  gli  occhi  hanno  virtù'*  di  farne  un  marmo. 
'Po    ^  il     "  cor    *  li  occhi  anno  vertu 

SONETTO  CLXV.  *198 

Non   può   ridire    gli   effetti   che  in  lui  fanno  gli  occhi  e  le  chiome  di 

Laura. 

L'aura  scave  eh'  al  soP  spiega  e  vibra 

L'auro  ch'Amor  di  sua  man  fila  e  tesse: 


174  Petrarca. 

Là  da'  begli  "^  occhi,  e  dalle"  chiome  stesse 
Lega  '1  cor  lasso,  e  i  levi'*  spirti  cribra. 

Non  ho  midolla*  in  osso,  o  sangue  in  fibra, 

Ch'  io^  non  senta  tremar,  pur  eh'  i'  m'appressa' 
Dov'^è  chi  morte  e  vita  insieme®  spesse 
Volte  in  frale  bilancia  appende  e  libra; 

Vedendo  arder  ^^  i  lumi,  ond' io  m'accendo, 
E  folgorar^^  i  nodi,  ond'  io  son  preso. 
Or  suir*'^  omero  destro  ^^  ed  or  sul  manco. 

r  noi  posso  ridir;  che  noi  comprendo; 

Da  ta'  due  luci  è  1' intelletto  ^*^  offeso, 

E  di  tanta  dolcezza  oppresso  e  stanco, 

^  soave  al  sole   ^  belli   ''  de  le  *  lievi   ^  o  medolla  '''  Chi  '  apresse 
""  Dove   '*  inseme   ^^  ardere   ^^  folgorare  ^'^  su  1   ^^  dextro   **  intellecto 

SONETTO  CLXVI.  ♦IPP 

Rapitole   un    guanto,    loda    la    sua    bella    mano,    e   duolsi  dì   doverlo 

restituire. 

O  bella  man  che  mi  distringi  ^'1  core 
E'  n  poco  spazio'  la  mia  vita  chiudi; 
Man  ov'ogni  arte  e  tutti  loro  studi 
Poser  Natura  e  '1  Ciel  per  farsi  onore; ^ 

Di  cinque  perle  orientai  colore, 

E  sol  nelle  mie  piaghe  acerbi  e  crudi, 
Diti  schietti,  soavi;  a  tempo  ignudi 
Consente  or  voi,  per  arricchirmi,'*  Amore. 

Candido,  leggiadretto  e  caro  guanto, 
Che  copria  netto  avorio  e  fresche  rose. 
Chi  vide  al  mondo  mai  sì  dolci  spoglie? 

Così  avess'  io  del  bel  velo  altrettanto. 
O  incostanza^  dell'umane  cose! 
Pur  questo  è  furto;    e  vien  ch'i'  me  ne  spoglie. 
*  destringil     '-  spatio    '  honore    *  arrichirme     '"  inconstantia 

SONETTO  CLXVII.  *200 

Le  rida  il  guanto,  e  dice  che  non  pur  le  mani,    ma  tutto  è  in  Laura 
maraviglioso. 
Non  pur    quell'una  bella  ignuda  mano, 
Che  con  grave  mio  danno  si  riveste, 


Rim«.     .  175 

Ma  l'altra,  e  le  duo  braccia,  accorte  e  preste 

Son  a  stringer^  il  cor  timido  e  piano. 
Lacci  Amor  mille,  e  nessun  ^  tende  in  vano 

Fra  quelle  vaghe  nove  forme  oneste,^ 

Ch'adornan  sì  l'alt' abito*  celeste. 

Ch'aggiunger"'  noi  può^  stil  né  'ngegno  umano.' 
di'*  occhi  sereni  e  le  stellanti  ciglia; 

La  bella  bocca  angelica,  di  perle 

Piena  e  di  rose  e  di  dolci  parole. 
Che  fanno  altrui  tremar  di  maraviglia;® 

E  la  fronte  e  le  chiome,  ch'a  vederle 

Di  state  a  mezzo  dì  vincono  il  Sole. 
^  stringere     -  nesun     ^  honeste     *  lalto  habito    ''  agiunger    '  pò 
'  humano    '^  Li    "  meraviglia 

SONETTO  CLXVIII.  +201 

Si  pente  d'aver  yesiituito  quel  guanto  ch'era  per  lui  una  delizia    e  un 

tesoro. 

Mia  ventura  ed  Amor  m'avean  sì  adorno 
D'un  beli'  ^  aurato  e  serico  trapunto, 
Ch'ai  sommo  del  mio  ben  quasi  era  aggiunto, 
Pensando  meco  a  chi  fu  questo^  intorno. 

Né  mi  riede  alla  mente  mai  quel  giorno, 
Che  mi  fé  ricco  e  povero  in  un  punto, 
Ch'  i'  non  sia  d' ira  e  di   dolor  compunto, 
Pien  di  vergogna  e  d'amoroso  scorno; 

Che  la  mia  nobil  preda  non  più  stretta 
Tenni  al  bisogno,  e  non  fui  più  costante^ 
Centra  lo  sforzo  sol  d'un'angioletta; 

O  fuggendo,*  ale  non  giunsi  alle  piante. 
Per  far  almen  di  quella  man  vendetta. 
Che  degli  ^  occhi  mi  trae^  lagrime  tante, 
^  bello    '  quest    '  constante    *  fugendo     '"  deli    ^  trahe 

SONETTO  CLXIX.  *202 

Arso  e  distrutto  dalla  fiamma  amorosa,    non  ne  incolpa  che  la  pro- 
pria sorte. 
D'un  bel,  chiaro,  polito  e  vivo  ghiaccio 
Move  la  fiamma  che  m'incende  e  strugge, 


1 76  Petrarca. 

E  SÌ  le  vene  e  '1  cor^  m'asciuga  e  sugge 

Che  'nvisibilemente  i'  mi  disfaccio. 
Morte,  già  per  ferire  alzato  '1  braccio, 

Come  irato  ciel  tuona^  o  leon  rugge» 

Va  perseguendo  mia  vita  che  fugge; 

Ed  io,  pien  di  paura,  tremo  e  taccio. 
Ben  porla  ancor  ^  pietà  con  amor  mista. 

Per  sostegno  di  me,  doppia  colonna 

Porsi  fra  l'alma  stanca^  e '1  mortai  colpo: 
Ma  io  noi  credo,   né  '1  conosco  in  vista 

Di  quella  dolce  mia  nemica  e  donna; 

Né  di  ciò  lei,  ma  mia  ventura  incolpo. 
*  core    "  tona     ^  arichor    *  stancha 

SONETTO  CLXX.  *203 

L'amerà  anche  dopo  morte.   Essa  noi  crede,  ed  egli  se  ne  raitrisia. 

Lasso,  eh' i' ardo,  ed  altri  non  mei  crede; 
Sì  crede  ogni  uom,  se  non  sola  colei 
Che  sovr'ogni  altra  e  ch'i' sola  vorrei: 
Ella  non  par  che  '1  creda,  e  sì  sei  vede. 
.  Infinita  bellezza  e  poca  fede. 

Non  vedete  voi '1  cor  negh^  occhi  miei?^ 
Se  non  fosse  ^  mia  stella,  i'  pur  devrei 
Al  fonte  di  pietà  trovar  mercede. 

Quest'arder  mio.  di  che  vi  cai  sì  poco, 
E  i  vostri  onori  ^  in  mie  rime  diffusi. 
Ne  porian  infiammar  fors'ancor^  mille; 

Ch'  i'  veggio  nel  pensier,*^  dolce  mio  foco. 

Fredda  una  Hngua,  e  duo  begli'  occhi  cniusi 
Rimaner  dopo  noi  pien  di  faville. 
^  nelli     -  mei     ■"  fusse     '  honori     ^  anchor    •*  penser     '  belli 

SONETTO  CLXXI.  +204 

Propone  Laura  a  se  stesso  come  un  modello  di  virtù  da  doversi  imi'tc^e. 
Anima,  che  diverse  cose  tante 

Vedi,  odi  e  leggi  e  parli  e  scrivi  e  pensi; 
Occhi  miei  vaghi,   e  tu,  fra  gli'  altri  sensi, 
Che  scorgi  al  cor  l'alte  parole  sante; 


Rime.  1 77 

Per  quanto  non  vorreste  o  poscia  od  ante 
Esser  giunti  al  cammin  che  sì  mal  tiensi. 
Per  non  trovarvi  i  duo  bei  lumi  accensì, 
Né  l'orme  impresse  dell'amate  piante? 

Or  con  sì  chiara  luce  e  con  tai  segni 
Errar  non  dessi '-^  in  quel  breve  viaggio 
Che  ne  può^  far  d'eterno^  albergo  degni. 

Sforzati  al  cielo,  o  mio  stanco^'  corraggio, 
Per  la  nebbia  entro  de'  suoi  dolci  sdegni 
Seguendo  i  passi  onesti^  e  '1  divo  raggio. 

*  li     -  desi     '  pò     *  detterno    •'  stanche    ''  honesti 

SONETTO  CLXXII.  *205 

Confortasi  col  pensiero  che  un  dì  gli  sarà  invidiata  la  sua  fortuna. 

Dolci  ire,  dolci  sdegni  e  dolci  paci, 
Dolce  mal,  dolce  affanno  e  dolce  peso, 
Dolce  parlar^  e  do'  cernente  inteso. 
Or  di  dolce  ora,  or  pien  di  dolci  faci. 

Alma,  non  ti  lagnar,  ma  soffri-  e  taci, 

E  tempra  il  dolce  amaro  che  n'ha^  offeso. 
Col  dolce  onor^  che  d'amar  quella  hai  preso '^ 
A  cu' io  dissi:  tu  sola  mi  piaci. 

Forse  ancor  ^  fia  chi  sospirando  dica. 
Tinto  di  dolce  invidia:  assai  sostenne 
Per  bellissimo  amor  questi'  al  suo  tempo. 

Altri:  0  fortuna  agli  occhi  miei  nemica! 
Perchè  non  la  vid'  io?  perchè  non  venne 
Ella  più  tardi,  ovver^  io  più  per  tempo? 

^  parlare      "^  soffra       "'  na      *  honor      ^  quella  ...  so       °  anchor 
'  quest    **  over 

CANZONE  XIX.  >i206 

Si  studia  di  placare  lo  sdegno  di  Laura,  alla  quale  era  stato  riferite 
che  il  P.  aveva  detto  di  amare  sotto  il  nome  di  lei,  altra  donna. 

S' i' '1  dissi  mai,  ch'i' venga ^  in  odio  a  quella 
Del  cui  amor  vivo,  e  senza 'I  qual  morrei: 
Bibl  rem.  12/15  12 


1 78  Petrarca. 

S' i'  '1  dissi,  eh'  e'  miei  dì  sian  pochi  e  rei, 
E  di  vii  signoria  l'anima  ancella;  4 

S' i'  '1  dissi,  contra  me  s'arma  ogni  stella, 
E  dal  mio  lato  sia 
Paura  e  gelosia, 
E  la  nemica  mia 

Più  feroce  ver  me  sempre  e  più  bella. 
^  vegna 

S' i'  '1  dissi,  Amor  l'aurate  sue  quadrella 
Spenda  in  me  tutte,  e  l'impiombate  in  lei; 
S' i'  '1  dissi,  cielo  e  terra,  uomini  e  Dei 
Mi  sian  contrari,  ed  essa  ognor^  più  fella;  4 

S' i'  '1  dissi,  chi  con  sua  cieca  facella 
Dritto  a  morte  m'invia, 
Pur  come  suol  si  stia, 
Né  mai  più  dolce  o  pia 
Ver  me  si  mostri  in  atto  od  in  favella. 
1  ognior 

S' i' '1  dissi  mai,  di  quel  ch'i'men  vorrei, 
Piena  trovi  quest'aspra  e  breve  via; 
S' i'  '1  dissi,  il  fero  arder  che  mi  desvia 
Cresca  in  me,  quanto  '1^  fier  ghiaccio  in  costei;  4 
S' i' '1  dissi,  unqua  non  veggian  gli-  occhi  miei 
Sol  chiaro  o  sua  sorella, 
Né  donna  né  donzella. 
Ma  terribil  procella, 
Qual  Faraone '^  in  perseguir  gli  Ebrei.* 
1  il    -  li  o.  mei    ■•*  Pharaone    *  li  Hebrei 

S'  i'  'l  dissi,  coi  sospir,  quant'  io  mai  fei, 
Sia  pietà  per  me  morta  e  cortesia; 
S' i' '1  dissi,  il  dir  s'innaspri,  che  s'udia 
Sì  dolce  allor  che  vinto  mi  rendei;  4 

S'  i'  '1  dissi,  io  spiaccia  a  quella  eh'  io  '   terrei, 
Sol  chiuso  in  fosca  cella 
Dai  dì  che  la  mammella* 


Rime.  179 

Lasciai  fin  che  si  svella 

Da  me  l'alma,  adorar:  forse '1^  farei. 

*  i    *  mamella    '  el 

Ma  s'io  noi  dissi,  chi  sì  dolce  apria 
Mio^  cor  a  speme  nell'età  novella, 
Regga  ancor-  questa  stanca  navicella 
Col  governo  di  sua  pietà  natia,  4 

Né  diventi  altra,  ma  pur  qual  solia  ^ 

Quando  più  non  potei, 
Che  me  stesso  perdei, 
Né  più  perder  devrei. 
Mal  fa  chi  tanta  fé'  sì  tosto  obblia.^ 

*  Meo    '^  Regganchor    ^  oblia 

lo^  noi  dissi  giammai,  né  dir  porla 
Per  oro  o  per  cittadi  o  per  castella. 
Vinca  '1  ver  dunque  e  si  rimanga  in  sella, 
E  vinta  a  terra  caggia-  la  bugia.  4 

Tu  sai  in  me  il  tutto,  Amor:  s'ella  ne  spia. 
Dinne  quel  che  dir  dei. 
r  beato  direi 

Tre  volte  e  quattro  e  sei 
Chi,  devendo  languir,  si  morì  pria. 
'■  I     ^  chaggia 

Per  Rachel  ho^  servito  e  non  per  Lia; 
Né  con  altra  saprei 
Viver;  e  sosterrei. 
Quando  '1  Ciel  ne  rappella, 
Girmen  con  ella  in  sul  carro  d' Elia, 
lo 

CANZONE  XX.  *207 

Non  può  vivere  senza  vederla,  e  non  vorrebbe  morire  per  poter  amarla. 

Ben  mi  credea  passar  mio  tempo  omai 
Come  passato  avea  quest'anni  addietro,^ 
Senz'altro  studio  e  senza  novi  ingegni: 


180  Petrarca. 

Or  poi  che  da  Madonna  i'  non  impetro 
L'usata  aita,  a  che  condotto  m'  hai,^ 
Tu'l  vedi,  Amor,  che  tal  arte  m'insegni. 
Non  so  s' i' me  ne  sdegni; 
Che'n  questa  età  mi  fai  divenir  ladro 
Del  bel  lume  leggiadro, 
Senza '1  qual  non  vivrei  in  tanti  affanni. 
Così  avess'io  i  prim'anni^ 
^  Preso  lo  stil  ch'or  prender  mi  bisogna; 

■  Che'n  giovenil  fallire^  è  men  vergogna. 

*  adietro    "^  condutto  mai     ^  primi  anni    *  fallir 

Gli^  occhi  soavi,  ond'io  soglio  aver  vita. 
Delle  divine  lor  alte  bellezze 
Furmi  in  sul  cominciar  tanto  cortesi, 
Che'n  guisa  d'uom  cui  non  proprie  ricchezze. 
Ma  celato  di  for  soccorso  aita, 
Vissimi;  che  né  lor  né  altri  offesi. 
Or,  bench'a  me  ne  pesi, 
Divento  ingiurioso  ed  importuno; 
Che'l  poverel  digiuno 
Vien^  ad  atto  talor  che'n  miglior  stato 
Avria  in  altrui  biasmato. 
Se  le  man  di  pietà  invidia  m'ha'^  chiuse, 
Fame  amorosa  e  '1  non  poter  mi  scuse. 

'  Li     ^  Ven     •"  ma 

Oh'  i'  ho  *  cercate  già  vie  più  di  mille 
Per  provar  senza  lor  se  mortai  cosa 
Mi  potesse  tener  in  vita  un  giorno. 
L'anima,  poi  ch'altrove  non  ha  -  posa, 
Corre  pur  all'angeliche  faville; 
Ed  io,  che  son  di  cera,  al  foco  torno. 
E  pongo  mente  intorno, 
Ove  sì  fa  men  guardia  a  quel  eh'  i'  bramo; 
E  come  augello'*  in  ramo. 
Ove  men  teme,  ivi  più   tosto  è  colto, 


Rime.  181 

Così  dal  suo  bel  volto 

L'involo  or  uno  ed  or  un  altro  sguardo; 

E  di  ciò  insieme*  mi  nutrico  ed  ardo. 

*  Chio    '^  a    ^  augel    *  inseme 

Di  mia  morte  mi  pasco  e  vivo  in  fiamme: 
Stranio  cibo  e  mirabil  salamandra! 
Ma  miracol  non  è;  da  tal  si  volo. 
Felice  agnello  alla  penosa  mandra 
Mi  giacqui  un  tempo;  or  all'estremo^  famme 
E  Fortuna  ed  Amor  pur  come  sole:  ó 

Così  rose  e  viole 

Ha^  primavera,  e '1  verno  ha^  neve  e  ghiaccio. 
Però,  s' i'  mi  procaccio 
Quinci  e  quindi  alimenti  al  viver  curto, 
Se  voi  dir  che  sia  furto, 
Sì  ricca  donna  deve  esser  contenta. 
S'altri  vive  del  suo  ch'ella  noi  senta. 

*  extremo     ^  A    ^  a 

Chi  noi  sa  di  eh'  io  vivo  e  vissi  sempre 
Dal  dì  che^  prima  que' begli  •^  occhi  vidi, 
Che  mi  fecer  cangiar  vita  e  costume> 
Per  cercar  terra  e  mar  da  tutti  i'^  lidi. 
Chi  può*  saver  tutte  l'umane  tempre? 
L'un  vive,  ecco,  d'odor  là  sul  gran  fiume;  6 

Io  qui  di  foco  e  lume 
Queto  i  frali  e  famelici  miei  spirti. 
Amor  (e  vo'  ben  dirti) 
Disconviensi ^  a  signor  l'esser  sì  parco. 
Tu  hai^  li  strali  e  l'arco; 
Fa  di  tua  man,  non  pur  bramando,  i'"'  mora: 
Ch'un  bel  morir  tutta  la  vita  onora.* 

^  chen      ^  belli      '  tutti     *  pò     ^  Disconvensi    ®  ai     '  bramandio 
onora 

Chiusa  fiamma  è  più  ardente;  e  se  pur  cresce, 
In  alcun  modo  più  non  può^  celarsi; 


182  F^trsrcs. 

Amor,  i'  M  so,  che  '1  provo  alle  tue  mani. 

Vedesti  ben  quando  sì  tacito  arsi; 

Or  de'  miei  gridi  a  me  medesmo  incresce, 

Che  vo  noiando  e  prossimi^  e  lontani.  6 

O  mondo  o  pensier'^  vani! 

0  mia  forte  ventura  a  che  m'adduce! 

O  di  che  vaga  luce 

Al  cor  mi  nacque  la  tenace  speme 

Onde  l'annoda  e  preme 

Quella  che  con  tua  forza  al  fin  mi  mena! 

La  colpa  è  vostra,  e  mio  '1  danno  e  la  pena. 

^  pò     ~  proximi     ^  penser 

Così  di  ben  amar  porto  tormento, 

E  del  peccato  altrui  cheggio  perdono; 

Anzi  del  mio,  che  devea  torcer  gli^   occhi 

Dal  troppo  lume,  e  di  sirene  al  suono 

Chiuder  gli-  orecchi;  ed  ancor ^  non  men  pento 

Che  di  dolce  veleno  il   cor  trabocchi.  i 

Aspett'  io  pur  che  scocchi 

L'ultimo  colpo  chi  mi  diede  il^  primo: 

E  fia,  s' i'  dritto  estimo,*^ 

Un  modo  di  pietate  occider  tosto, 

Non  essend'*^  ei  disposto 

A  far  altro  di  me  che  quel  che  soglia: 

Che  ben  mor'  chi  morendo  esce  di  doglia. 

^  li     -  li     ^  anchor    ^  1     ^  extimo    ''  essendo     '  muor 

Canzon  mia,  fermo  in  campo 

Starò,  ch'egli^  è  disnor  miror  fuggendo. 

E  me  stesso  riprendo - 

Di  tai  lamenti;  sì  dolce  è  mia  sorte. 

Pianto,  sospiri  e  morte. 

Servo  d'Amor,  che  queste  rime  leggi. 

Ben  non  ha''  '1  mondo  che  '1  mio  mal  pareggi. 

'  chelii     -  reprendo     '•  a 


Rime.  183 

SONETTO  CLXXIII.  *208 

Prega  il  Rodano,  che,   scendendo   al  paese  di  Laura,  le  baci!  piede, 

0  la  mano. 

Rapido  fiume,  che  d'alpestra  vena, 

Rodendo  intorno,  onde  '1  tuo  nome  prendi, 
Notte  e  dì  meco  desioso^  scendi 
Ov'Amor  me,  te  sol  Natura  mena, 

Vattene  innanzi:  il  tuo  corso  non  frena 
Né  stanchezza  ne  sonno;  e  pria  che  rendi 
Suo  dritto  al  mar,  fiso,  u'  si  mostri,  attendi 
L'erba  più  verde  e  l'aria  più  serena. 

Ivi  è  quel  nostro  vivo  e  dolce  Sole 

Ch'adorna^  e  'nfiora  la  tua  riva  manca; 
Forse  (o  che  spero)  il^  mio  tardar  le  dole. 
Baciale  '1*  piede,  o  la  man  bella  e  bianca; 
Dille,  il  baciar  sia  'n^  vece  di  parole: 
Lo  spirto  è  pronto,  ma  la  carne  è  stanca. 
^  disioso    "  Chaddorna     •'  el    *  Bascialel     ■''  el  basciar  sien 

SONETTO  CLXXIV.  *209 

Dice  che  allontanatosi  da  Laura,   ha  innanzi  i  dolci  luoghi  della  sua 
dimora,  e  porta  infissa  al  cuore  la  saetta  amorosa. 

I  dolci  colli  ov'  io  lasciai  me  stesso 

Partendo  onde  partir  giammai  non  posso, 
Mi  vanno  innanzi;  ed  emmi  ognor  addosso^ 
Quel  caro  peso  ch'Amor  m'ha-  commesso. 

Meco  di  me  mi  maraviglio''  spesso, 

Ch'  i'  pur  vo  sempre,  e  non  son  ancor*  mosso 

Dal  bel  giogo  più  volte  indarno  scosso, 

Ma  com'  più  me  n'allungo  e  più  m'appresso. 

E  qual  cervo  ferito  di  saetta. 

Col  ferro  avvelenate'^  dentr'al  fianco 
Fugge,  e  più  ducisi  quanto  più  s'affretta; 

Tal  io  con  quello  strai  dal  lato  manco, 
Che  mi  consuma  e  parte  mi  diletta. 
Di  duol  mi  struggo  e  di  fuggir  mi  stanco. 
*  ognior  adosso     -  a     '"  meraviglio     *  anchor     ''  aveletiato 


1 84  Petrarca. 

SONETTO  CLXXV.  *210 

Si  duole  della  crudeltà  di'  Laura  e  dice  che  nel  mondo  non  credeva  egli 

che  SI   ritrovasse  se  non   una   Fenice  e  nondimeno  non  sa  per  Qua  e 

augurio,   0  per  qual  ordine  fatale  sia,   ch'egli  sia  un'altra  Fenice  in 

trovare  pietà  sorda  e  torni  misero  donde  doveva  tornare  felice. 

Non  dall' ispano   Ibero^  all'indo  Idaspe- 
Ricercando  del  mar  ogni  pendice, 
Né  dal  lite  vermiglio  all'onde  caspe, 
Né  'n  ciel  né  'n  terra  è  più  d'una  fenice. 

Qual  destro  ^  corvo  o  qual  manca  *  cornice 
Canti  '1  mio  fato?  o  qual  Parca  l' innaspe? 
Che  sol  trovo  pietà  sorda  com'aspe, 
Misero  onde  sperava  esser  felice! 

Ch'  i'  non  vo'  dir  di  lei  ;  ma  chi  la  scorge. 
Tutto '1  cor  di  dolcezza  e  d'amor  l'empie;'* 
Tanto  n'  ha^  seco  e  tant' altrui  ne  porge. 

E  per  far  mie  dolcezze  amare  ed  empie, 
0  s'infinge  o  non  cura  o  non  s'accorge 
Del  fiorir  queste  innanzi'  tempo  tempie. 

*  hispano   Hibero     ^  ydaspe    '  dextro    *  mancha    ''  glempie    ®  a 

inangi 

SONETTO  CLXXVI.  *211 

Come  e  quando  sia  entrato  nel  labirinto  d'amore,  e  come  ora  egli  vi  stia. 
Voglia  mi  sprona,  Amor  mi  guida  e  scorge. 

Piacer  mi  tira,  usanza  mi  trasporta, 

Speranza  mi  lusinga  e  riconforta, 

E  la  man  destra  al  cor  già  stanco  porge. 
IP   misero  la  prende,  e  non  s'accorge 

Di  nostra  cieca  e  disleale  scorta; 

Regnano  i  sensi,  e  la  ragion  è  morta; 

Dell'un  vago  desìo  l'altro  risorge. 
Virtute,  onor,-  bellezza,  atto  gentile, 

Dolci  parole  ai  bei*^  rami  m'  han-*  giunto, 

Ove  soavemente  il  cor  s'invesca. 
Mille  trecento  ventisette  appunto,'' 

Su  l'ora  prima,  il  dì  sesto  d'aprile 

Nel  labirinto*^  intrai;  né  veggio  ond'esca. 
'  El     -  Vertute  honor     ^  be    ■*  an     '^  a  punto    "  ìaberinto 


Rime.  185 

SONETTO  CLXXVII.  *212 

Servo  fedele  di  Amore  per  sì  lungo  tempo,    non  n'ebbe  in  premio  che 

lagrime. 

Beato  in  sogno,  e  di  languir  contento, 

D'abbracciar  l'ombre  e  seguir  l'aura  estiva, 
Nuoto  per  mar  che  non  ha^  fondo  o  riva, 
Solco  onde,  e  'n  rena  fondo  e  scrivo  in  vento. 

E  '1  Sol  vagheggio  sì,  ch'egli  ha^  già  spento 
Col  suo  splendor  la  mia  ver  tu  visiva; 
Ed  una  cerva  errante  e  fuggitiva^ 
Caccio  con  un  bue  zoppo  e  'nfermo  e  lento. 

Cieco  e  stanco  ad  ogni  altro  ch'ai  mio  danno. 
Il  qual  dì  e  notte  palpitando  cerco. 
Sol  Amor  e  Madonna  e  Morte  chiamo. 

Così  venf*  anni  (grave  e  lungo  affanno!) 
Pur  lacrime  e  sospiri  e  dolor  merco: 
In  tale  stella  presi  l'esca  e  l'amo. 
^  a    *  elli  a     ^  fugitiva    *  venti 

SONETTO  CLXXVIII.  *213 

Laura  colle  sue  grazie  fu  per  lui  una  vera  incantairice  che  lo  ir  asformò 
Grazie^  eh' a  pochi '1^  Ciel  largo  destina; 
Rara  vertù,  non  già  d'umana  gente; 
Sotto  biondi  capei  canuta  mente, 
E  in  umiP  donna,  alta  beltà  divina; 
Leggiadria  singolare*  e  pellegrina, 
E  '1  cantar  che  nell'anima  si  sente, 
L'andar  celeste,  e  '1  vago  spirto  ardente, 
Ch'ogni  dur  rompe  ed  ogni  altezza  inchina; 

E  que'  begli''  occhi,  che  i  cor  fanno  smalti. 
Possenti  a  rischiarar  abisso  e  notti, 
E  torre  l'alme  a'  corpi  e  darle  altrui  ; 

Col  dir  pien  d'intelletti*^  dolci  ed  alti, 
E  co'  sospir'  soavemente  rotti: 
Da  questi  magi  trasformato'^  fui. 

'  Gratie    *  il    ^  En  humil    *  singulare    '•'  belli    '^  intellect.     '  Coi 
so:;piri     ^  ^aiisformati 


1 86  Petrarca. 

SESTINA  VI.  *2U 

storia  del  suo  amore.    Difficoltà  di  liberarsene.    Invoca  Valuto  di  Dio. 

Anzi  tre  dì  creata  era  alma  in  parte 
Da  por  sua  cura  in  cose  altere  e  nove, 
E  dispregiar  di  quel  ch'a  molti  è  'n  pregio. 
Quest'ancora  dubbia  del  fatai  suo  corso, 
Sola,  pensando,  pargoletta  e  sciolta, 
Intrò  di  primavera  in  un  bel  bosco. 

Era  un  tenero  fior  nato  in  quel  bosco 
Il  giorno  avanti;  e  la  radice  in  parte 
Ch'appressar  noi  poteva  anima  sciolta. 
Che  v'eran  di  lacciuo'  forme  sì  nove 
E  tal  piacer  precipitava  al  corso. 
Che  perder  libertate  iv'^era  in  pregio. 

Caro,  dolce,  alto  e  faticoso  pregio. 
Che  ratto  mi  volgesti  al  verde  bosco, 
Usato  di  sviarne  a  mezzo  '1  corso, 
Ed  ho^  cerco  poi '1  mondo  a  parte  a  parte. 
Se  versi  o  pietre^  o  suco  d'erbe  nove 
Mi  rendesser  un  dì  la  mente  sciolta. 

Ma,  lasso,  or  veggio  che  la  carne  sciolta 

Pia  di  quel  nodo  ond'  è  '1  suo  maggior  pregio, 
Prima  che  medicine  antiche  o  nove 
Saldin  le  piaghe  eh'  i'  presi  in  quel  bosco 
Folto  di  spine;  ond'  i'  ho'^  ben  tal  parte, 
Che  zoppo  n'esco,  e'ntraivi**  a  sì  gran  corso. 

Pien  di  lacci  e  di  stecchi  un  duro  corso 
Aggio  a  fornire,  ove  leggiera'  e  sciolta 
Pianta  avrebbe  uopo,  e  sana  d'ogni  parte. 
Ma  tu.  Signor,  e'  hai  di  pietate  il  pregio, 
Porgimi  la  man  destra^  in  questo  bosco; 
Vinca  '1  tuo  Sol  le  mie  tenebre  nove. 

Guarda  '1  mio  stato  alle  vaghezze  nove, 
Che  'nterrompendo  di  mia  vita  il  corso, 


Rime.  187 

M'han*  fatto  abitator^^  d'ombroso  bosco: 
Rendimi,  s'esser  può,^^  libera  e  sciolta 
L'errante  mia  consorte;  e  fia  tuo  '1  pregio 
S' ancor  ^^  teco  la  trovo  in  miglior  parte. 

Or  ecco  in  parte  le  question  mie  nove: 

S' alcun  pregio  in  me  vive  o  'n  tutto  è  corso, 
O  l'alma  sciolta  o  ritenuta  al  bosco. 

'  anchor    ^  ivi     '  o    *  petre    ^  io    «  entravi     "^  leggera    *  dextra 
9  Man     1"  habitador    "  pò     ^^  Sanchor 

SONETTO  CLXXIX.  *215 

Virtù  somme  congiunte  a  bellezza  somma  formano  il  ritratto  di  Laura. 

In  nobil  sangue  vita  umile ^  e  queta. 
Ed  in  alto  intelletto ^  un  puro  core. 
Frutto  senile  in  sul  giovenil  fiore, 
E  'n  aspetto  pensoso  anima  lieta, 

Raccolto  ha'n^  questa  donna  il  suo  pianeta, 
Anzi '1  re  delle  stelle;  e '1  vero  onore,^ 
Le  degne  lode  e  'l  gran  pregio  e  '1  valore, 
Ch'  è  da  stancar^  ogni  divin  poeta. 

Amor  s'  è  in  lei  con  onestate*^  aggiunto; 
Con  beltà  naturale  abito'  adorno. 
Ed  un  atto  che  parla  non  silenzio,"^ 

E  non  so  che  negli  ^  occhi  che 'n  un  punto 
Può^*^  far  chiara  la  notte,  oscuro  il  giorno, 
E  '1  mei  amaro,     ed  addolcir  l'assenzio. ^^ 

^  humile     ^  intellecto      '  an     *  honore     ^  stanchar    *  honestate 
'  habito    *  silentio    ^  nelli     ^^  Po     "  adolcir  lassentio 

SONETTO  CLXXX.  *216 

Sofjre  in   pace  di  pianger  sempre,   ma  [non  che  Laura  siagli  sempre 

crudele. 

Tutto  '1  dì  piango;  e  poi  la  notte,  quando 
Prendon  riposo  i  miseri  mortali, 
Trovom'^  in  pianto  e  raddoppiarsi^  i  mali: 
Così  spendo  '1  mio  tempo  lagrimando. 


188  Petrarca. 

In   tristo  umor  ve  gli''  occhi  consumando, 
E '1  cor  in  doglia;  e  son  fra  gli  animali 
L'ultimo  sì,  che  gli*  amorosi  strali 
Mi  tengon  ad  ogni  or  di  pace  in  bando. 

Lasso,  che  pur  dall'uno^  all'altro  sole 

E  dall'un' ombra  all'altra  ho^  già '1  più  corso 
Di  questa  morte  che  si  chiama  vita. 
Più  l'altrui  fallo  che '1  mio'  mal  mi  dole; 
Che  pietà  viva  e  '1  mio  fido  soccorso 
Vedem' arder  nel  foco  e  non  m'aita. 
'  Trovomi     ^  raddopiarsi     ^  humor  vo  li    *  li     'un     ^  o    "mi 

SONETTO  CLXXXI.  *217 

Si  pente  d'essersi  sdegnato  verso  d'una  bellezza  che  gli  rende  dolce  anche 

la  morte. 

Già  desiai  con  sì  giusta  querela 
E'n  sì  fervide  rime  farmi  udire, 
Ch'un  foco  di  pietà  fessi  sentire 
Al  duro  cor  eh' a  mezza  state  gela; 

E  l'empia  nube  che'l  raffredda^  e  vela, 
Rompesse  a  l'aura  del  mio^  ardente  dire, 
O  fessi  quella'^  altrui 'n"^  odio  venire 
Ch'  e'  belli,  onde  mi  strugge,  occhi  mi  cela. 

Or  non  odio  per  lei,  per  me  pietate 

Cerco;  che  quel  non  vo',  questo  non  posso; 
Tal  fu  mia  stella  e  tal  mia  cruda  sorte. 

Ma  canto  la  divina  sua  beltate; 

Che,  quand'i'sia  di  questa  carne  scosso, 
Sappia  '1  mondo  che  dolce  è  la  mia  morte. 

rafredda    '^  mi     ^  quell    *  in 

SONETTO  CLXXXII.  *218 

Laura  è  un  Sole.   Tutto  è  bello  finch'essa  vive,  e  tutto  si  oscurerà  alla 

sua  morte. 

Tra  quantunque  leggiadre  donne  e  belle 

Giunga  costei,  ch'ai  mondo  non  ha^  pare, 

Col  suo  bel  viso  sol'^  dell'altre '^  fare 

Quel  che  fa'!  di  delle  minori  stelle. 


Rime.  189 

Amor  par  ch'all'orecchie  mi  favelle, 

Dicendo:  quanto  questa  in  terra  appare, 
Fia  '1  viver  bello  ;  e  poi  '1  vedrem  turbare, 
Perir  virtuti,^  e  '1  mio  regno  con  elle. 

Come  Natura  al  ciel  la  luna  e  '1  sole, 

All'aere  i  venti,  alla  terra  erbe'^  e  fronde. 
All'uomo  e  l'intelletto*  e  le  parole, 

Ed  al  mar  ritogliesse'  i  pesci  e  l'onde; 
Tanto  e  più  fien  le  cose  oscure  e  sole, 
Se  morte  gli^  occhi  suoi  chiude  ed  asconde. 
*  a    •  suol    '  (sic)    *  vertuti    ^  herbe    ^  intellecto  '  ritollesse    "  li 

SONETTO  CLXXXIII.  *219 

Levasi  il  Sole,  e  spariscono  le  Stelle.   Levasi  Laura  e  sparisce  il  Sole. 

Il  cantar  novo  e '1  pianger  degli  ^  augelli 
In  sul  dì  fanno  risentir^  le  valli, 
E  '1  mormorar  de'  liquidi  cristalli 
Giù  per  lucidi  freschi  rivi  e  snelli. 

Quella  ch'ha^  neve  il  volto,  oro  i  capelli. 
Nel  cui  amor  non  fur  mai'nganni'^  ne  falli. 
Destami  al  suon  degli  ^  amorosi  balli. 
Pettinando  al  suo  vecchio  i  bianchi  velli. 

Così  mi  sveglio  a  salutar  l'Aurora 

E '1  Sol  eh' è  seco,  e  più  l'altro  ond' io  fui 
Ne'prim'*^anni  abbagliato  e  sono  ancora.' 

r  gli  ho^  veduti  alcun  giorno  ambedui 

Levarsi  insieme,^  e'n  un  punto  e'n  un'ora  ^^ 

Quel  far  le  stelle  e  questo  sparir  lui. 

1  delli     2  ritentir    "a    *  inganni    '  delli     '  primi      '  abagliato  e 
son  anchora    ®  o    *  inseme    ^°  bora 

SONETTO  CLXXXIV.  *220 

Inter  foga   Amore,    ond'' abbia   tolte   quelle    tante   grazie   di   cui  Laura 

va  adorna. 

Onde  tolse  Amor  l'oro  e  di  qual  vena, 

Per  far  due  trecce^  bionde?  e'n  quali  spine 

Colse  le  rose,  e  'n  qual  piaggia  le  brine 

Tenere  e  fresche,  e  die  lor  polso  e  lena? 


1 90  Petrarca. 

Onde  le  perle  in  eh'  ei  frange  ed  affrena 
Dolci  parole  oneste^  e  pellegrine? 
Onde  tante  bellezze  e  sì  divine 
Di  quella  fronte  più  che  '1  ciel  serena? 

Da  quali  angeli  mosse  e  di  qual  spera 
Quel  celeste  cantar  che  mi  disface 
Sì  che  m'avanza  ornai  da  disfar  poco? 

Di  qual  Sol  nacque  l'alma  luce  altera 

Di  que' begli'*  occhi  ond'io  ho^  guerra  e  pace. 
Che  mi  cuocono'F  cor  in  ghiaccio  e 'n  foco? 
*  treccie    ^  honeste    '  belli    *  o    'il 

SONETTO  CLXXXV.  *221 

Guardando  gli  occhi  di  lei  si  sente  morire,  ma  non  sa  come  staccarsene. 

Qual  mio  destin,  qual  forza  o  qual  inganno 
Mi  riconduce  disarmato  al  campo 
Là  've  sempre  son  vinto  ;  e  s' io  ne  scampo, 
Maraviglia^  n'avrò;  s'i'moro,  il  danno. 

Danno  non  già,  ma  prò;  sì  dolci  stanno 
Nel  mio  cor  le  faville  e  '1  chiaro  lampo 
Che  l'abbaglia  e  lo  strugge,  e'n  ch'io  m'avvampo ;2 
E  son  già  ardendo  nel  vigesim'^  anno. 

Sento  i  messi  di  morte  ove  apparire 

Veggio  i  begli*  occhi  e  folgorar  da  lunge; 

Poi,  s'avven^  ch'appressando  a  me  li  gire, 
Amor  con  tal  dolcezza  m'unge  e  punge. 

Ch'i'  noi  so  ripensar,  non  che  ridire; 

Che  né  ingegno**  né  lingua  al  vero  aggiunge.' 

^  Meraviglia     '  avampo     '  vigesimo     •*  belli     ^  aven     "  nengegno 
'  agiunge 

SONETTO  CLXXXVI.  *222 

Non  trovandola  colle  sue  amiche,  ne  chiede  loro  il  perché;    ed  esse  il 

confortano. 

»  Liete  e  pensose,  accompagnate  e  sole 
Donne,  che  ragionando  ite  per  via, 
Ov'è  la  vita,  ov'è  la  morte  mia? 
Perchè  non  è  con  voi  com'ella  sole?* 


Rime.  191 

»  Liete  Siam  per  memoria  di  quel  Sole; 
Dogliose  per  sua  dolce  compagnia 
La  qual  ne  toglie  invidia  e  gelosia, 
Che  d'altrui  ben  quasi  suo  mal  si  dole.* 

»Chi  pon  freno  agli^  amanti  o  dà  lor  legge?« 
«Nessun^  all'alma;  al  corpo  ira  ed  asprezza: 
Questo  ora^  in  lei,  talor  si  prova  in  noi. 

Ma  spesso  nella  fronte  il  cor  si  legge: 
Sì  vedemmo  oscurar  l'alta  bellezza, 
E  tutti  rugiadosi  glì^  occhi  suoi.* 
^  ali    ^  Nesun     'or    *  li 

SONETTO  CLXXXVII.  *223 

Dice  che  il  Sole  tramontando  lo  priva  d'ogni  sua  gioia,  ma  sormontando, 
non  gliela  ritorna,  salvo  se  Laura  non  apparisse. 

Quando '1  Sol  bagna  in  mar  l'aurato  carro, 
E  l'aer^  nostro  e  la  mia  mente  imbruna. 
Col  cielo  e  con^  le  stelle  e  con^  la  luna 
Un'angosciosa  e  dura  notte  innarro. 

Poi,  lasso,  a  tal  che  non  m'ascolta  narro 
Tutte  le  mie  fatiche  ad  una  ad  una, 
E  col  mondo  e  con  mia  cieca  fortuna. 
Con  Amor,  con  Madonna  e  meco  garro 

Il  sonno  è'n  bando,  e  del  riposo  è  nulla; 
Ma  sospiri  e  lamenti  infin  all'alba, 
E  lagrime  che  l'alma  agli*  occhi  invia. 

Vien  poi  l'aurora,  e  l'aura  fosca  inalba, 

Me  no;  ma'l  Sol  che '1  cor  m'arde  e  trastulla, 
Quel  può^  solo  addolcir®  la  doglia  mia. 
^  laere    *  co    *  co    *  ali    ^  pò    "  adolcir 

SONETTO  CLXXXVIII.  *224 

Se  i  tormenti  che  soffre  lo  condurranno  a  morte,  ei  ne  avrà'l  danno, 
ma  Laura  la  colpa. 

S'una  fede  amorosa,  un  cor  non  finto, 
Un  languir  dolce,  un  desiar  cortese; 
S'oneste  voglie  in  gentil  foco  accese, 
S'un^  lungo  error  in  cieco  iaberinto; 


192  Petrarca. 

Se  nella  fronte  ogni  pensier  dipinto,^ 
Od  in  voci  interrotte  appena'^  intese, 
Or  da  paura,  or  da  vergogna  offese; 
S'un  pallor  di  viola  e  d'amor  tinto; 

S'aver  altrui  più  caro  che  se  stesso; 
Se  lagrimar  e  sospirar^  mai  sempre, 
Pascendosi  di  duol,  d'ira  e  d'affanno; 

S'arder  da  lunge  ed  agghiacciar  da  presso, 
Son  le  cagion  ch'amando  i'  mi  distempre, 
Vostro,  donna,  il^  peccato,  e  mio  fia  '1  danno. 

*  Un    ^  periser  depinto     ^  a  pena    *  Se  sospirare  e  lagrimar    •  1 

SONETTO  CLXXXIX.  *225 

Dice  beati  :  conduttori  di  quella  barca  e  di  quel  carro,  su  cui  Laura 
sedeva  cantando. 

Dodici  donne  onestamente^  lasse, 

Anzi  dodici  stelle,  e'n  mezzo  un  Sole 
Vidi  in  una  barchetta  allegre  e  sole, 
Qual  non  so  s'altra  mai  onde  solcasse. 

Simil  non  credo  che  Giasone  portasse 

Al  vello  ond'oggi  ogni  uom  vestir  si  vole, 
Né '1  pastor  di  che^  ancor  Troia  si  dole; 
De'  qua'  duo  tal  romor  al  mondo  fasse. 

Poi  le  vidi  in  un  carro  trionfale,^ 

E  Laura ^  mia  con  suoi  santi  atti  schifi 
Sedersi  in  parte  e  cantar  dolcemente. 

Non  cose  umane^  o  vision  mortale. 
Felice  Automedon,"^  felice  Tifi.^ 
Che  conduceste  sì  leggiadra  gente  1 

*  honestamente     '  lason     •'  eh     *  triumphale    •'  E  Laura]  Laurea 
s  humane     '  Autumedon     **  Tiphi 

SONETTO  CXC.  *226 

Tanto  egli  è  misero  nelVesser    lontano  da  lei,   quanto  è  felice  il  luogo 
che  la  possiede. 
Passcr  mai  solitario  in  alcun  tetto 

Non  fu  quant' io,  né  fera  in  alcun  bosco; 
Ch'i' non  veggio '1  bel  viso,  e  non  conosco 
Altro  Sol.  né  quest'occhi  hann'^  altro  obbietto- 


Rime.  193 

Lagrimar  sempre  è'I  mio  sommo  diletto; 
Il  rider,  doglia;  il  cibo,  assenzio''  e  tosco; 
La  notte  affanno,  iH  ciel  seren  m'è  fosco, 
E  duro  campo  di  battaglia  il  letto. 

Il  sonno  è  veramente,  qual  uom  dice, 
Parente  della  morte,  e'I  cor  sottragge 
A  quel  dolce  pensier'"^  ch'n  vita  il  tene. 
Solo  al  mondo  paese  almo  felice. 
Verdi  rive,  fiorite  ombrose  piagge, 
Voi  possedete  ed  io  piango  '1^  mio  bene. 
^  ann    "^  obiecto     •'  assentio    *  el    *  penser    ^  il 

SONETTO  CXCI.  *227 

Invidia  la  sorte  dell'aura  che  spira,  e  del  fiume  che  scorre  intorno  a  lei. 

Aura  che  quelle  chiome  bionde  e  crespe 
Circondi^  e  movi,  e  se' mossa  da  loro 
Soavemente,  e  spargi  quel  dolce  oro, 
E  poi '1  raccogli  e'n  bei  nodi'l"  rincrespc; 

Tu  stai  negli'"'  occhi  ond' amorose  vespe 

Mi  pungon  sì,  che'nfin  qua  il  sento  e  ploro, 

E  vacillando  cerco  il  mio  tesoro,* 

Com'' animai  che  spesso  adombre  e'ncespe; 

Ch'or  mei  par  ritrovar,  ed  or  m'accorgo 

Ch'i' ne  son  lunge;  or  mi  sollevo,'^  or  caggio: 
Ch'or  quel  eh'  i'  bramo,  or  quel  eh'  è  vero,  scorgo. 

Aer  felice,  col  bel  vivo  raggio 

Rimanti.  E  tu,  corrente  e  chiaro  gorgo, 
Che  non  poss'io  cangiar  teco  viaggio? 
^  Cercondi    ^  il    '  nelli    *  thesoro     ^  Come    "^  sollievo 

SONETTO  CXCII.  *228 

Narra  sotto  la  figura  d'un  alloro  tutta  l'istoria  del  suo  amore. 

Amor  con^  la  man  destra-^  il  lato  manco 
M'aperse,  e  piantovv'^  entro  in  mezzo  '1  core 
Un  lauro  verde  sì,  che  di  colore 
Ogni  smeraldo  avria  ben  vinto  e  stanco. 
Bibl.  rom.  12/15.  13 


1 94  Petrarca. 

Vomcr  di  p^nna.   con   sospir  del   fianco. 

E'I  piover  giù  dagli**  occhi  un  dolce  umore^ 

L'adornar^  sì,  ch'ai  ciel  n'andò  l'odore, 

Qual  non  so  già  se  d'altre  frondi  unquanco. 
Fama,  onor  e  virtude'  e  leggiadria, 

Casta  bellezza  in  abito®  celeste 

Son  le  radici  della  nobil  pianta. 
Ta  la  mi  trovo  al  petto  ove  ch'i' sia; 

Felice  incarco;  e  con  preghiere  oneste^ 

L'adoro  e'nchino  come  cosa  santa. 
1  co       *  dextra       ^  piantovi       *  dalli       *  humore      "  Laddorna 
'  honcr  e  vertute    *  habito    ^  honeste 

SONETTO  CXCIII.  *22<, 

Dice  ch'è  felice  nell'affanno,  non  curandosene  perchè  gli  viene  da  donni 
di  sommo  valore. 

Cantai,  or  piango,  e  non  man  di  dolcezza 
Del  pianger  prendo,  che  del  canto  presi; 
Ch'alia  cagion,  non  all'effetto  intesi 
Son  i  miei  sensi  vaghi  pur  d'altezza. 

Indi  e  mansuetudine  e  durezza 
Ed  atti  feri  ed  umili  ^  e  cortesi 
Porto  egualmente;  né  mi-  gravan  pesi, 
Né  l'arme  mie  punta  di  sdegni  spezza. 

Tengan  dunque  ver  me  l'usato  stile 

Amor,  Madonna,  il  mondo  e  mia  fortuna; 
Ch'i' non  penso  esser  mai  se  non  felice. 

Arda^  o  mora  o  languisca,  un  più  gentile 
Stato  del  mio  non  é  sotto  la  luna; 
Sì  dolce  è  del  mio  amaro  la  radice. 
1  humili    ^  me    ^  Viva 

SONETTO  CXCIV.  ^230 

Tristo,  perchè  lontano  da  lei,  al  rivederla  si  rasserena,  e  ritorna  in  vita. 
V  piansi;  or  canto;  che '1  celeste  lume 

Quel  vivo  Sole  agli^  occhi  miei'^  non  cela, 
Nel  qual  onesto^  Amor  chiaro  rivela^ 
Sua  dolce  forza  e  suo  santo  costume: 


Rime.  195 

Onde  e'  suol  trar  di  lagrime  tal  fiume, 
Per  accorciar  del  mio  viver  la  tela, 
Che  non  pur  ponte  o  guado  o  remi  o  vela, 
Ma  scampar  non  potiemmi  ale  ne  piume. 

Sì  profond'  ^  era  e  di  sì  larga  vena 
11  pianger  mio,  e  sì  lungi ^  la  riva, 
Ch'  i'  v'aggiungeva  col  pensier  appena.' 

Non  lauro  o  palma,  ma  tranquilla  oliva 
Pietà  mi  manda,  e  '1  tempo  rasserena, 
E '1  pianto  asciuga,  e  vuol  ancor  ^  eh' i' viva. 

^  alli    2  mei     ^  honesto    *  revela    ^  profondo    ®  lungc    '  penser 
apena    ^  anchor 

SONETTO  CXCV.  *231 

Si  duole  del  male  degli  occhi  di  Laura. 

V  mi  vivea  di  mia  sorte  contento, 
Senza  lagrime  e  senza  invidia  alcuna; 
Che  s'altro  amante  ha^  più  destra  fortuna, 
'Mille  piacer  non  vaglion  un  tormento. 

Or  que' begli  ^  occhi,  ond' io  mai  non  mi  pento 
Delle  mie  pene,  e  men  non  ne  voglio  una, 
Tal  nebbia  copre,  sì  gravosa  e  bruna, 
Che  '1  Sol  della  mia  vita  ha^  quasi  spento. 

O  Natura,  pietosa  e  fera  madre. 
Onde  tal  possa  e  sì  contrarie  voglie 
Di  far  cose  e  disfar  tanto  leggiadre? 

D'un  vivo  fonte  ogni  poter^  s'accoglie. 
Ma  tu  come  '1  consenti,  o  sommo  Padre, 
Che  del  tuo  caro  dono  altri  ne  spoglie? 
^  a    *  quei  belli    *  a    *  poder 

SONETTO  CXCVI  (Var.  arg.  XIX).   *232 

Z??'  gravi  danni   recati  dall'  ira   non  frenata,  su  gli  esempi  d'uomini 

illustri. 

Vinci tor  Alessandro^  l'ira  vinse, 

E  fel  minor ^  in  parte  che  Filippo:^ 

Che  li  vai  se  Pirgotele  o  Lisippo^ 

L'intagliar  solo,  ed  Apelle  il  dipinse?^ 


195  Petrarca. 

L'ira  Tideo^  a  tal  rabbia  sospinse, 
Che  morend' '  ei  si  rose  Menalippo: 
L'ira  cieco  del  tutto,  non  pur  lippo, 
Fatto  avea  Siila;   all'ultimo  l'estinse.^ 

Sai  Valentinian,  eh'  a  simil  pena 

Ira  conduce;  e  sai  quei  che  ne  more, 
Aiace,  in  molti  e  po'*^  in  se  stesso  forte. 

Ira  è  breve  furor ;^o  e  chi  noi  frena, 
É  furor  lungo  che  '1  suo  possessore 
Spesso  a  vergogna,  e  talor  mena  a  morte. 

Vincitore  Alexandre    ^  minore    ^  Philippe  *  Pyrgotile  e  Lysipi.o 
6  Appelle  il  depinse    ^  Tydeo    '^  morendo    «  extinse    »  poi     i"  furor? 

SONETTO  CXCVII.  *233 

Si  rallegra  che  essendo  andato  a  visitar  Laura,  che  aveva  male  agli  occ  '  . 
il  male  s'appiccasse  a  lui  e  lasciasse  lei. 

Qual  ventura  mi  fu  quando  dall'uno 

De'  duo  i  più  begli  ^  occhi  che  mai  furo, 

Mirandol  di  dolor  turbato  e  scuro, 

Mosse  vertù  che  fé '1  mio  infermo  e  bruno! 

2end'  io  tornato  a  solver  il  digiuno 
Di  veder  lei  che  sola  al  mondo  curo, 
Fummi  '1-  Ciel  ed  Amor  men  che  mai  duro. 
Se  tutte  altre  mie  grazie  insieme'^  aduno. 

Che  dal  destr'^  occhio,  anzi  dal  destro"'  sole 
Della  mia  donna,  al  mio  destr' ^occhio  venne 
Il  mal,  che  mi  diletta  e  non  mi  dole; 

E  pur  come  intelletto^'  avesse  e  penne, 
Passò  quasi  una  stella  che  'n  ciel  vola; 
E  Natura  e  pietade'  il  corso  tenne. 
>•  belli     ^  il     ^  gratie  inseme     *  dextr    ^  dextro    «  comintellecto 

SONETTO  CXCVIII.  234 

Fugge  la  camera  sua,   fugge  il  suo  letto  e  se  slesso,  cercando,   contro 
l'usanza,  una  compagnia. 
0  cameretta,  che  già  fosti  un  porto 
Alle  gravi  tempeste  mie  diurne. 
Fonte  se'  or  di  lagrime  notturne. ^ 
Che  '1  dì  celate  per  vergogna  porto. 


Rime.  J07 

O  letticciuol,  che  requie  eri  e  conforto 
In  tanti  affanni,  di  che  dogliose  urne 
Ti  bagna  Amor  con  quelle  mani  eburne 
Solo  ver  me  crudeli  a  sì  gran  torto! 

Ne  pur  il  mio  secreto  e  '1  mio  riposo, 

Fuggo,  ma  più  me  stesso  e  '1  mio  penserò. 
Che  seguendo!  talor,  levomi-  a  volo. 

11*^  vulgo,  a  me  nemico  ed  odioso 

(Chi '1  pensò  mai?),  per  mio  refugio  chero; 
Tal  paura  ho"^  di  ritrovarmi  solo. 
^  nocturne     2  Jevommi     3  El    *  o 

SONETTO  CXCIX.  *235 

Si  scusa  del  passare  dalla  casa  di  Laura,  contro  il  volere  di  lei.  dicendo 
essere  sforzato  da  passione  amorosa. 
Lasso,  Amor  mi  trasporta  ov'  io  non  voglio, 
E  ben  m'accorgo  che '1  dever  si  varca.^ 
Onde  a  chi  nel  mio  cor  siede  monarca'-^ 
Son-  importuno  assai  più  eh' i' non  soglio. 
Né  mai  saggio  nocchier  guardò  da  scoglio 
Nave  di  merci  preziose  carca.* 
Quant'io  sempre  la  debile  mia  barca^ 
Dalle  percosse  del  suo  duro  orgoglio. 
Ma  lagrimosa  pioggia  e  fieri  venti 
D'infiniti  sospir*^  or  l'hanno'  spinta 
(Ch' è  nel  mio  mar  orribil'^  notte  e  verno) 
Ov'altrui  noie,  a  se  doglie'-'  e  tormenti 
Porta,  e  non  altro,  già  dall'onde  vinta, 
Disarmata  di  vele  e  di  governo. 
.  .  '  7f  rcha     ~  monarcha    a  Sono    ^  preciose  carcha    ^  barcha    «  as- 
piri    '  lanno     «  mare  horribil    »  doglia 

SONETTO  ce.  *236 

Se  Amore  è  cagione  di  sue  colpe,    lo  prega  a  far  ch'ella  7  senta   e  ìe 
perdoni  a  se  stessa. 
Amor,  io  fallo,  e  veggio  il  mio  fallire, 

Ma   fo  sì  com'uom  ch'arde  e  '1  foco  ha  ^  'n  seno 
Che'l  duo!  per  cresce,  e  la  ragion  vien^  meno 
Ed  è  già  quasi  vinta  dal  martire. 


198 


Petrarca. 


Solaa  frenare  il  mio  caldo  desire, 

Per  non  turbar^  il  bel  viso  sereno: 

Non  posso  più;   di  man  m'hai*  tolto  il  freno; 

E  l'alma,  disperando,  ha^  preso  ardire. 
Però,  s'oltra  suo  stile  ella  s'avventa,* 

Tu'l  fai.  che  sì  l'accendi  e  sì  la  sproni, 

Ch'ogni  aspra  via  per  sua  salute  tenta; 
E  più  '1  fanno  i  celesti  e  rari  doni, 

C  ha  in  se  Madonna.  Or  fa  almen  ch'ella  il  sents. 

E  le  mie  colpe  a  se  stessa  perdoni, 
la    2  ven    »  turbare    *  ai    ^  desperando  a    «  saventa 

SESTINA  VII.  *23 

Disperazione  che  i  suoi  mali  mai  non  debbano  cessare. 
Non  ha^  tanti  animali  il  mar  fra  l'onde, 
Né  lassù  sopra  '1  cerchio  della  luna 
Vide  mai  tante  stelle  alcuna  notte, 
Ne  tanti  augelli  albergan  per  li  boschi.  _ 
Né  tant'erbe  ebbe  mai  campo  né  piaggia, 
Quant'ha  il"^  mio  cor  pensier  ciascuna  sera. 

Di  dì  in  dì  spero  omai  l'ultima  sera,^ 
Che  scevri  in  me  dal  vivo  terren  l'onde, 
E  mi  lasci  dormir^'  in  qualche  piaggia: 
Che  tanti  affanni  uom  mai  sotto  la  luna 
Non  sofferse,  quant'io:  sannoisi  i  boschi 
Che  sol  vo  ricercando  giorno  e  notte. 

r*  non  ebbi  giammai  tranquilla  notte. 
Ma  sospirando  andai  mattino  ^  e  sera. 
Poi  ch'Amor  femmi  un  cittadin  de'  boschi. 
Ben  fia.  prima  chi'  i'  posi,  il  mar  senz'onde, 
E  la  sua  luce  avrà  '1  Sol  dalla  luna, 
E  i  fior  d'aprii  morranno  in  ogni  piaggia. 

Consumando  mi  vo  di  piaggia  in  piaggia 
11  «  dì  pensoso,  poi  piango  la  notte; 
Né  sUilo  ho-   mai  se  non  quanto  la  luna. 


Rime.  '  199 

Ratto  come  imbrunir  veggio  I?.  sera, 

Sospir  del  petto,  e  degli  ^  occhi  escon®  onde, 

Da  bagnar  l'erba ^"^  e  da  crollare  i  boschi. 

Le  città  son  nemiche,  amici  i  boschi 

A'  miei  pensier,  che  per  quest'alta  piaggia 
Sfogando  vo  col  mormorar  dell'onde 
Per  lo  dolce  silenzio ^^  della  notte: 
Tal  eh'  io  aspetto  tutto  '1  dì  la  sera, 
Che  '1  Sol  si  parta  e  dia  luogo  alla  luna. 

Deh^-  or  foss' io  col  vago  della  Luna 

Addormentato^*^  in  qualche ^^  verdi  boschi; 
E  questa  ch'anzi  vespro  a  me  fa  sera, 
Con  essa  e  con  Amor  in  quella  piaggia 
Sola  venisse  a  stars'^^  ivi  una  notte; 
E  '1  dì  si  stesse  e  '1  Sol  sempre  nell'onde. 

Sovra  dure  onde  al  lume  della  luna, 

Canzon,  nata  di  notte  in  mezzo  i  boschi, 
Ricca  piaggia  vedrai  diman^*^  da  sera. 

^  a  2  al  3  dormire  *  Io  s  matino  ^  El  '  o  «  deli  »  escono 
^^  lerbe  ^i  silentio  ^^  q©  is  Adormentato  i*  qua  che  ^^  starsi 
'*  deman 

SONETTO  CCI.  -■'238 

Sopita  ratto  d'un   principe,  che  fra  le  gentili  donne  che  si  trovavano 
a  una  festa,  fece  segno  di  maggiore  onore  a  Laura. 

Real  natura,  angelico  intelletto, 

Chiar'  ^  alma,  pronta  vista,  occhio  cervero,^ 
Provvidenza'^  veloce,  alto  penserò, 
E  veramente  degno  dì  quel  petto: 

Sendo  di  donne  un  bel  numero  eletto 
Per  adornar  il  dì  festo  ed  altero,         ' 
Subito  scorse  il  buon  giudicio  intero 
Fra  tanti  e  sì  bei  volti  il  più  perfetto. 

L'altre  maggior  di  tempo  o  di  fortuna 
Trarsi  in  disparte  comandò  con  mano, 
E  caramente  accolse  a  se  queli'una. 


200  Petrarca. 

Gli-^  occhi  e  la  fronte  con  sembiante  umano'' 
Baciolle^  sì,  che  rallegrò  ciascuna; 
Me  empiè  d'invidia  l'atto  dolce  e  strano. 
'  Chiara     2  cerviero    ^  Providentia    *  Li    ^  humano    «  BascioU- 

SESTINA  Vili.  *239 

-  E   sì   sorda   e  crudele,   che  non  si  commove  alle  lagrime,  e  non  cura 

rime  né  versi. 

Là  ver  l'aurora,  che  sì  dolce  l'aura^^ 
Al  tempo  novo  suol  mover-  i  fiori 
E  gli'^  augelletti  incominciar  lor  versi; 
Sì  dolcemente  i  pensier  dentro  all'alma 
Mover  mi  sento  a  chi  gli  ha*  tutti  in  fori:a. 
Che  ritornar  convienmi'^  alle  mie  note. 

Temprar  potess'  io  in  sì  soavi  note 
I  miei  sospiri,  ch'addolcissen  Laura,^' 
Facendo  a  lei  ragion,  ch'a  me  fa  Jorza! 
Ma  pria  fia  '1  verno  la  stagion  de'  fiori, 
Ch'amor  fiorisca  in  quella  nobil  alma, 
Che  non  curò  giammai  rime  né  versi. 

Quante  lagrime,  lasso,  e  quanti  versi 

Ho^  già  sparti  al  mio  tempo,  e'n  quante  note 
Ho'  riprovato  umiliar^  quell'alma! 
Ella  si  sta  pur  com' aspr' alpe  a  l'aura 
Dolce,  la  qual  ben  move  fronde"  e  fiori, 
Ma  nulla  può  se  'ncontro  ha^"  maggior  forza. 

Uomini"  e  Dei  solea  vincer  per  ^forza 

Amor,  come  si  legge  in  prosa^'-^  e'n  versi; 
Ed  io  'l  provai  'n  sul  primo  aprir  de'  fiori. 
Ora  nè'l  mio  Signor,  né  le  sue  note,  ^ 

Né  '1  pianger  mio  né  i  preghi  pon  far  Laura 
Trarre  0  di  vita  o  di  martir  quest'alma. 

All'ultimo  bisogno  0  miser' ^-^  alma, 

Accampa  ogni   tuo  ingegno,  ogni  tua  forza. 

Mentre  fra  noi  di  vi  Li  alberga  l'aura^^ 


Rime.  201 

Null'al^*^  mondo  è  che  non  possano  i  versi; 
E  gli^'  aspidi  incantar  sanno  in  ior  note, 
Non  che  '1  gielo  adornar  di  novi  fiori. 

Ri  don  or  per  le  piagge  erbette  ^^  e  fiori: 
Esser  non  può^^  che  quell'angelic'-^  alma 
Non  senta  '1^^  suon  dell'amorose  note. 
Se  nostra  ria  fortuna  è  di  più  forza, 
Lagrimando,  e  cantando  i  nostri  versi, 
E  col  bue  zoppo  andrem  cacciando  l'aura. 

In  rete  accolgo  l'aura  e 'n  ghiaccio  i  fiori, 
E 'n  versi  tento  sorda  e  rigid'^"  alma, 
Che  ne  forza  d'Amor  prezza  né  note. 

*  Laura  ^  movere  ^  li  *  Ha  ^  convenmi  ^  laura  '  O  *  hu- 
miliar  *  frondi  ^"  pò  sencontra  i^  Homini  ^^  prose  ^^  laura 
'*  misera  ^^  Laura  **  Nulla  al  ^'  li  i*  herbette  i»  pò  20  quella 
angelica    21  [\    22  rigida 

SONETTO  CCII.  *240 

Si  scusa  che  trapassi  i  segni  posti  da  Laura  0  in  visitando/a  0  in  par- 
lando, per  la  forza  del  suo  amore  e  la  violenza  delle  bellezze  di  lei. 

r  ho^  pregato  Amor,  e  nel'-^  riprego, 
Che  mi  scusi  appo  voi,  dolce  mia  pena. 
Amaro  mio  diletto,"  se  con  piena 
Fede  dal  dritto  mio  sentier  mi  piego. 

r  noi  posso  negar,  donna,  e  noi  nego, 
Che  la  ragion,  ch'ogni  buon'*  alma  affrena. 
Non  sia  dal  voler  vinta;  ond'ei  mi  mena 
Talor  in  parte  ov'io  per  forza  il  sego. 

Voi,  con  quel  cor  che  di  sì  chiaro  ingegno. 
Di  sì  alta  virtute-''  il  cielo  alluma, 
Quanto  mai  piovve  da  benigna  stella; 

Devete  dir  pietosa  e  senza  sdegno: 

Che  può"  questi  altro?  il  mio  volto '1'  consum.a: 
Ei  perchè  ingordo,  ed  io  perchè  sì  bella. 

*  Io    '■'  al  ne    ^  dilecto    ■*-  bona    ^  vertute    *  pò    'il 


202  Petrarcn. 

SONETTO  ceni.  *24i 

Dimostra  che  se  prima  Amore  per  cagione  della  bellezza  di  Lau/a  ferito 
Vaveva,   ora  di  nuova  piaga  per  la  compassione  ch'egli  ha  della  infer- 
mità di  lei  lo  trafigge. 

L'alto  Signor  dinanzi  a  cui  non  vale 
Nasconder  né  fuggir  né  far  difesa, 
Di  bel  piacer  m'  avea  la  mente  accesa 
Con  un  ardente  ed  amoroso  strale; 

E  benché  '1  primo  colpo  aspro  e  mortale 
Fosse ^  da  sé;  per  avanzar  sua  impresa. 
Una  saetta  di  pietate  ha'^  presa; 
E  quinci  e  quindi 'F  cor  punge  ed  assale. 

L'una  piaga  arde,  e  versa  foco  e  fiamma; 

Lagrime  l'altra,  che  '1  dolor  distilla 

Per  gli*  occhi  miei'*  del  vostro  stato  rio. 
Né  per  duo  fonti  sol  una  favilla 

Rallenta  dell'incendio  che  m'infiamma; 

Anzi  per  la  pietà  cresce  '1  desio. 

*  Fossi    2  a    3  il    *  li    5  niei 

SONETTO  CCIV.  *242 

Partitosi  da  Laura  in  discordia,  il  dì  seguente  vuole  mandare  il  cuore 
a  spiare,  se  tempo  ancora  fosse  di  ritornare  a  Laura,  e  da  rappaci- 
ficarsi con  lei,  e  gli  mostra  il  luogo  dove  debba  andare.  Poi  se  stesso 
riprende  di  questo  parlare,  perchè  il  cuore  non  è  con  lui  ma  con  Laura. 

Mira  quel  colle,  o  stanco  mio  cor  vago: 
Ivi  lasciammo  ier  lei  ch'alcun  tempo  ebbe 
Qualche  cura  di  noi  e  le  ne  'ncrebbe. 
Or  vorria  trar  degli  ^  occhi  nostri  un  lago. 

Torna  tu  in  là,  ch'io  d'esser  sol  m'appago; 
Tenta  se  forse  ancor ^  tempo  sarebbe 
Da  scemar  nostro  duol,  che  'nfin  qui  crebbe, 
O  del  mio  mal  partecipe'  e  presago. 

Or  tu  e'  hai  posto  te  stesso  in  obblio,'* 
E  parli  al  cor  pur  com'  e'  fosse "^  or  teco, 
Misero,'"  e  pien  di  pensier  vani  e  sciocchi 


'Rime.  203 

Ch'  al  dipartir  del  '  tuo  sommo  desio, 
Tu  te  n'andasti,  e'  si  rimase  seco 
E  si  nascose  dentro  a'  suoi  begli*  occhi. 

1  deli      2  anchor     ^  participe     *  oblio     ^  come  e  fusse    *  Miser 
'  dal    8  belli 

SONETTO  CCV.  *243 

ìsero!  ch'essendo  per  lei  senza  cuore,  ella  si  ride  se  questo  parli  in 
suo  prò. 

Fresco,  ombroso,  fiorito  e  verde  colle 
Ov'or  pensando  ed  or  cantando  siede, 
E  fa  qui  de'  celesti  spirti  fede 
Quella  eh' a  tutto '1  mondo  fama  toUe; 

Il  mio  cor,  che  per  lei  lasciar  mi  volle, 
E  fé  gran  senno,  e  più  se  mai  non  riede, 
Va  or  contando  ove  da  quel  bel  piede 
Segnata  è  l'erba  e  da  quest'occhi^  molle. 

Seco  si  stringe,  e  dice  a  ciascun  passo: 
Deh  fosse  ^  or  qui  quel  miser  pur  un  poco 
Ch'è  già  di  pianger  e  di  viver  lasso. 

Ella  sei  ride;  e  non  è  pari  il  gioco: 
Tu  paradiso,  i' senza  core^  un  sasso, 
O  sacro,  avventuroso*  e  dolce  loco. 

'  occhi  e    2  De  fusse    '  cor    *  aventuroso 

SONETTO  COVI.  *244 

Risponde  a  un  Sonetto  di  Giovanni  de'  Dondi,  che,  dicendo  d'esser  quasi 
fuori  di  senno  per  una  sua  passione  amorosa,  gli  chiedeva  consiglio. 

Il  mal  mi  preme,  e  mi  spaventa  il  peggio, 
Al  qual  veggio  sì  larga  e  piana  via, 
Ch'  i'  son  intrato  in  simil  frenesia, 
E  con  duro  pensieri  teco  vaneggio. 

Né  so  se  guerra  o  pace  a  Dio  mi  cheggio, 
Che'l  danno  è  grave  e  la  vergogna  è  ria. 
Ma  perchè  più  languir?  di  noi  pur  fia 
Quel  chordinaLo  è  già  nel  sommo  J5ej3;gio, 


204  Petrarca. 

Bench'i' non  sia  di  quel  grande-  onor  degno 
Che  tu  mi  fai;  che  te  ne'nganna^  Amore, 
Che  spesso  occhio  ben  san  fa  veder  torto; 

Pur  d'alzar  l'alma  a  quel  celeste  regno 
È'P  mio  consiglio,  e  di  spronare  il  core; 
Perchè '1  cammin  è  lungo  e'I  tempo  è  corto. 
'  pensar    2  grand    ^  teningana    *  il 

SONETTO  CCVII.  *245 

Dice  che  una  persona  attempata,  avendo  due  rose,  trovato  il  Petrarca  e 

Laura  insieme,   gli  abbracciò  e  a  ciascun  di  loro  donò  una  rosa  con 

lusinghiere  parole. 

Due  rose  fresche,  e  colte  in  paradiso 

L'altr'ier,  nascendo,  il  dì  primo  di  maggio, 
Bel  dono,  e  d'un  amante  antiquo  e  saggio 
Tra  duo  minori  egualmente  diviso; 

Con  sì  dolce  parlar  e  con  un  riso 

Da  far  innamorar^  un  uom-  selvaggio, 

Di  sfavillante  ed  amoroso  raggio 

E  l'uno  ^  e  l'altro  fé  cangiare  il  viso. 

Non  vede  un  simil  par  d'amanti  il  sole, 
Dicea  ridendo  e  sospirando  insieme;* 
E  stringando  ambedue,  volgeasi  attorno  •"* 

Così  partia  le  rose  e  le  parole: 

Onde'l  cor  lasso  ancor *^  s'allegra  e  teme 
O  felice  eloquenza!'   o  lieto  giorno! 

1  innamorare       ^  huom       ^  un      *  inserne      *  atorno       *  anchor 
'  eloquentia 

SONETTO  CCVIII.  *24ó 

La  morte  di  Laura  sarà  un  danno  pubblico,  e  brama  perciò  di  morire 
prima  di  lei. 

Laura,  che'l  verde  lauro  e  l'aureo  crine 

Soavemente  sospirando  move. 

Fa  con  sue  viste  leggiadrette  e  nove 

L'anime  da'  lor  corpi  pellegrine. 
Candida  rosa  nata  in  dure  spine. 

Quando  fia  chi  sua  pari  A  mondo  trove? 


Rime.  205 

Gloria  di  nostra  etate  I  0  vivo  Giove, 
Manda,  prego,  il  mio  in  prima  che '1  suo  fine; 

Sì  ch'io  non  veggia  il  gran  pubblico^  danno, 
E'I  mondo  rimaner-  senza '1  suo  sole, 
Né  gli"  occhi  miei,  che  luce  altra  non  hanno ;^ 

Né  l'alma,  che  pensar  d'altro  non  vole. 
Ne  l'orecchie,  ch'udir  altro  non  sanno. 
Senza  l'oneste  sue  dolci  parole. 
1  publico     2  remaner    ^  li    *  anno 

SONETTO  CCIX.  *247 

^efchè  nessun  dubiti  di  un  eccesso  nelle  sue  lodi,  invita  tutti  a  vukrla. 

Parrà  forse  ad  alcun  che  'n  lodar  quella 
Ch'i'  adoro  in  terra,  errante  sia'l  mio  stile. 
Facendo  ^  lei  sovr'  ogni  altra  gentile, 
Savia,'-^  saggia,  leggiadra,  onesta^  e  bella. 

A  me  par  il  contrario;  e  temo  ch'ella 

Non  abbia  a  schifo  il  mio  dir  troppo  umile,* 
Degna  d'assai  più  alto  e  più  sottile: 
E  chi  noi  crede,  venga  egli  a  vedella. 

Sì  dirà  ben:   quello  ove  questi  aspira, 

È  cosa  da  stancar  Atene,*  Arpino, 

Mantova  e  Smirna,  e  l'una  e  l'altra  lira. 
Lingua  mortale  al  suo  stato  divino 

Giunger  non  potè:  Amor  la  spinge  e  tira, 

Non  per  elezion,^  ma  per  destino. 

^  Faccende      "  Santa      ^  honesta      ^  humile      s  stancare   Athene 
'•  election 

SONETTO  CCX.  '248 

Dice  che  chi  vuol  vedere  il  miracolo  della  beltà  e  virtù  di  Laura  s'affretti,^ 
perchè  il  cielo  la  aspetta. 

Chi  vuol  veder  quantunque  può^  Natura 
E'I  Ciel  tra  noi,  venga  a  mirar  costei, 
Oh' è  sola  un  Sol,  non  pur  agli-  occhi  miei''' 
Ma  al  mondo  cieco,  che  vertù  non  cura. 

E  venga  tosto,  perchè  Morte  fura 
Prima  i  migliori,  e  lascia  star  i  rei: 


206  Petrarca. 

Questa,  aspettata  al  regno  degli*  Dei, 
Cosa  bella  mortai  passa  e  non  dura. 
Vedrà,  s'arriva  a  tempo,  ogni  virtute,'' 
Ogni  bellezza,  ogni  real  costume 
Giunti  in  un  corpo  con  mirabil  tempre. 
Allor  dirà  che  mie  rime  son  mute, 
L'ingegno  offeso  dal  soverchio  lume: 
Ma  se  più  tarda,  avrà  da  pianger  sempre. 
^  pò     2  ali     3  mei    *  dalli    ^  vertute 

SONETTO  CCXI.  *24 

Pensando  a  quel  dì  in  cui  la  lasciò  tutta  malinconica  e  ad  altri  tri 
segnali,  dubita  della  morte  di  lei. 

Qual  paura  ho^  quando  mi  torna  a  mente 
Quel  giorno  eh'  i'  lasciai  greve-  e  pensosa 
Madonna  e'I  mio  cor  seco!  e  non  è  cosa 
Che  sì  volentier  pensi  e  sì  sovente. 

r  la  riveggio  starsi  umilemente^ 
Tra  belle  donne,  a  guisa  d'una  rosa 
Tra  minor  fior;  né  lieta  né  dogliosa. 
Come  chi  teme,  ed  altro  mal  non  sente. 

Deposta  avea  l'usata  leggiadria. 

Le  perle  e  le  ghirlande  e  i  panni  allegri 
E'I  riso  e'I  canto  e'I  parlar  dolce  umano.* 

Così  in  dubbio  lasciai  la  vita  mia:  ' 

Or  tristi  augurii^  e  sogni  e  pensier"  negri 
Mi  danno  assalto;  e  piaccia  a  Dio  che'n  vano. 
*  0    ~  grave    »  humilemente    *  humano    ^  auguri    «  pensar 

SONETTO  CCXII.  *25(| 

Laura  gli  apparisce  in  sonno,   e  gli  toglie  la  speranza  di  rivederla 
Solea  lontana  in  sonno  consolarme 
Con  quella  dolce  angelica  sua  vista 
Madonna;  or  mi  spaventa  e  mi  contrista, 
Né  di  duol  né  di  tema  posso  aitarme; 
Che  spesso  nel  suo  volto  veder  parmo 
Vera  pietà  con  grave  dolor  mista, 


Rime.  207 

Ed  udir  cose,  onde'l  cor  fede  acquista 
Che  di  gioia  è  di  speme  si  disarme. 

Non  ti  sovven  ^  di  quell'^  ultima  sera, 

Dic'^  ella,  ch'i' lasciai  gli^  occhi  tuoi  moli:. 
E  sforzata  dal  tempo  me  n'andai? 

r  non  tei  potei  dir  allor  ne  volli, 
Or  tei  dico  per  cosa  esperta^  e  ve -a: 
Non  sperar  di  vedermi  in  terra  raiì. 
^  soven    2  quella    *  Dice    *  li    ^  experta 

SONETTO  CCXIII.  *251 

Veduta  una  visione  spaventevole,  per  la  quale  poteva  coìnprendere  Laura 
esser  morta,  cerca  di  consolarsi,  sì  perchè  pensa  che  aliri  gliele  avrebbe 
scritto,  si  perchè  l'anima  di  Laura  gli  sarebbe  apparita;  laonde  vuole 
sparare  d'averla  a  rivedere.  Ma  se  pure  vero  è  che  sia  morta,  prega 
Dio  che  lo  faccia  morir  subito. 

O  misera  ed  orribiF  visione! 

È  dunque  ver  che'nnanzi  tempo  spenta 
Sia  l'alma  luce  che  suol  far  contenta 
Mia  vita  in  pene  ed  in  speranze  bone? 

Ma  com'  ^  è  che  sì  gran  romor  non  sone 
Per  altri  messi,  o  per  lei  stessa  il  senta? 
Or  già  Dio  e  Natura  noi  consenta, 
È  falsa  sia  mia  trista  opinione, 

A  me  pur  giova  di  sperare  ancora^ 
La  dolce  vista  del  bel  viso  adorno, 
Che  me  mantene  e  '1  secol  nostro  onora.* 

Se  per  salir  all'eterno  soggiorno 
Uscita  è  pur  del  bell'^  albergo  fora. 
Prego  non  tardi  il  mio  ultimo  giorno. 
1  horribil    ^  come    »  anchora    *  honora    '  bel 

SONETTO  CCXIV.  •252 

Il  dubbio   di   non   rivederla  lo  spaventa  sì,    che  non  riconosce  ]:>iù  se 

medesimo. 

In  dubbio  di  mio  stato,  or  piango  or  canto, 

E  temo  e  spero;  ed  in  sospiri  e'n  rime 

Sfogo '1^  mio  incarco:  Amor  tutte  sue  lime 

Usa  sopra '1  mio  cor  afflitto  ^  tanto. 


208  Petrarca. 

Or  fia  giammai  che  quel  bel  viso  santo 
Renda  a  quest'occhi  le  lor  luci  prime? 
(Lasso,  non  so  che  di  me  stesso  estime 
O  li  condanni  a  sempiterno  pianto? 

E  per  prender^  il  ciel  debito  a  lui, 
Non  curi  che  si  sia  di  loro  in  terra. 
Di  ch'egli  è'I  sole,  e  non  veggiono  altrui? 

!n  tal  paura  e'n  sì  perpetua  guerra 

Vivo,  ch'i'  non  son  più  quel  che  già  fui; 
Qual  chi  per  via  dubbiosa  teme  ed  erra. 

1  il     2  core  afflicto    ^  prendere 

SONETTO  CCXV.  *253 

Sì  duole  della  fortuna  che  lo  allontana  da  Laura  appena  ne  ha  qualche 
onesta  consolazione. 

O  dolci  sguardi,  o  parolette  accorte, 

Or  fia  mai'P   dì  ch'io-  vi  riveggia  ed  oda? 
O  chiome  bionde,  di  che  '1  cor  m'annoda 
Amor,  e  così  preso  il  mena  a  morte; 

O  bel  viso,   a  me  dato  in  dura  sorte, 

Di  ch'io  sempre  pur  pianga  e  mai  non  goda; 
O  dolce ^  inganno  ed  amorosa  froda, 
Darmi  un  piacer  che  sol  pena  m'apporte! 

E  se  talor  da'  begli  ^  occhi  soavi, 

Ove  mia  vita  e  '1  mio  pensiero^  alberga, 
Forse  mi  vien^  qualche  dolcezza  onesta,' 

Subito,  acciò  ^  ch'ogni  mio  ben  disperga 
E  m'allentane,  or  fa  cavalli  or  navi 
Fortuna,  ch'ai  mio  mal  sempr'^  è  sì  presta. 

'  il    2  chi     »  chiuso    *  belli    ^  penserò    ®  ven     '  honesta    *  acio 
'  sempre 

SONETTO  CCXVI.  *2S4 

Non    udendo   più    novella   di  lei ,    teme   sia  morta,    e   sente   vicino    il 

proprio  iine. 

r  pur  ascolto,  e  non  odo  novella 
Della  dolce  ed  amata  mia  nemica. 


Rime  209 

Né  so  che'   me  ne  pensi  o  che'   mi  dica: 
Sì  '1  cor  tema  e  speranza  mi  puntella. 
Nocque  ad  alcuna  già  l'esser  sì  bella: 
Questa  più  d'altra  è  bella  e  più  pudica: 
Forse  vuol   Dio  tal  di  virtute-  amica 
Torre  alla  terra,  e'n  ciel  farne  una  stella. 

Anzi  un  sole;  e  se  questo  è,  la  mia  vita, 
I   miei  corti  risposi  e  i  lunghi  affanni 
Son  giunti  al  fine.  O  dura  dipartita, 

Perchè  lontan  m'hai''  fatto  da' miei  danni? 
La  mia  favola  breve  è  già  compita, 
E  fornito  il  mio  tempo  a  mezzo  gli  anni. 

•  chi     *  vertute    *  mai 

SONETTO  CCXVII.  *255 

D'ce  che  cantra  Fusama  degli  altri  innamorati  egli  desidera  la  mattina 
e  odia  la  sera,  perché  apparendo  il  sole,   suole  apparire  Laura,   e  ira- 
montando  ella  si  nasconde. 

La  sera  desiar,'  odiar  l'aurora 

Soglion  questi  tranquilli  e  lieti  amanti: 
A  me  doppia  la  sera  e  doglia  e  pianti: 
La  mattina-  è  per  me  più  felice  ora:^ 

Che  spesso  in  un  momento  apron  allora 
L'un  Sole  e  l'altro  quasi  duo   levanti. 
Di  beltade'  e  di   lume  sì  sembianti, 
Ch'anco'l''  ciel  della  terra  s'innamora; 

Come  già  fece  allor  eh'  e'  primi  rami 

Verdeggiar,  che  ne!  cor  radice  m'  hanno  ;'^ 
Per  cui  sempre  altrui  più  che  me  stess''  ami. 

Così  di  me  due  contrarie  ore**  fanno: 

E  chi  m'acqueta  è  ben  ragion  ch'i' brami, 
E  tema  ed  odii"  chi  m'adduce  affanno. 

'  desiare     ■  matina     •  hora     *  beltat»;     •  il     *  manno     '  stesse 
*  bore    •  odi 


Bibl.  rom.   12/15.  14 


210  Petrarca. 

SONETTO  CCXVIII.  *256 

Di  giorno  è  tormentato  dagli  sguardi  e  dal  parlare,  e  ritormentato  fug- 
gendo, cioè  tacendo  e  celando  gli  sguardi.  Di  notte  è  tormentato  dalla 
immagine  turbata  di  lei  in  sogno.  Laonde  l'anima  pensa  in  Laura  e 
le  parla  e  piange  e  Fabbraccia  e  si  maraviglia  che  non  la  desti,  si 
l'anima  ha  suono  da  farsi  sentire. 

Far  potess'io  vendetta  di  colei 

Che  guardando  e  parlando  mi  distrugge, 
E  per  più  doglia  poi  s'asconde  e  fugge, 
Celando  gli^  occhi  a  me  sì  dolci  e  rei. 

Così  gli  afflitti^  e  stanchi  spirti  miei^ 
A  poco  a  poco  consumando  sugge; 
E'n  sul  cor,  quasi  fero*  leon,  rugge 
La  notte  allor  quand'io  posar  devrei. 

L'alma,  cui  Morte  del  suo  albergo  caccia, 
Da  me  si  parte;  e  di  tal  nodo  sciolta, 
Vassene  pur  a  lei  che  la  minaccia. 

Maravigliomi^  ben  s'alcuna  volta. 

Mentre  le  parla,  e  piange,  e  poi  l'abbraccia, 
Non  rompe '1^  sonno  suo,  s'ella  l'ascolta. 

1  li     2  aftlicti    3  mei    *  fiero    ^  Meravigliomi    •  il 

SONETTO  CCXIX.  *257 

Lamenta  che  Laura  avendolo  colto  sovra  pensier  in  astratto  che  la  mi- 
rava, gli  aveva  con  una  mano  impedita  la  vista. 

In  quel  bel  viso  ch'i' sospiro  e  bramo. 
Fermi  eran  gli^  occhi  desiosi  e'ntensi, 
Quand'^Amor  porse  (quasi  a  dir:  che  pensi?) 
Quell'onorata"  man  che  secondo*  amo. 

Il  cor  preso  ivi,  come  pesce  all'amo, 

Onde  a  ben  far  per  vivo  esempio^  viensi. 
Al  ver  non  volse  gli®  occupati  sensi, 
O  come  novo  augello  al  visco  in  ramo; 

Ma  la  vista  privata  del  suo  obbietto,' 
Quasi  sognando,  si  facea  far  via 
Senza  la  qual  il**  suo  ben  è  imperfetto:" 


Rime.  211 

L'alma,  tra  l'una  e  l'altra  gloria  mia, 
Qual  celeste  non  so  novo  dilettolo 
E  qual  strania  dolcezza  si  sentia. 

^  li      2  Quando      3  Quella  honorata     *  second     ^  exempio      «  li 
'  obiecto    8  el    9  imperfecto     io  dilecto 

SONETTO  CCXX.  *258 

Le  liete  accoglienze  di  Laura  oltreH  costume  lo   fecero   quasi   morir 

di  piacere. 

Vive  faville  uscian  de'  duo  bei  lumi 
Ver  me  sì  dolcemente  folgorando, 
E  parte  d'un  cor  saggio,  sospirando, 
D'alta  eloquenza  1  sì  soavi  fiumi, 

Che  pur  il  rimembrar  par  mi  consumi 
Qualor  a  quel  dì  torno,  ripensando 
Come  venieno  i  miei  spirti  mancando 
Al  variar  de' suoi  duri  costumi. 

L'alma  nudrita  sempre  in  doglie  ^  e'n  pene, 
(Quant'è'l  poter^  d'una  prescritta  usanzal) 
Centra  'I  doppio  piacer  sì  inferma^  fue, 

Ch'ai  gusto  sol  del  disusato  bene. 

Tremando  or  di  paura  or  di  speranza, 

D'abbandonarmi''^  fu  spesso  intra®  due. 

1  eloquenza    2  doglia    »  Quanto  el  poder     *  sinferma    «  Daban- 
donarme    *  entra 

SONETTO  CCXXI.  *259 

Nel  pensare  sempre  a  lei,  gli  dà  pena  di  sovvenirsi  anche  del  luogo 
dov'  ella  sta. 

Cercato  ho^  sempre  solitaria  vita 

(Le  rive  il  sanno  e  le  campagne  e  i  boschi) 
Per  fuggir  quest'ingegni  sordi  e  loschi, 
Che  la  strada  del  ciel  hanno '^  smarrita: 

E  se  mia  voglia  in  ciò  fosse*  compita, 
Fuor  del  dolce  aere  de'  paesi  toschi 
Ancor^  m'avria  tra' suoi  be' «colli  foschi 
Sorga,  ch'a  pianger  e  cantar  m'aita. 


2 1 2  Petrarca. 

Ma  mia  fortuna,  a  me  sempre  nemica, 
Mi  risospinge'  al  loco  ov'io  mi  sdegno 
Veder  nel  fango  il  bel  tesoro  mio. 

Alla  man  ond'io  scrivo,  è  fatta  amica 
A  questa  volta;  e  non  è  forse  indegno: 
Amor  sei  vide,  e  sai  Madonna  ed  io. 
1  o    2  questi    '  anno    *  fusse    ^  Anchor    «  bei    '  risopigne 

SONETTO  CCXXII.  *260 

La  bellezza  di  Laura  è  gloria  di  Natura;  e  però  non   v'ha   donna  a 
cui  si  pareggi. 
In  tale  stella  duo  begli  ^  occhi  vidi, 
Tutti  pien  d'onestate  e  di  dolcezza, 
Che  presso  a  quei  d'Amor  leggiadri  nidi 
Il  mio  cor  lasso  ogni  altra  vista  sprezza. 
Non  si  pareggi  a  lei  qual  più  s'apprezza^ 
In  qualch' etade,  in  qualche^  strani  lidi; 
Non  chi  recò  con  sua  vaga  bellezza 
In  Grecia  affanni,  in  Troia  ultimi  stridi; 
Non'*  la  bella  Romana  che  col  ferro 
Aprì^  il  suo  casto  e  disdegnoso  petto; 
Non  Polissena,^  Issifile'  ed  Argia. 
Questa  eccellenzia**  è  gloria  (s'io  non  erro) 
Grande  a  Natura,  a  me  sommo  diletto, 
Ma  che  vien^  tardo  o  subito  va  via. 
1  belli       2  saprezza       '  quai   che       *  No      «  Apre      «  Polixena 
•  Ysiphile    8  excellentia    ^  ven 

SONETTO  CCXXIII.  *261 

Le  donne  che  vogliano  imparar  le  virtù,  mirino  fise  negli  occhi  di  Laura. 

Qual  donna  attende  a  gloriosa  fama 
Di  senno,   di  valor,   di  cortesia. 
Miri  fiso  negli  ^  occhi  a  quella  mia 
Nemica,  che  mia  donna  il  mondo  chiama. 

Come  s'acquista  onor,'-  come  Dio  s'ama. 
Com'-'^è  giunta  onestà^  con  leggiadria, 
Ivi  s' impara,  e  qual  è  dritta  via 
Di  gir  al  Ciel.  che  lei  aspetta  e  brama. 


Rime.  213 

Ivi  '1  parlar  che  nullo  stile  agguai^lia,^ 
E  '1  bel  tacere,  e  quei  santi*'  costumi 
Ch'ingegno  uman'^  non  può^  spiegar  in  carte. 

L'infinita  bellezza,  ch'altrui  abbaglia. 

Non  vi  s' impara;  che  quei  dolci  lumi 

S'acquistan  per  ventura  e  non  per  arte. 

1  nelli     2  honor    ^  Come    *  honesta     ^  aguaglia    ®  cari    '  Chen- 
gegno  human    ^  pò 

SONETTO  CCXXIV.  *262 

Provando  che  l'onestà  dee  preferirsi  alla  vita,  fa  un  belf elogio  di'  Laura. 
»Cara  la  vita,  e  dopo  lei  mi  pare 
Vera  onestà^  che 'n  bella  donna  sia.« 
> L'ordine  volgi;  e' non  fur,  madre  mia, 
Senz'onestà-  mai  cose  belle  o  care. 
E  qual  si  lascia  di  suo  onor^  privare, 

Né  donna  è  più,  né  viva;  e  se,  qual  pria, 
Appare  in  vista,  è  tal  vita  aspra  e  ria 
Via  più  che  morte  e  di  più  pene  amare 
Ne  di  Lucrezia^  mi  maravigliai,^ 
Se  non  come  a  morir  le  bisognasse 
Ferro,  e  non  le  bastasse  il  dolor  solo.* 
Vengan  quanti  filosofi"  fur  mai 

A  dir  di  ciò:  tutte  lor  vie  fien  basse; 
E  quest'una  vedremo  alzarsi  a  volo. 
1  honesta      ^  Senza  honesta      ^  honor     *  lucretia      ^  meravigliai 
•  philosophi 

SONETTO  CCXXV.  *263 

Laura  spregia  sì  le  vanità,  che  le  'ncr escerebbe  esser  bella,  se  non 
fosse  casta. 

Arbor  vittoriosa  trionfale,^ 

Onor^  d' imperadori  e  di  poeti, 
Quanti  m'  hai^  fatto  dì  dogliosi  e  lieti 
In  questa  breve  mia  vita  mortale! 

Vera  donna,  ed  a  cui  di  nulla  cale 

Se  non  d'onor,  che  sovr'ogni  altra  mieti. 

Né  d'Amor  visco  temi  o  lacci  o  reti; 

Né  inganno^  altrui  centra '1  tuo  senno  vale. 


2 1 4  Petrarca. 

Gentilezza^  di  sangue,  e  l'altre  care 
Cose  tra  noi,  perle  e  rubini**  ed  oro, 
Quasi  vii  soma,  egualmente  dispregi. 

L'alta  beltà,  ch'ai  mondo  non  ha'  pare. 
Noia  t' è,  se  non  quanto  il  bel  tesoro* 
Di  castità  par  ch'ella  adorni  e  fregi.^ 

1  victoriosa  triumphale  ^  Honor  ^  mai  *  Nengano  ^  Gentilega 
*  robini  '^  a  *  thesoro  *  (Questo  sonetto  finisce  nel  codice  al  pie  della 
'aria  49r;  sono  bianche  le  carte  seguenti  49^.  50.  51.  52.) 


Rime.  215 


CANZONE  XXI.  264 

Racconta  come  è  combattuto  da  tre,  anzi  da  quattro  pensieri.  Il  primo 
pensiero  è  per  proprie  forze  di  liberarsi  dal  mondo  e  dall'amore.  Il 
secondo  è  di  farsi  per  fama  immortale,  il  quale  non  può  esser  vinto 
dal  primo.  Il  terzo  si  è  di  seguire  Amore,  il  quale  uccide  i  due  primi. 
Per  la  qual  cosa  salta  nel  quarto,  che  è  di  domandare  soccorso  a  Dio, 
mostrando  la  debolezza  delle  sue  forze. 

r  vo  pensando,  e  nel  pensieri  m'assale 
Una  pietà  sì  forte  di  me  stesso, 
Che  mi  conduce  spesso 
Ad  altro  lagrimar  eh'  i'  non  soleva; 
Che  vedendo  ogni  giorno  il  fin  più  presso, 
Mille  fiate  ho^  chieste  a  Dio  quell'ale  6 

Con^  le  quai  del  mortale 
Career  nostr'^  intelletto  al  ciel  si  leva; 
Ma  infin  a  qui  niente  mi  rileva^ 
Prego  o  sospiro  o  lagrimar  eh'  io  faccia. 
E  così  per  ragion  conviene  che  sia; 
Che  chi  possendo  star,  cadde  tra  via, 
Degno  è  che  mal  suo  grado  a  terra  giaccia. 
Quelle  pietose  braccia, 
In  ch'io  mi  fido,  veggio  aperte  ancora;' 
Ma  temenza  m'accora 

Per  gli  altrui  esempi,^  e  del  mio  stato  tremo; 
Ch'altri  mi  sprona,  e  son  forse  all'estremo.'' 

^  penser      ^  o      'Co     *  nostro      ^  releva      ^  conven      '^  anchora 
8  exempli    *  extremo 

L'un  pensieri  parla  con^  la  mente,  e  dice: 
Che  pur  agogni?  onde  soccorso  attendi? 
Misera,  non  intendi 

Con  quanto  tuo  disnore  il  tempo  passa? 
Prendi  partito  accortamente,  prendi; 
E  del  cor  tuo  divelli  ogni  radice  6 

Del  piacer  che  felice 
Noi  può^  mai  fare,  e  respirar  noi  lassa. 
Se,  già  è  gran  tempo,   fastidita  a  lassa 


216  Petrarca, 

Se'  di  quel  falso  dolce  fuggitivo'* 

Che  '1  mondo  traditor  può  dare  altrui, 

A  che  ripon  più  la  speranza  in  lui, 

Che  d'ogni  pace  e  di  fermezza  è  privo? 

Mentre  che  '1  corpo  è  vivo, 

Hai^  tu  '1  fren  in  balia  de'  pensier'*  tuoi 

Deh'  stringilo  or  che  puoi,*^ 

Che  dubbioso  è  il^  tardar,  come  tu  sai; 

E  '1  cominciar  non  fia  per  tempo  omai. 

1  penser    2  co    ^  pò    *  fugitivo    ^  Ai    ^  freno  in  bailia  de  penser 
7  De    8  poi    9  al 

Già  sai  tu  ben  quanta  dolcezza  porse 
Agli  occhi  tuoi  la  vista  di  colei 
La  qual  anco^  vorrei 
Ch'a  nascer  fosse  per  più  nostra  pace. 
Ben  ti  ricordi  (e  ricordar  ten  dei) 
Dell'immagine^  sua,  quand'ella  corse  6 

Al  cor,  là  dove  forse 
Non  potea  fiamma  intrar  per  altrui  face. 
Ella  l'accese;  e  se  l'ardor  fallace 
Durò  molt'anni  in  aspettando^  un  giorno, 
Che  per  nostra  salute  unqua  non  vene, 
Or  ti  solleva  a  più  beata  spene, 
Mirando  '1  ciel,  che  ti  si  volve  intorno 
Immortai  ed  adorno:* 
Che  dove,  del  mal  suo  quaggiù  sì  lieta, 
Vostra  vaghezza  acqueta 
Un  mover  d'occhio,  un  ragionar,  un  canto. 
Quanto  fia  quel  piacer,  se  questo  è  tanto? 

^  ancho    ^  imagine     ^  aspectando    *  addorno 

Dall'altra  parte  un  pensier  dolce  ed  agro, 
Con  faticosa  e  dilettevole  salma 
Sedendosi  entro  l'alma, 
Preme '1  cor  di  desio,   di  speme  il  pasce; 


Rime.  217 

Che  sol  per  fama  gloriosa  ed  alma 

Non    sente    quand'  io    agghiaccio    o  quand'  io 

flagro  ;  6 

S' i'  son  pallido  o  magro; 
E  s' io  l'occido,   più  forte  rinasce. 
Questo  d'allor  eh'  i'  m'addormiva  in  fasce, 
Venuto  è  di  dì  in  dì  crescendo  meco; 
E  temo  ch'un  sepolcro  ambedue  chiuda. 
Poi  che  fia  l'alma  delle  membra  ignuda, 
Non  può'^  questo  desio  più  venir  seco. 
Ma  se  '1  Latino  e  '1  Greco 
Parlan  di  me  dopo  la  morte,  è  un  vento: 
Ond'  io,  perchè  pavento 
Adunar  sempre  quel  eh'  un  ora  sgombre, 
Vorre'il'"'  vero  abbracciar,  lassando  l'ombre 

1  dilectevol    ^  pò    3  i 

Ma  quell'altro  voler,  dì  eh'  i'  son  pieno, 
Quanti  press'a  lui  nascon  par  ch'adugge; 
E  parte  il  tempo  fugge 
Che  scrivendo  d'altrui,  di  me  non  calme; 
E  '1  lume  de'  begli  occhi,  che  mi  strugge 
Soavemente  al  suo  caldo  sereno,  6 

Mi  ritien  con  un  freno 
Centra  cui^  nullo  ingegno  o  forza  valme. 
Che  giova  dunque  perchè  tutta  spalme 
La  mia  barchetta,  poi  che 'n  fra  gli-  scogli 
È  ritenuta  ancor '^  da  ta'  duo  nodi? 
Tu  che  dagli  altri,  che  'n  diversi  modi 
Legano  '1  mondo,  in  tutto  mi  disciogli, 
Signor  mio,  che  non  togli 

'    Omai  dal  volto  mio  questa  vergogna? 
Ch'a^  guisa  d'uom  che  sogna, 
•  Aver  la  morte  innanzi  •'>  gli  occhi  parme; 
E  vorrei  far  difesa,  e  non  ho*^  l'arme. 

^  chui     -  li     3  anchor    *  Chen     ^  inangi    ®  o 


218  Petrarca. 

Quel  eh'  i'  fo,  veggio,  e  non  m'inganna  il  vero 
Mal  conosciuto,  anzi  mi  sforza  Amore, 
Che  la  strada  d'onore 

Mai  non^  lassa  seguir,  chi  troppo  il  crede; 
E  sento  ad  or  ad  or  venirmi  al  core 
Un  leggiadro  disdegno,  aspro  e  severo, 
Ch'ogni  occulto  penserò 
Tira  in  mezzo  la  fronte,  ov' altri '1  vede: 
Che  mortai  cosa  amar  con  tanta  fede. 
Quanta  a  Dio  sol  per  debito  conviensi,- 
Più  si  disdice  a  chi  più  pregio  brama. 
E  questo  ad  alta  voce  anco**  richiama 
La  ragione  sviata  dietro  ai  sensi: 
Ma  perchè  l'oda,'*  e  pensi 
Tornare,  il  mal  costume  oltre  la  spigne, 
Ed  agli  occhi  dipigne'' 
Quella  che  sol  per  farmi  morir  nacque, 
Perch'a  me  troppo  ed  a  sé  stessa  piacque. 

*  noi     -  convensi     '  ancho    *  perchelloda    ^  depigne 

Né  so  che  spazio^  mi  si  desse  il  Cielo, 
Quando  novellamente  io  venni  in  terra 
A  soffrir  l'aspra  guerra 
Che  'ncontra  a  me  medesmo  seppi  ordire, 
Né  posso  '1^  giorno  che  la  vita  serra, 
Antiveder  per  lo  corporeo  velo; 
Ma  variarsi  il  pelo 

Veggio,  e  dentro  cangiarsi  ogni  desire. 
Or  eh'  i'  mi  credo  al  tempo  del  partire 
Esser  vicino  o  non  molto  da  lunge; 
Come  chi  '1  perder  face  accorto  e  saggio, 
Vo  ripensando  ov'  io  lassai  '1  viaggio 
Dalla  man  destra,  eh'  a  buon  porto  aggiunge; 
E  dall'un  lato  punge 

Vergogna  e  duol.  che 'ndietro  mi  rivolve; 
DalTallto  non   m'assolve 


Rimo.  219 

Un  piacer  per  usanza  in  me  sì  forte, 
Ch'a  patteggiar  n'ardisce  con^  la  morte. 
^  spatio    *  il     *  co 

Canzon,  qui  sono;  ed  ho'l^  cor  vìa  più  freddo 
Della  paura,  che  gelata  neve, 
Sentendomi  perir  senz'alcun  dubbio; 
Che  pur  deliberando  ho  volto  al  subbio 
Gran  parte  omai  della  mia  tela  breve: 
Né  mai  peso  fu  greve 
Quanto  quel  eh' i' sostegno ^  in  tale  stato; 
Che  con^  la  morte  a  lato 
Cerco  del  viver  mio  novo  consiglio, 
E  veggio  '1  meglio  ed  al  peggior  m'appiglio. 

e  dol    ^  sostengo    •  co 

SONETTO  CCXXVI.  265 

Laura  gli  è  sì  severa,  che  7  farebbe  morire,  s'  e'  non  {sperasse  di 

renderla  pietosa. 

Aspro  core  e  selvaggio,  e  cruda  voglia 
In  dolce,  umile,^  angelica  figura, 
Se  l'impreso  rigor  gran  tempo  dura, 
Avran  di  me  poco  onorata^  spoglia: 

Che  quando  nasce  e  mor  fior,  erba^  e  foglia, 
Quand'è'l*   dì   chiaro   e  quando  è  notte  oscura, 
Piango  ad  ogni  or.  Ben  ho^  di  mia  ventura, 
Di  Madonna  e  d'Amore  onde  mi  doglia. 

Vivo  sol  di  speranza,  rimembrando 

Che  poco  umor*'  già  per  continua  prova 
Consumar  vidi  marmi  e  pietre  salde. 

Non  è  sì  duro  cor  che  lagrimando. 

Pregando,  amando,  talor  non  si  smova. 
Né  sì  freddo  voler  che  non  si  scalde. 
1  humile    *  honorata    '  herba    *  Quando  el    ^  q    e  humot 

SONETTO  CCXXVII.  266 

Duolsi  d'esser  lontano  da  Laura  e  dal  Colonna,  i  due  soli  oggetti 
deiramor  suo. 
Signor  mio  caro,  ogni  pensier  mi  tira 
U^evolo  a  veder  voi,  cui  sempre  veggio; 


220  Petrarca. 

La  mia  fortuna  (or  che  mi  può^  far  peggio?) 
Mi  tene  a  freno  e  mi  travolve  e  gira. 

Poi  quel  dolce  desio  ch'Amor  mi  spira 

Menami  a  morte  eh' i' non  me  n'avveggio;- 
E  mentre  i  miei  duo  lumi  indarno  cheggio, 
Dovunque  io  son,  dì  e  notte  si  sospira. 

Carità  di  signore,  amor  di  donna 
Son  le  catene  ove  con  molti  affanni 
Legato  son,  perch'  io  stesso  mi  strinsi. 

Un  Lauro  verde,  una  gentil  Colonna, '^ 
Quindici^  l'una,  e  l'altro  diciott'^  anni 
Portato  ho^  in  seno,  e  giammai  non  mi  scinsi. 

^  pò    2  naveggio    3  colomna    *  Quindeci    ^  diciotto    *  o 

SONETTO  CCXXVIII  (In  morte  I).     267 

Lamenta  i  beni  perduti  per  la  morte  di  Laura  e  si  volge  poi  all'anima 

di  lei  dicendole  che  a  lui  tocca  più  di  piangere  che  agli  altri,   che  fu 

amato  da   lei,   e  se  n'avvide  alle  promesse  fattegli  quando  si  partì  da 

lei,  le  quali  per  questa  morte  sono  tornate  vane. 

Oimè  il  bel  viso,  oimè  il  soave  sguardo, 
Oimè  il  leggiadro  portamento  altero, 
Oimè  '1^  parlar  ch'ogni  aspro  ingegno  e  fero 
Faceva  umile, ^  ed  ogni  uom'^  vii,  gagliardo; 

Ed  oimè  il  dolce  riso  ond'^  uscio  '1  dardo 
Di  che  morte,  altro  bene  ornai  non  spero, 
Alma  real,  dignissima  d'impero. 
Se  non  fossi  fra  noi  scesa  sì  tardo  I 

Per  voi  conven  ch'io  arda  e  'n  voi  respire; 

Ch'  i'  pur  fui  vostro  ;  e  se  di  voi  son  privo. 

Via  men  d'ogni  sventura  altra  mi  dole. 
Di  speranza  m'empieste  e  di  desire 

Quand'  io  parti'  dal  sommo  piacer  vivo; 

Ma  '1  vento  ne  portava  le  parole. 

^  il     2  p.qjHvi  humile     ^  lìuom    •*  onde 


Rime.  221 

CANZONE  XXII  (In  morte  I).  268 

Questione  se  il  Petrarca  si  debba  uccidere  essendo  morta  Laura.  Con- 
chiude che  è  da  uccidersi.  Ma  Amore  rie  lo  sconforta,  prima  perchè 
chi  si  dà  la  morte  è  dannato,  né  va  in  cielo  dov'è  Laura:  poi  se  vero 
è  che  lami,  dee  vivere  per  poterla  laudare,    il  che  ella  desidera  molto. 

Che  debbo  io  ^  far  ?  che  mi  consigli,  Amore  ? 
Tempo  è  ben  di  morire, 
Ed  ho  -  tardato  più  eh'  i'  non  vorrei. 
Madonna  è  morta  ;  ed  ha^  seco  'H  mio  core  ; 
E  volendol  seguire, 

Interromper  conven  quest'Ianni  rei;  6 

Perchè  mai  veder  lei 

Di  qua  non  spero;  e  l'aspettar  m' è  noia; 
Poscia*^  ch'ogni  mia  gioia, 
Per  lo  suo  dipartire,  in  pianto  è  volta. 
Ogni  dolcezza  di'  mia  vita  è  tolta. 
1  aebbio    ^^  o    ^  a    *  il    ^  questi    •  Posci    '  de 

Amor,  tu  '1  senti,  ond' io  teco  mi  doglio, 
Quant' è '1  danno ^  aspro  e  grave; 
E  so  che  del  mio  mal  ti  pesa  e  dole. 
Anzi  del  nostro;  perch'ad  uno  scoglio 
Avem  rotto  la  nave. 

Ed  in  un  punto  n'  è  scurato  il  sole.  6 

Qual  ingegno  a  parole 
Porla  agguagliar'^  il  mio  doglioso  stato? 
Ahi^  orbo  mondo  ingrato! 
Gran  cagion  hai^  di  dever  pianger  meco; 
Che  quel  ben^  ch'era  in  te,  perdut' hai"  seco. 
*  damno    ^  aguagliare    ^  Ai    *  ai    ^  bel    ^  ai 

Caduta  è  la  tua  gloria,  e  tu  noi  vedi: 
Né  degno  eri,  mentr'ella 
Visse  quaggiù,  d'aver  sua  conoscenza. 
Né  d'esser  tocco  da'  suoi  santi  ^  piedi  ; 
Perchè  cesa  sì  bella 
Devea  '1  elei  adornar  di  sua  presenza.  6 


222  Petrarca. 

Ma  io,  lasso,  che  senza 
Lei,  né  vita  mortai  né  me  stess'^amo 
Piangendo  la  richiamo: 
Questo  m'avanza  di  cotanta  spene, 
E  questo  solo  ancor '^  qui  mi  mantene. 
1  sancti    ^  stesso    ^  anchor 

Oimé,  terra  è  fatto  il  suo  bel  viso. 
Che  solea  far  del  cielo 
E  del  ben  di  lassù  fede  fra  noi 
L'invisibil  sua  forma  è  in  paradiso, 
Disciolta  di  quel  velo 

Che  qui  fece  ombra  al  fior  degli  anni  suoi, 
Per  rivestirsen  poi 

Un'  altra  volta,  e  mai  più  non  spogliarsi; 
Quand'  ^  alma  e  bella  farsi 
Tanto  più  la  vedrem,  quanto  più  vale 
Sempiterna  bellezza  che  mortale. 
1  Quando 

Più  che  mai  bella  e  più  leggiadra  donna 
Tornami  innanzi,^  come 
Là  dove  più  gradir  sua  vista  sente. 
Quest'^é  del  viver  mio  l'una  colonna.' 
L'altra  è  '1  suo  chiaro  nome, 
Che  sona  nel  mio  cor  sì  dolcemente. 
Ma  tornandomi  a  mente 
Che  pur  morta  è  la  mia  speranza,  viva 
Allor  ch'ella  fioriva. 

Sa  ben  Amor  qual  io  divento,  e  (spero) 
Vedel  colei  eh'  é  or  sì  presso  al  vero. 
*  inangi    2  Questa    ^  colomna 

Donne,  voi  che  miraste  sua  beltate 
E  l'angelica  vita 

Con  quel  celeste  portamento  in  terra, 
Di  me  vi  doglia  e  vincavi  pietate. 


Rime.  223 

Non  di  lei,  eh'  è  salita 

A.  tanta  pace,  e  me  ha  lasciato  ^  in  guerra  ;      6 
Tal  che  s'altri  mi  serra 
Lungo  tempo  il  cammin  da  seguitarla, 
Quel  ch'Amor  meco  parla. 
Sol  mi  riten  ch'io  non  recida  il  nodo; 
Ma  e'  ragiona  dentro  in  cotal  modo: 
^  ma  lassato 

Pon  freno  al  gran  dolor ^  che  ti  trasporta; 
Che  per  soverchie  voglie 
Si  perde  '1  cielo,  ove  '1  tuo  core  aspira; 
Dov^  è  viva  colei  ch'altrui  par  morta; 
E  di  sue  belle  spoglie 

Seco  sorride  e  sol  di  te  sospira;  6 

E  sua  fama  che  spira 
In  molte  parti  ancor '^  per  la  tua  lingua, 
Prega  che  non  estingua;'* 
Anzi  la  voce  al  suo  nome  rischiari, 
Se  gli  occhi  suoi  ti  fur  dolci  né  cari. 
^  dolore    ^  Dove    ^  anchor    *  extingua 

Fuggi  '1  sereno  e  '1  verde, 

Non  t'appressar^  ove  sia  riso  o  canto, 
Canzon  mia,  no,  ma  pianto. 
Non  fa  per  te  di  star  fra  gente  allegra, 
Vedova  sconsolata  in  vesta  negra. 
1  tappressare 

SONETTO  CCXXIX  (In  morte  II).      269 

'ompiange  se  stesso  per  la  doppia  perdita,  del  Colonna  e  di  Laura. 

Rotta  è  l'alta  Colonna  e  '1  verde  Lauro 
Che  facean  ombra  al  mio  stanco  penserò; 
Perdut'  ho^   quel  che  ritrovar  non  spero 
Dal  borea 2  all'austro,  e^  dal  mar  indo  al  mauro. 

Tolto  m'hai,^  Morte,  il  mio  doppio  tesauro,^ 
Che  mi  fea  viver  lieto  e  gire  altero; 


224  Petrarca. 

E  ristorar  noi  può"  terra  né  impero, 
Né  gemma  orientai  né  forza  d'auro. 

Ma  se  consentimento  è  di  destino, 

Che  poss'  ''  io  più  se  no  aver  l'alma  trista. 
Umidi''  gli  occhi  sempre  e  '1  viso  chino? 

O  nostra  vita,  eh'  è  sì  bella  in  vista, 
Com'  perde  agevolmente  in  un  mattino^ 
Quel  che 'n  molt'^^  anni  a  gran  pena   s'acquistai 

^  Perduto  o      ^  borrea     ^  o      *  mai      ^  thesauro     ^  pò     '  posso 
*  Humidi     8  matino     ^^  molti 

CANZONE  XXIII  (In  morte  II).        270 

Tentando  Amore  di   fare  innamorare  il  P.   di  nuovo  per  altra  donna, 

dice   egli  che  bisogna  che  faccia  risuscitare  Laura  e  che  rinnovi  tutte 

le  sue  bellezze,   concludendo  che  poiché  egli  non  le  può  ritrovare  non  è 

per  rinnamorarsi. 

Amor,  se  vuo'  eh'  i'  torni  al  giogo  antico,^ 
Come  par  che  tu  mostri,  un'altra  prova 
Maravigliosa^  e  nova, 
Per  domar  me,  convienti'^  vincer  pria: 
Il  mio  amato  tesoro  in  terra  trova, 
Che  m'  è  nascosto,  ond'io  son  sì  mendico,         6 
E  '1  cor  saggio  pudico. 
Ove  suol  albergar  la  vita  mia: 
E  s'egli  è  ver  che  tua  potenza^  sia 
Nel  ciel  sì  grande  come  si  ragiona, 
E  nell'abisso  (perchè  qui  fra  noi 
Quel  che  tu  vali'"^  e  puoi, 
Credo  che  '1  senta*^  ogni  gentil  persona); 
Ritogli  a  Morte  quel  ch'ella  n'ha'  tolto, 
E  ripon  le  tue  insegne  nel  bel  volto. 

^  antiche    ^  Meravigliosa    '  conventi    *  potentia    ^  vai     ^  sente 
'  na 

Riponi  entro  '1  bel  viso  il  vivo  lume. 
Ch'era  mia  scorta;  e  la  soave  fiamma, 
Ch'ancor.^  lasso,  m'infiamma 
Essei.do  spenta;  or  che  fea  dunque  ardendo? 


Rime.  226 

E'  non  si  vide  mai  cervo  né  damma 

Con  tal  desio  cercar  fonte  né  fiume,  6 

Qua!  io  il  dolce  costume, 

Ond'  ho^  già  molto  amaro,  e  più  n'attendo. 

Se  ben  me^  stesso  e  mia  vaghezza  intendo, 

Che  mi  fa  vaneggiar  sol  del  penserò, 

E  gir*  in  parte  ove  la  strada  manca, 

E  con^  la  mente  stanca 

Cosa  seguir  che  mai  giugner  non  spero 

Or  al  tuo  richiamar  venir  non  degno, 

Che  signoria**  non  hai'  fuor  del  tuo  regno. 

1  Chanchor    2  q    a  mi    *  gire    ^  co    *  segnoria    '  ai 

Fammi  sentir  di^  quell'aura  gentile 

Di  fuor, 2  siccome  dentro  ancor ^  si  sente; 

La  qual  era  possente, 

Cantando,  d'acquetar  gli"*  sdegni  e  l'ire; 

Di  serenar  la  tempestosa  mente, 

E  sgombrar  d'ogni  nebbia  oscura  e  vile;  6 

Ed  alzava '1^  mio  stile 

Sovra  di  se,  dov'  ®  or  non  porla  gire. 

Agguaglia'  la  speranza  col  desire; 

E  poi  che  l'alma  è  in  sua  ragion  più  forte, 

Rendi  agli  occhi,  agli  orecchi  il  proprio  obbietto,'' 

Senza  '1  qual,*^  imperfetto 

È  lor  oprar, ^^  e '1  mio  viver  ^^  è  morte. 

Indarno  or  sopra^"^  me  tua  forza  adopre. 

Mentre  '1  mio  primo  amor  terra  ricopre. 

1  de     2  for     3  anchor     *  li     ^  jj    s  jove    '  Aguaglia    ^  obgettc 
Serica  qual    1°  oprare    ^^  vivere    ^^  sovra 

Fa  ch'io  riveggia  il  bel  guardo,  ch'un  sole 
Fu  sopra '1  ghiaccio  ond' io  solea  gir  carco; 
Fa  eh'  io  ^  ti  trovi  al  varco 
Onde  senza  tornar  passò  '1  mio  core; 
Prendi  i  dorati  strali  e  prendi  l'arco, 
E  facciamisi  udir,  siccome  sole,  ó 

Bibl.  rom.   12/15.  15 


226  Petrarca. 

Col  suon  delle  parole 
Nelle  quali  io'mparai"^  che  cosa  é  amore; 
Movi  la  lingua  ov'erano  a  tutt'ore 
Disposti  gli  ami  ov'io  fui  preso,  e  l'esca 
Ch'i' bramo  sempre;  e  i  tuoi  lacci  nascondi 
Fra  i  capei  crespi  e  biondi, 
Che'l  mio  voler '^  altrove  non  s'invesca; 
Spargi  con^  le  tue  man  le  chiome  al  vento, 
Ivi  mi  lega,  e  puomi  far  contento. 
1  chi    2  imparai     ^  volere    *  co 

Dal  laccio  d'or  non  fia  mai  chi  mi^  scioglia, 
Negletto  ad  arte,  e'nnanellato  ed  irto;- 
Nè  dall' ^ardente  spirto 
Della  sua  vista  dolcemente  acerba, 
La  qual  dì  e  notte,  più  che  lauro  o  mirto, 
Tenea  in  me  verde  l'amorosa  voglia, 
Quando  si  veste  e  spoglia 
Di  fronde  il  bosco  e  la  campagna  d'erba. 
Ma  poi  che  Morte  è  stata  sì  superba 
Che  spezzò 'H  nodo  ond' io  temea  scampare, 
Né  trovar  puoi,''  quantunque  gira  il  mondo, 
Di  che  ordischi  '1  secondo, 
Che  giova,  Amor,  tuo'  *^  ingegni  ritentare? 
Passata  è  la  stagion,  perduto  hai'  l'arme 
Di  ch'io  tremava:  omai  che  puoi  tu  farme? 
^  me    2  hirto    ^  de  1    *  il    *  poi     ^  tuoi     '  ai 

L'arme  tue  furon  gli  occhi  onde  l'accese 
Saette  uscivan  d'  invisibil  foco, 
E  ragion  temean  poco. 

Che  centra  iP   Ciel  non  vai  difesa  umana ;- 
11  pensar  e'i  tacer,  il  riso  e'i  gioco. 
L'abito  onesto'^  e'I  ragionar  cortese. 
Le  parole  che  'ntese 
Avrian  fatto  gentil  d'alma  villana; 
L'angelica  sembianza  umile'  e  piana, 
'-^h'or  quinci  or  quindi  udia  tanto  lodarsi; 


Rime/  227 

E'I  sedere  e  lo  star,  che  spesso  altrui 
Poser  in  dubbio  a  cui 
Devesse  il  pregio  di  più  laude  darsi. 
Con  quest'arme"*  vincevi  ogni  cor  duro; 
Or  se'  tu  disarmato,  i'  son  securo. 
^  Chen  contrai     ^  humana    ^  honesto    *  humile    '■  armi 

Gli  animi  ch'ai  tuo  regno  il  Cielo  inchina 
Leghi  ora  in  uno  ed  ora  in  altro  modo: 
Ma  me  sol  ad  un  nodo 
Legar  potei:  che'l  Ciel  di  più  non  volse. 
Queir  ^ uno  è  rotto;  e 'n  libertà  non  godo, 
Ma  piango,  e  grido:  Ahi-  nobil  pellegrina,  6 

Qual  sentenza'*  divina 
Me  legò  innanzi,^  e  te  prima  disciolse? 
Dio,  che  sì  tosto  al  mondo  ti  ritolse. 
Ne  mostrò  tanta  e  sì  alta  virtute 
Solo  per  infiammar  nostro  desio. 
Certo  omai  non  tem'  io. 
Amor,   della  tua  man  nove  feruta. 
Indarno  tendi  l'arco,  e  voto"*  scocchi; 
Sua  virtù  cadde  al  chiuder  de'  begli  occhi. 
^  Quei     2  Ai     3  sententìa    *  inan^i     ^  voito 

Morte  m'ha^  sciolto,  Amor,  d'ogni  tua  legge: 
Quella  che  fu  mia  donna,  al  cielo  è  gita, 
Lasciando  trista  e  libera  mia  vita. 


SONETTO  CCXXX  (In  morte  III).      271 

lidorta  Laura,  gli  piacque  urr altra  donna,  della  quale  era  forse  per  in- 
namorarsi,  se  non  ch'ella  morì;   e  per  conseguenza  fu   un'altra  volta 
liberato  da  Amore. 

L'ardente  nodo  ov'io  fui  d'ora  in  ora,^ 
Contando  anni  ventuno  interi,  preso, 
Morte  disciolse:  né  giammai  tal  peso 
Provai,  ne  credo  ch'uom  di  dolor  mora. 


228  Petrarca. 

Non  volendomi  Amor  perder  ancora,^ 
Ebbe  un  altro  lacciuol  fra  l'erba  teso, 
E  di  nov'  ^  esca  un  altro  foco  acceso, 
Tal  ch'a  gran  pena  indi  scampato  fora. 

E  se  non  fosse  esperienza^  molta 

De' primi  affanni,  i' sarei  preso  ed  arso 
Tanto  più  quanto  son  men  verde  legno. 

Morte  m'ha^  liberato  un'altra  volta, 

E  rotto '1  nodo,  e '1  foco  ha^  spento  e  sparso; 
Centra  la  qual  non  vai  forza  nè'ngegno. 
i  hora     2  perdere  anchora    '  nova    *  experientia    ^  ma    ^  a 

SONETTO  CCXXXI  (In  morte  IV).      272 

Moria  Laura,   il  passato,   il  presente,   il  futuro,  tutto  gli  è  di  tormento 

e  di  pena. 

La  vita  fugge  e  non  s'arresta  un'ora;^ 
E  la  morte  vien  dietro  a  gran  giornate; 
E  le  cose  presenti  e  le  passate 
Mi  danno  guerra  e  le  future  ancora ;''^ 

E'I  rimembrar^  e  l'aspettar  m'accora 
Or  quinci  or  quindi  sì,  che'n  ventate, 
Se  non  ch'i' ho*  di  me  stesso  pietate, 
r  sarei  già  di  questi  pensier  fora. 

Tornami  avanti  s'alcun  dolce  mai 

Ebbe '1  cor  tristo;  e  poi  dall'altra  parte 
Veggio  al  mio  navigar  turbati  i  venti: 

Veggio  fortuna  in  porto,  e  stanco  ornai 
Il  mio  nocchier,  e  rotte  arbore  e  sarte, 
E  i  lumi  bei  che  mirar  soglio,  spenti. 
1  una  hora    ^  anchora    ^  rimembrare    *  o 

SONETTO  CCXXXII  (In  morte  V).      273 

Riprende   l'anima  sua  dell'andar  ripetendo  col  pensiero  e  con  la  me- 
moria tutti  gli  atti  di  Laura  e  la  conforta  a  occuparsi  piuttosto  nelle 
cose  di  Dio. 

Che  fai?  che  pensi?  che  pur  dieiro  !?;uardi 
Nel  tempo    ihe   tornar  non  potè  ornai, 


Rime,  229 

Anima  sconsolata':'  che  pur  vai 
Giugnendo  legne  al  foco  ove  tu  ardi? 

Le  soavi  parole  e  i  dolci  sguardi, 

Ch'ad  un  ad  un  descritti  e  dipint'hai^ 
Son  levati  da^  terra;  ed  è  (ben  sai) 
Qui  ricercargli  •■'  intempestivo  e  tardi. 

Deh'^  non  rinnovellar-''  quel  che  n'ancide; 
Non  seguir  più  pensieri  vago  fallace, 
Ma  saldo  e  certo  ch'a  buon  fin  ne  guide. 

Cerchiamo  '1  ciel,  se  qui  nulla  ne  piace; 
Che  mal  per  noi  quella  beltà  si  vide, 
Se  viva  e  morta  ne  devea  tor  pace. 

1  depinti  ai    *  de    ^  ricercarli    *  De    ^  rinovellar    «  penser 

SONETTO  CCXXXIII  (In  morte  VI).    274 

De^  pensieri  suoi  e  del  cuore  si  duole  il  Petrarca,  che  sono  nemici  interni. 
B  perchè  il  cuore  è  quello  che  riceve  dentro  da  se  non  solamente  i  ne- 
mici interni,  che  sono  i  pensieri,  ma  quelli  di  fuori,  che  sono  Amor, 
Fortuna  e  Morie,  a  lui  solo  dà  la  colpa  del  mal  suo.  Prende  la  simi- 
litudine d'una  città  assediata  da  tre  nemici  di  fuori  e  conturbata  da 
parte  de' cittadini  dentro  e  tradita  da  uno. 

Datemi  pace,  o  duri  miei  pensieri: 

Non  basta  ben  ch'Amor,   Fortuna  e  Morte 
Mi  fanno  guerra  intorno  e'n  su  le  porte, 
Senza  trovarmi  dentro  altri  guerrieri?  ' 

E  tu,  mio  cor,  ancor'^  se'  pur  qual  eri, 
Disleal  a  me  sol;  che  fere  scorte 
Vai  ricettando,  e  sei*^  fatto  consorte 
De'  miei  nemici  sì  pronti  e  leggieri. 

In  te  i  secreti  suoi  messaggi  Amore. 
In  te  spiega  Fortuna  ogni  sua  pompa, 
E  Morte  la  memoria  di  quel  colpo 

Che  l'avanzo  di  me  conven  che  rompa; 
In  te  i  vaghi  pensier  s'arman  d'errore: 
Perchè  d'ogni  mio  mal  te  solo  incolpo. 

1  guerreri     ^  anchor    ^  se 


230  Petrarca. 

SONETTO  CCXXXIV  (In  morte  VII).    275 

Agli  occhi,  agli  orecchi,    a'  pie'  significa  che  Laura  è  morta,  ammonen- 
dogli che  non  gli  debbano  dar  noia,  perciocché  egli  non  è  stalo  cagione 
•iella  morte  sua,   ma  che  biasimino  Morie,    anzi  lodino  Dio  che  può 
fargli  lieti  dopo  questo  dolore. 

Occhi  miei,  oscurato  è'I  nostro  sole, 

Anzi  è  salito  al  cielo,  ed  ivi  splende; 

Ivi  'U  vedremo  ancor/-  ivi  n'attende, 

E  di  nostro   tardar  forse  li  dole. 
Orecchie  mie,  l'angeliche  parole 

Suonano'''  in  parte  ov' '  è  chi  meglio  intende. 

Pie  miei,  vostra  ragion  là  non  si  stende 

Ov'  è  colei  ch'esercitar"'  vi  sole. 

Dunque  perchè  mi  date  questa  guerra? 
Già  di  perder*'  a  voi  cagion  non  fui 
Vederla,  udirla  e  ritrovarla  in  terra. 

Morte  biasmate;  anzi  laudate  lui 

Che  lega  e  scioglie  e'n  un  punto  apre  e  serra, 
E  dopo'l  pianto  sa  far  lieto  altrui. 
^  il     2  anchora    ^  Sonano    *  ove    ^  exercitar     •»  perdere 

SONETTO  CCXXXV  (In  morte  Vili).    276 

Si  scusa  perchè  morta  Laura  si  lamenta;  dice  averne  due  ragioni  :  l'una 

che  ha  perduto  Punico  rimedio  suo  contro  i  fastidi  mondani  ;  r  altra 

che  non  è  morto  con  esso  lei. 

Poi  che  la  vista  angelica  serena. 
Per  subita  partenza,  in  gran  dolore 
Lasciato  ha'   l'alma  e'n  tenebroso  orrore. - 
Cerco,  parlando,   d'allentar  mia  pena. 

Giusto  duol  certo  a  lamentar  mi  mena, 
Sassel  chi  n'è  cagion,"  e  sallo  Amore; 
Ch'altro  rimedio  non  avea  '1  mio  core 
Centra  i  fastidi  onde  la  vita  è  piena. 

Quest"' '  un.  Morte,  m'ha''  tolto  la  tua  mano: 
E  tu  che  copri  e  guardi  ed  hai"  or  teco. 
Felice  terra,   quel  bel  viso  umano ;^ 


Rime.  231 

Me  dove  lasci,  sconsolato  e  cieco, 

Poscia  che'l  dolce  ed  amoroso  e  piano 
Lume  degli  occhi  miei  non  è  più  meco? 
^  a    2  horrore    ^  cagione    *  Questo    ^  ma    ^  ai     '  humano 

SONETTO  CCXXXVI  (In  morte  IX).    277 

Non  ha  più  speranza  di   rivederla;  e  però  si  conforta   colV immagi- 
narsela in  cielo. 

S'Amor  novo  consiglio  non  n'apporta, 
Per  forza  converrà  che'l  viver  cange: 
Tanta  paura  e  duol  l'alma  trista  ange, 
Che'l  desir  vive  e  la  speranza  è  morta: 

Onde  si  sbigottisce  e  si  sconforta 

Mia  vita  in  tutto,  e  notte  e  giorno  piange. 
Stanca,  senza  governo  in  mar  che  frange, 
E'n  dubbia  via  senza  fidata  scorta. 

Immaginata^  guida  la  conduce; 

Che  la  vera  è  sotterra,  anzi  è  nel  cielo, 
Onde  più  che  mai  chiara  al  cor  traluce; 

Agli  occhi  no,  che-  un  doloroso  velo 
Contende  lor  la  desiata'^  luce, 
E  me  fa  sì  per  tempo  cangiar  pelo. 
1  Imaginata     2  eh    ^  disiata 

SONETTO  CCXXXVII  (In  morte  X).    278 

Brama  morir  senza  indugio,  onde  seguirla  colV anima,  come  fa  col  pensiero. 
Nell'età  sua  più  bella  e  più  fiorita, 

Quand' ^  aver. suol  Amor  in  noi  più  forza, 
Lasciando  in  terra  la  terrena  scorza, 
È  Laura  ^  mia  vital  da  me  partita, 
E  viva  e  beila  e  nuda  al  ciel  salita:  - 
Indi  mi  signoreggia,  indi  mi  sforza. 
Deh'*  perchè  me  del  mio  mortai  non  scorza 
L'ultimo  dì,  eh'  è  primo  all'altra  vita? 

Che  come  i  miei  pensier  dietro  a  lei  vanno, 
Così  leve,  espedita*  e  lieta  l'alma 
La  segua,  ed  io  sia  fuor  di  tanto  affanno. 


232  Petrarca. 

Ciò  che  s'indugia  è  proprio  per  mio  danno,"* 
Per  far  me  stesso  a  me  più  grave  salma. 
Oh  che  bel  morir  era  oggi  è  terz'*^  anno! 
'  Quando    2  laura    *  De    *  expedita    ^  damno    *  tergo 

SONETTO  CCXXXVIII  (In  morte  XI).  279 

Dovunque  sì  trovi  gli  par  di  vederla,  e  quasi  di  sentirla  parlare. 

Se  lamentar  augelli,  o  verdi  fronde 
Mover  soavemente  a  l'aura  estiva, 
O  roco  mormorar  di  lucid'^  onde 
S'ode  d'una  fiorita  e  fresca  riva, 

Là'v'io  seggia  d'amor  pensoso,  e  scriva; 
Lei  che  '1  Ciel  ne  mostrò,  terra  n'asconde, 
Veggio  ed  odo  ed  intendo,  ch'ancor^  viva 
Di  sì  lontano  a'sospir  miei  risponde. 

Deh^  perchè  innanzi^  tempo  ti  consume? 
Mi  dice  con  pietate,  a  che  pur  versi 
Degli  occhi  tristi  un  doloroso  fiume? 

Di  me  non  pianger  tu;  eh'  e'  miei  dì  fersi, 
Morendo,  eterni;  e  nell'eterno^  lume. 
Quando  mostrai  di^  chiuder,  gli  occhi  apersi. 
^  lucide    2  chanchor    ^  De    *  inangil    ^  nelinterno    *  de 

SONETTO  CCXXXIX  (In  morte  XII).  280 

Rammenta  in  solitudine  gli  antichi  suoi  lacci  d'amore,  e  sprezza  i  novelli. 

Mai  non  fu''  in  parte  ove  sì  chiar  vedessi 
Quel  che  veder  vorrei,  poi  ch'io  noi  vidi, 
Né  dove  in  tanta  libertà  mi  stessi, 
Né 'mpiessi '1-  ciel  di"  sì  amorosi  stridi; 

Né  giammai  vidi  valle  aver  sì  spessi 
Luoghi  da  sospirar  riposti  e  fidi; 
Né  credo  già  ch'Amor*  in  Cipro  avessi, 
O  in  altra  riva,  sì  soavi  nidi. 

L'acque  parlan  d'amore  e  l'ora  e  i  rami 
E  gli  augelletti  e  i  pesci  e  i  fiori  e  l'erba, 
Tutti  insieme*^  pregando  eh' i' sempr'®  ami. 


Rime.  233 

Ma  tu,  ben  nata,  che  dal  eie)  mi  chiami, 
Per  la  memoria  di  tua  morte  acerba 
Preghi  ch'i' sprezzi '1  mondo  e'  suoi  dolci  amì.^ 
*  fui    *  il    3  de    *  amore    ^  inseme    *  sempre    '  ei    ^  hami 

SONETTO  CCXL  (In  morte  XIII).       281 

Videla  in  Valchiusa  sotto  varie  figure  ed  in  atto  di  compassione  verso 

di  lui. 

Quante  fiate  al  mio  dolce  ricetto. 

Fuggendo  altrui,  e,  s'esser  può,^  me  stesso, 
Vocon  gli  occhi  bagnando   l'erba  e  '1  petto, 
Rompendo  co'  sospir  l'aere  da  presso! 

Quante  fiate  sol,  pien  di  sospetto. 

Per  luoghi  ombrosi  e  foschi  mi  son  messo. 

Cercando  col  pensieri  l'alto  diletto. 

Che  Morte  ha^  tolto,  end'  io  la  chiamo  spesso  ! 

Or  in  forma  di  ninfa"*  o  d'altra  diva, 
Che  del  più  chiaro  fondo  di  Sorga  esca, 
E  pongasi  a  seder "^  in  su  la  riva; 
Or  r  ho  veduta"  su  per  l'erba  fresca 
Calcar  i  fior'  com'una  donna  viva. 
Mostrando  in  vista  che  di  me  le  'ncresca. 
1  pò    2  penser     8^4  nimpha    •'  sedere     *  lo  veduto     '  Calcare 
i  fiori 

SONETTO  CCXLI  (In  morte  XIV).      282 
Ringrazia  Laura  che  gli  apparisca. 

Alma  felice,  che  sovente  torni 
A  consolar  le  mie  notti  dolenti 
Con  gli  occhi  tuoi,  che  Morte  non  ha^  spenti, 
Ma  sovra  'I  mortai    modo  fatti  adorni; 

Quanto  gradisco  eh'  e'  miei  tristi  giorni 
A  rallegrar  di^  tua  vista  consentii 
Così  incomincio"  a  ritrovar  presenti 
Le  tue  bellezze  a'  suoi  usati  soggiorni. 

Là  've  cantando  andai  di  te  molt'anni, 
Or,  come  vedi,  vo  di  te  piangendo; 
Di  te  piangendo  no,  ma  de'  miei  danni. 


234  Petrarca. 

Sol  un  riposo  trovo  in  molti  affanni; 

Che,  quando  torni,  ti'*  conosco  e  'ntendo 
All'andar,  alla  voce,  al  volto,  a'  panni. 
la    2  de    3  comincio    *  te 

SONETTO  CCXLII  (In  morte  XV).      283 

Tocca  due  cose  di  Laura  perdute  per  morte  e  riavute  per  apparizione  ; 

la  lucidezza  del  volto  e  degli  occhi,   e  la  soavità  delle  parAe  onde  ha 

qualche  consolazione  al  suo  dolore. 

Discolorato  hai,^  Morte,  il  più  bel  volto 
Che  mai  si  vide,  e  i  più  begli  occhi  spenti; 
Spirto  più  acceso  di  virtuti-  ardenti, 
Del  più  leggiadro  e  più  bel  nodo  hai"'  sciolto. 

In  un  momento  ogni  mio  ben  m'  hai"  tolto: 
Posto  hai  silenzio^  a'  più  soavi  accenti 
Che  mai  s'udirò;  e  me  pien  di  lamenti. 
Quant' io    veggio  m' è  noia  e  quant'io    ascolto 

Ben  torna  a  consolar  tanto  dolore. 

Madonna,  ove  pietà  la  riconduce; 

Né  trovo  in  questa  vita  altro  soccorso. 
E  se  com'  ^  ella  parla  e  come  luce 

Ridir  potessi,  accenderei  d'amore, 

Non  dirò  d'uom,  un  cor  di  tigre  o  d'orso. 

'ai    2  vertuti     ^  ai    *  Postai  silentio    »  come 

SONETTO  CCXLIII  (In  morte  XVI)     284 

Si  duole  che  il  contemplar  di  Laura   per   immaginazione  sia  breve, 
perciocché  mentre  la  contempla  nulla  gli  noce. 

Sì  breve  è  '1  tempo  e  '1  pensieri  sì  veloce 
Che  m.i  rendon  Madonna  così  morta, 
Ch'  al  gran  dolor  la  medicina  è  corta  : 
Pur,  mentr'  io  veggio  lei,  nulla  mi  noce. 

Amor,  che  m'ha-  legato  e  tienmi  in  croce. 
Trema  quando  la  vede  in  su  la  porta 
Dell'alma,  ove  m'ancide  ancor'"  sì  scorta, 
Sì  dolce  in  vista  e  sì  soave  in  voce. 


I 


Rime.  235 

Come  donna  in  suo  albergo,   altera  vene. 
Scacciando  dell'oscuro,  e  grave  core 
Con^  la  fronte  serena  i  pensier  tristi. 

L'alma,  che  tanta  luce  non  sostene. 
Sospira,  e  dice:  o  benedette  l'ore 
Del  di  che  questa  via  con  gli'  occhi  apristi  1 

'  penser     ^  ma    ^  anchor    ''Co    ^  li 

SONETTO  CCXLIV  (In  morte  XVII).    285 

Zon  l'esempio  della  madre  che  consiglia  il  figliuolo,  e  della  sposa  lo  sposo 

'n  caso  dubbio,   dimostra  quali  fossero  le  ammonizioni  di  Laura  ap~ 

parcniegli,  perchè  si  guardasse  dai  lacci  del  mondo. 

Né  mai  pietosa  madre  al  caro  figlio, 
Né  dcnna  accesa  al  suo  sposo  diletto  ^ 
Die  con  tanti  sospir,  con  tal  sospetto 
In  dubbio  stato  sì  fedel  consiglio  ; 

Come  a  me  quella  che  '1  mio  grave  esiglio- 
Mirando  dal  suo  eterno  alto  ricetto. 
Spesso  a  me  torna  con-'  l'usato  affetto;' 
E  di  doppia  pietate  ornata  il  ciglio, 

Or  di  madre  or  d'amante:  or  teme  or  arde 
D'onesto  foco;  e  nel  parlar  mi  mostra 
Quel  che  'n  questo  viaggio  fugga  o  segua, 
Contando  i  casi  della  vita  nostra. 

Pregando  eh'  a  levar  l'alma  non   tarde: 
E  sol  quant'ella  parla  ho'^  pace  o  tregua. 
1  dilecto     -  osiglio     ^  co    "•  affecto     ^  q 

SONETTO  CCXLV  (In  morte  XVIII).  286 

Coynmendazione  della  soavUà  del  parlare  di  Laura  immaginata  e  perchè 

non  si  può  ridir:,  che  troppa  è  la  sua  eccellenza  e  perchè  il  P.  non  può 

fare  che  non  faccia  quanto  gli  prescrive. 

Se  quell'aura  soave  de'  sospiri 

Ch'  i'  odo  di  colei  che  qui  fu  mia 

Donna,  or  è  in  cielo,   ed  ancor  ^   par  qui  sia, 

E  viva  e  senta  e  vada  ed  ami  e  spiri, 


236  Petrarca. 

Ritrar  potessi:  o-  che  caidi  desìri 
Movrei  parlando  !  sì  gelosa  e  pia 
Torna  ov'  io  son,  temendo  non  fra  via 
Mi  stanchi,  o  'ndietro  o  da  man  manca  giri. 

Ir  dritto  alto  m' insegna  :  ed  io  che  'ntendo 
Le  sue  caste  lusinghe  e  i  giusti  preghi 
Col  dolce  mormorar  pietoso  e  basso; 

Secondo  lei  conven  mi  regga  e  pieghi, 
Per  la  dolcezza  che  del  suo  dir  prendo, 
Ch'avria  vertù  di  far  piangere  un  sasso. 
1  anchor    ^  or 

SONETTO  CCXLVI  (In  morte  XIX).    287 

Morto   Senn  uccio,   lo   prega   di  far   sapere   a    Laura    l'ir,  felici  là    de 

suo  stato. 

Sennuccio  mio,  benché  doglioso  e  solo 
M'abbi  lasciato,  i'  pur  mi  riconforto, 
Perchè  del  corpo,  ov'eri  preso  e  morto, 
Alteramente  se'  levato  a  volo. 
Or  vedi  insieme  l'uno  ^  e  l'altro  polo, 
Le  stelle  vaghe  e  lor  viaggio  torto, 
E  vedi  '1^  veder  nostro  quanto  è  corto: 
Onde  col  tuo  gioir  tempro  '1  mio  duolo- 
Ma  ben  ti  prego  che  'n  la  terza  spera 
Guitton  saluti  e  messer  Gino  e  Dante, 
Franceschin  nostro,  e  tutta  quella  schiera. 
Alla  mia  donna  puoi  ben  dire  in  quante 
Lagrime  i'"  vivo;  e  son  fatto ^  una  fera, 
Membrando  '1^  suo  bel  viso  e  l'opre  sante. 
1  inserne  lun     2,1    a  jq    ♦  fatt    ^  i! 

SONETTO  CCXLVII  (In  morte  XX).    28^ 

Dimostrazione  dello  staio  noioso  suo  dopo  la  morte  di  Laura  che  è  d 

sospirare  e  di  guardare  d' in  sui  colli  di  Valchiusa  verso  il  piano,  do» 

nacque  Laura  e  di  piangere. 

V  ho^  pien  di  sospir  quest' aer"  tutto, 
D'aspri  colli  mirando  il  dolce  piano 


Rime.  237 

Ove  nacque  colei  ch'avendo  in  mano 
Mio'^  cor  in  sul  fiorire  e  'n  sul  far  frutto, 
È  gita  al  cielo,  ed  hammi*  a  tal  condutto 
Col  subito  partir,  che  di  lontano 
Gli  occhi  miei  stanchi  lei  cercando  in  vano, 
Presso  di  se  non  lassan  loco  asciutto. 

Non  è  sterpo  né  sasso  in  questi  monti. 

Non  ramo  o  fronda  verde  in  queste  piagge, 
Non  fior^  in  queste  valli  o  foglia  d'erba; 

Stilla  d'acqua  non  vien*^  di  queste  fonti, 
Né  fiere  han'  questi  boschi  sì  selvagge, 
Che  non  sappian  quant'*'  é  mia  pena  acerba. 
*  Io    *  aere    ^  Meo    *  ammi    °  fiore    ^  ven     '  an    s  quanto 

SONETTO  CCXLVIII  (In  morte  XXI).  289 

Questa  è  una  consolazione  della  morte  dì  Laura,  per  la  quale  egli  ora 
s'avvede  di  quello  che  prima  non  s'avvedeva;  e  ciò  era  che  la  turbata 
vista  di  Laura  era  per  bene  del  Petrarca  e  per  onore  di  lei.  Per  bene 
del  Petrarca  che  egli  veggendola  tanto  alpectra,  non  ardeva  di  deside- 
rar 0  di  sperar  cosa  meno  che  onesta;  per  onore  di  lei,  che  scrivendo  il 
Petrarca  la  rigidezza  di  lei,  dove  per  avventura  la  credeva  biasimare, 
la  laudava  d'onestà  al  mondo. 

L'alma  mia  fiamma  oltra  le  belle  bella, 
Ch'  ebbe  qui  '1  Ciel  sì  amico  e  sì  cortese. 
Anzi  tempo  per  me  nel  suo  paese 
È  ritornata  ed  alla  par  sua  stella. 

Or  comincio  a  svegliarmi,  e  veggio  eh'  ella 
Per  lo  migliore  al  mio  desir  contese, 
E  quelle  voglie  giovenili  accese 
Temprò  con  una  vista  dolce  e  fella. 

Lei  ne  ringrazio^  e  '1  suo  alto  consiglio, 
Che  col  bel  viso  e  co'  soavi  sdegni 
Fecemi.  ardendo,  pensar  mia  salute. 

0  leggiadre  arti  e  lor  effetti  degni, 

L'un  con 2  la  lingua  oprar,  Taltra  col  ciglio, 
!o  gloria  in  lei  ed  ella  in  me  virtute  ! 
^  ringratio    ^  co 


238  Petrarca. 

SONETTO  CCXLIX  (In  morte  XXII).  290 

Ringrazia    Laura    dell'asprezza    usatagli,     siccome    della    salute    sua. 
perchè  allora  non  riconoscesse  cotale  asprezza  per  salute. 

Come  va  "i  mondo!  or  mi  diletta  e  piace 

Quel  che  più  mi  dispiacque;  or  veggio  e  sento 
Che  per  aver  salute  ebbi  tormento, 
E  breve  guerra  per  eterna  pace. 

O  speranza,  o  desir  sempre  fallace. 
E  degli  amanti  più  ben  per  un  cento! 
O  quant' era  '1^  peggior  farmi  contento 
Quella  ch'or  siede  in  cielo  e 'n  terra  giace! 

Ma  '1  cieco-  Amor  e  la  mia  sorda  mente 
Mi  traviavan  sì,  ch'andar  per  viva 
Forza  mi  convenia  dove  morte  era. 
Benedetta  colei  ch'a  miglior  riva 

Volse  'T'  mio  corso,  e  l'empia  voglia  ardente. 
Lusingando,  affrenò.  perch'  io  non  pera. 
1  il     -  ceco     2  il 

SONETTO  CCL  (In  morte  XXIII).  291 

All'apparire  dell'aurora,  e  perchè  era  simile  di  bellezza  a  Laura  e  per- 
chè in  quella  ora  la  soleva  vedere,  e  perchè  il  nome  non  era  lontane 
dal  suo  e  perchè  ora  si  trovava  in  cielo,  donde  scendeva  l'Aurora. 
Amore  gli  r innovellava  il  desiderio  di  Laura  e  per  comparazione  di 
Tifone  dimostra  la  grandezza  della  sua  infelicità,  che  a  lui  almeno  la 
notte  torna   l'Aurora,    ma   a   se   non  è  conceduto  il  rivederla,  se  non 

muoia. 

Quand'  io  veggio  dal  ciel  scender  l'Aurora 
Con^  la  fronte  di  rose  e  co' crin  d"oro, 
Amor  m'assale:  ond'  io  mi  discoloro, 
E  dico  sospirando:  ivi  è  Laura-  ora. 

0  felice  Titon  !  tu  sai  ben  l'ora 
Da  ricovrare  il  tuo  caro  tesoro  ; 

Ma  io  che  debbo  far  del  dolce  alloro? 
Che  se  '1  vo'  riveder  conven  ch'io  mora. 

1  vostri  dipartir  non  son  sì  duri  ; 
Ch'almen  di  notte  suol  tornar  colei 

Che  non  ha^  a  schifo  le  tue  bianche  chiome: 


Rime.  239 

Le  mie  notti  fa  triste  e  ì  giorni  oscuri 
Quella  che  n'  ha^  portato  i  penser  miei 
Né  di  se  m'  ha^  lasciato  altro  che  '1  nome. 

^  Co     2  laura    ^  a 

SONETTO  COLI  (In  morte  XXIV).      292 

Annoverato  il  bene,  che  per  la  morte  di  Laura  ha  perduto,   poiché  non 
muore,  afferma  almeno  di  non  volere  cantare. 

Gli  occhi  di  ch'io  parlai  sì  caldamente, 
E  le  braccia  e  le  mani  e  i  piedi  e  '1  viso 
Che  m'avean  sì  da  me  stesso  diviso 
E  fatto  singular  dall'altra  gente  ; 

Le  crespe  chiome  d'or^  puro  lucente, 
E  '1  lampeggiar  dell'angelico  riso 
Che  solean  far-  in  terra  un  paradiso. 
Poca  polvere  son,  che  nulla  sente. 

Ed  io  pur  vivo;  onde  mi  doglio  e  sdegno, 
Rimase  senza  '1  lume  eh'  amai  tanto. 
In  gran  fortuna  e  'n  disarmato  legno. 

Or  sia  qui  fine  al   mio  amoroso  canto  : 
Secca  è  la  vena  dell'usato  ingegno, 
E  la  cetera  mia  rivolta  in  pianto.  • 
'  doro    2  fare 

SONETTO  CCLII  (In  morte  XXV).      293 

Tardi   conosce   quanto    piacessero   le  sue  rime  d'amore.    Vorria    più 
limarle,  e  noi  può. 

S'io  avessi^  pensato  che  sì  care 

Fossin  le  voci  de'  sospir  miei  in  rima, 
Fatte  l'avrei  dal  sospirar  mio  prima 
In  numero  più  spesse,  in  stil  più  rare. 

Morta  colei  che  mi  facea  parlare. 

E  che  si  stava  de'  pensier  miei  in  cima, 
Non  posso  (e  non  ho^  più  sì  dolce  lima) 
Rime  aspre  e  fosche  far  soavi  e  chiare. 

E  certo  ogni  mio  studio  in  quel  temp'  ^  era 
Pur  di  sfogare  il  doloroso  core 
In  qualche  modo,  non  d'acquistar  fama. 


240  Petrarca. 

Pianger  cercai,  non  già  del  pianto  onore.^ 
Or  vorrei  ben  piacer;  ma  quella  altera, 
Tacito,  stanco,   dopo  se  mi  chiama. 
1  avesse    *  o    '  tempo    *  honore 

SONETTO  CCLIII  (In  morte  XXVI).    294 

Dice  che  l'anima  è  tanto  ingombra  dal  dolore  che  non  può  far  altre 
che  sospirare. 

Solcasi  nel  mio  cor  star  bella  e  viva, 
Com'alta  donna  in  loco  umile ^  e  basso: 
Or  son  fatt'"^  io  per  l'ultimo  suo  passo, 
Non  pur  mortai  ma  morto;  ed  ella  è  diva. 

L'alma  d'ogni  suo  ben  spogliata  e  priva, 
Amor  della  sua  luce  ignudo  e  casso 
Devrian  della  pietà  romper  un  sasso; 
Ma  non  è  chi  lor  duol  riconti  o  scriva. 

Che  piangon  dentro,  ov'ogni  orecchia  è  sorda, 
Se  non  la  mia,  cui  tanta  deglia  ingombra, 
Ch'altro  che  sospirar,  nulla  m'avanza. 

Veramente  slam  noi  polvere  ed  ombra; 
Veramente  la  voglia  è  cieca^  e'ngorda; 
Veramente  fallace  è  la  speranza. 
^  humile    ^  fatto    '  voglia  cieca 

SONETTO  CCLIV  (In  morte  XXVII).    295 

Fa  comparazione  dello  stato  presente  de'  suoi  lieti  pensieri  intorno  a 

Laura,   poiché  è  morta,  allo  stato  passato  quando  era  in  vita  e  mostra 

che  in  vita  molti  erano  i  lieti;  in  morte  non  sono,  se  non  uno  e  questo 

uno  è  e k ella  gode  tn  Cielo. 

Solcano  i  miei  pensieri  soavemente 
Di  lor  obbietto-  ragionar  insieme:'' 
Pietà  s'appressa,  e  del  tardar  si  pente: 
Forse  or  parla  di  noi  o  sipera  o  teme. 

Poi  che  l'ultimo  giorno  e  l'ore  estreme* 
Spogliar  di  lei  questa  vita  presente, 
Nostro  stato  dal  ciel  vede,  ode  e  sente: 
Altra  di  lei  non  é  rimaso  speme. 

* 


Rime.  241 

O  miracol  gentile  1  o  felice  almal 

O  beltà  senza  esempio'^  altera  e  rara, 
Che  tosto  è  ritornata  ond'ella  uscio! 

Ivi  ha*^  del  suo  ben  far  corona  e  palma 
Quella  ch'ai  mondo  sì  famosa  e  chiara 
Fé  la  sua  gran  virtute  '  e  '1  furor  mio. 
*  penser    ^  ob  getto    'inseme    *  extreme    ^  exempio   •'a    "vertute 

SONETTO  CCLV  (In  morte  XXVIII).  296 

"Confessa  d'essersi  doluto  del  suo  innamoramento,  ma  ora  se  ne  rallegra 
e  maledice  Morte  che  l'abbia  liberato. 

r  mi  soglio  accusare;  ed  or  mi  scuso^ 
Anzi  mi^  pregio,  e  tengo  assai  più  caro 
Dell'onesta  prigion,^  del  dolce  amaro 
Colpo  ch'i' portai  già  molt'anni  chiuso. 

Invide  Parche,  sì  repente  il  fuso 
Troncaste  ch'attorcea  soave  e  chiaro 
Stame  al  mio  laccio,  e  quell'  ^  aurato  e  raro 
Strale  onde  morte  piacque  oltra  nostr'^  uso! 

Che  non  fu  d'allegrezza  a  suoi  dì  mai. 
Di  libertà,   di  vita  alma  sì  vaga. 
Che  non  cangiasse  '1  suo  naturai  modo, 

Togliendo  anzi  per  lei  sempre  trar  guai, 
Che  cantar  per  qualunque;  e  di  tal  piaga 
Morir  contenta,  e  vtver-''  in  tal  nodo. 
'  me    2  pregìon     '  quello    *  nostro    ^  vivere 

SONETTO  CCLVI  (In  morte  XXIX).    297 

\arra   il  gran    danno   ricevuto   per  la  morte  di  Laura  e  promette,   se 
ha  vita,  di  celebrarla. 

Due  gran  nemiche  insieme^  erano  aggiunte,^ 
Bellezza  ed  Onestà,^  con  pace  tanta 
Che  mai  rebellion  l'anima  santa 
Non  sentì  poi  eh'  a  star  seco  fur  giunte. 

Ed  or  per  morte  son  sparse  e  disgiunte; 
L'una  è  nel  ciel,  che  se  ne  gloria  e  vanta; 
Bibl.  rom.   12il5.  16 


242  Petrarca. 

L'altra  sotterra,  eh'  e'  bogli  occhi  ammarila-* 
Ond'''  uscir  già  tante*'  amorose  punte. 

L'atto  soave,  e  '1  parlar  saggio  umile,' 

Che  movea  d'alto  loco,  e  '1  dolce  sguardo. 
Che  piagava '1*^  mio  core  (ancor  l'accenna).'^ 

Sono  spariti:  e  s' al  seguir  son  tardo. 
Forse  avverrà  ^^  che '1  bel  nome  gentile 
Consacrerò  ^^  con  questa  stanca  penna. 

1  inseme       ^  agiunte       '  honesta       ♦  amanta      ^  Onde      *  tant 
^  humile    ^  iì    ^  anchor  lacenna    i"  averra     ^^  Consecrero 

SONETTO  CCLVII  (In  morte  XXX).    298 

Nofa  la  infelicità  del  suo  stato  o  consideri  il  tempo  che  Laura  viveva 
o  il  tempo  dopo  la  sua  morte. 

Quand'io  mi  volgo  indietro  a  mirar  gli  anni 
C hanno,  fuggendo,  i  miei  pensieri^  sparsi, 
E  spento  '1  foco  ov'-  agghiacciando  i'''  arsi, 
E  finito  il  riposo  pien  d'affanni; 

Rotta  la  fé'  degli  amorosi  inganni  ; 
E  sol  due  parti  d'ogni  mio  ben  farsi, 
L'una  nel  cielo  e  l'altra  in  terra  starsi, 
E  perduto '1'*  guadagno  de' miei  danni; 

r  mi  riscuoto,  e  trovomi  sì  nudo 

Ch' i' porto  invidia  ad  ogni  estrema'^  sorte: 
Tal  cordoglio  e  paura  ho**  di  me  stesso 
O  mia  stella,  o  fortuna,  o  fato,  o  morte, 
O  per  me  sempre  dolce  giorno  e  crudo, 
Come  m'avete  in  basso  stato  messo! 
^  penseri    ^  ove    'io    *  il    ^  extrema    •  o 

SONETTO  CCLVIII  (In  morte  XXXI).    299 

Ricerca  le  più  nobili  parti  di  Laura  partitamente  ed  alla  fine  Laura  t 
non  la  trovando  grida  che  manca  assai  al  mondo  e  agli  occhi  suoi. 

Ov"  è  la  fronte  che  con  picciol  cenno 

Volgea  '1  ^  mio  core  in  questa  parte  e  'n    quella? 
Ov'è'l  bel  ciglio  e  l'una  e  l'altra  stella 
Ch'ai  corso  del  mio  viver  lume  denno? 


•in 


Rime.  243 

Ov'  è  M  valor,  la  conoscenza  e  '1  senno, 
L'accorta,  onesta,  umil,'^  dolce  favella? 
Ove  son  le  bellezze  accolte  in  ella. 
Che  gran  tempo  di  me  lor  voglia  fenno? 

Ov'è  l'ombra  gentil  del  viso  umano,^ 
Ch'ora  e  ripeso  dava  all'alma  stanca, 
E  là  've  i  miei  pensier  scritti  eran  tutti? 

Ov'  è  colei  che  mia  vita  ebbe  in  mano? 
Quanto  al  misero  mondo  e  quanto  manca 
Agli  occhi  miei,  che  mai  non  fieno  asciutti? 
*  il    »  honesta     umil     •  humano 

SONETTO  CCLIX  (In  morte  XXXII).  310 

Desidera  di  morire  per  poter  esser  con  Laura.  Dice  adunque  che  porta 
invidia  a' luoghi  dove  ella  è  ed  alle  persone  che  le  tengono  compagnia 
1  luoghi  sono  la  terra  ed  il  Cielo;  le  compagne  in  C  eh  sono  l anim 
beate,  in  terra  la  Morte,  alla  q  ale  attribuisce  persona. 
Quanta  invidia  io  ti  porto,  avara  terra. 
Ch'abbracci  quella  cui  veder  m'è  tolto, 
E  mi  contendi  l'aria  del  bel  volto, 
Dove  pace  trovai  d'ogni  mia  guerra! 
Quanta  ne  porto  al  ciel,  che  chiude  e  serra 
E  sì  cupidamente  ha^  in  se  raccolto 
Lo  spirto  dalle  belle  membra  sciolto, 
E  per  altrui  sì  rado  si  disserra l'^ 
Quanta  invidia  a  quell'anime  che'n  sorte 
Hann'  '  or  sua  santa  e  dolce  compagnia, 
La  qual  io  cercai  sempre  con  tal  brama! 
Quant'alla  dispietata  e  dura  Morte, 
Ch'avendo  spento  in  lei  la  vita  mia, 
Stassi  ne' suoi  begli  occhi  e  me  non  chiamai 
*  a    '  diserra    '  Anno 

SONETTO  CCLX  (In  morte  XXXIII).    301 

wede  Vakhiusa  che   i  suoi  occhi  riconoscono  quella  stessa,  ma  non 
il  suo  cuore 
Valle  che  de' lamenti  miei  se' piena. 

Fiume  che  spesso  del  mio  pianger  cresci. 


244  Petrarca, 

Fere  silvestre,^  vaghi  augelli,  e  pesci 
Che  l'una  e  l'altra  verde  riva  af frena; 
Aria  de' miei  sospir  calda  e  serena, 
Dolce  sentier  che  sì  amaro  riesci 
Colle  che  mi  piacesti,   or  mi  rincresci, 
Ov'ancor'^  per  usanza  Amor  mi  mena; 

Ben  riconosco  in  voi  l'usate  forme, 
Non.  lasso,  in  me,  che  da  sì  lieta  vita 
Son  fatto  albergo  d'infinita  doglia. 

Quinci  vedea'l  mio  bene;  e  per  q u est' '^  orme 
Torno  a  veder  ^  ond'  al  Ciel  nuda  è  gita, 
Lasciando  in  terra  la  sua  bella  spoglia. 

1  seivestre    ^  anchor    '  queste    *  vedere 

SONETTO  CCLXI  (In  morte  XXXIV).  302 

Visione  estatica.  Pareva  al  P.  d'essere  nel  terzo  cielo  e  di  vedere  Laura 
in  compagnia  delle  Beate  anime  di  Quella  sfera.  Presolo  per  mano  gli 
dice  che  dopo  morte  sarà  con  esso  lei  in  quel  luogo  e  che  ella  è  beata 
di  beatitudine  infinita,  se  non  che  le  monca  la  sua  compagnia  e  il  corpo 
di  lei.  Alla  fine  si  duole  che  la  visione  si  rompesse. 

Levommi  il  mio  pensieri  in  parte  ov'era 
Quella  eh'  io  cerco  e  non  ritrovo  in  terra: 
Ivi,  fra  lor  che  '1  terzo  cerchio  serra, 
La  rividi  più  bella  e  meno  altera. 

Per  man  mi  prese  e  disse:  in  questa  spera 
Sarai  ancor''^  meco,  se '1  desir  non  erra; 
l'son-*  colei  che  ti  die' tanta  guerra, 
E  compie'  mia  giornata  innanzi'^  sera. 

Mio  ben  non  cape  in  intelletto  umano  :^ 
Te  solo  aspetto,  e,  quel  che  tanto  amasti, 
E  laggiuso^  è  rimase,  il  mio  bel  velo. 

Deh'^  perchè  tacque  ed  allargò  la  mano? 
Ch'ai  suon  de'  detti  sì  pietosi  e  casti 
Poco  mancò  ch'io  non  rimasi  in  cielo. 

'  pensar     ^  anchor     'so    *  inangi     '  humano    '  la  giuso     '  De 


Rime.  245 

SONETTO  CCLXII  (In  morte  XXXV).  303 

Sfoga  il  suo  dolore  con  tutti  gif  antichi  testimoni  della  sua  passata 

fel'ciià. 

Amor,  che  meco  al  buon  tempo  ti  stavi 
Fra  queste  rive  a'pensier  nostri  amiche, 
E  per  saldar  le  ragion  nostre  antiche, 
Meco  e  col  fiume  ragionando  andavi; 

Fior,  frondi,  erbe,^  ombre,  antri,  onde,  aure  soavi. 
Valli  chiuse,  alti  colli  e  piagge'^  apriche. 
Porto  dell'amorose  mie  fatiche, 
Delle  fortune  mie  tante  e  sì  gravi; 

0  vaghi  abitatore  de' verdi  boschi, 

O  ninfe,^  e  voi  che '1  fresco  erboso"*  fondo 
Del  liquido  cristallo  alberga  e  pasce; 

1  dì  miei  fur  sì  chiari,  or  son  sì  foschi 
Come  morte,  che  '1  fa.  Così  nel  mondo 
Sua  ventura  ha  ciascun^  dal  dì  che  nasce. 

1  herbe    *  piaggie    '  habitator   *  nimphe    ^  herboso    ^  a  ciaschun 

SONETTO  CCLXIII  (In  morte  XXXVI).  304 

S'ella  non  fosse  morta  sì  giovane,   egli  avrìa  cantato  più  degnamente 
le  lodi  di  lei. 

Mentre  che  '1  cor  dagli  amorosi  vermi 
Fu  consumato,  e'n  fiamma  amorosa  arse, 
Di  vaga  fera  le  vestigia  sparse 
Cercai  per  poggi  solitari^  ed  ermi;^ 

Ed  ebbi  ardir,  cantando,  di  dolermi 
D'Amor,  di  lei,  che  sì  dura  m'apparse. 
Ma  l'ingegno  e  le  rime  erano  scarse 
1  In  quella  etate  a'*^  pensier  novi  e'nfermi. 

Quel  foco  è  morto,  e'I  copre  un  picciol  marmo: 
Che  se  col  tempo  fosse ^  ito  avanzando. 
Come  già  in  altri,  infino  alla  vecchiezza. 

Di  rime  armato,  ond'oggi  mi  disarmo, 
Con  stil  canuto  avrei  fatto,  parlando. 
Romper  le  pietre  e  pianger  di  dolcezza. 
*  solitarij    *  hermi    'ai    *  fossi 


246  Prtrarca, 

SONETTO  CCLXIV  (In  morte  XXXVII).  305 

La  prega  che  almen  di  lassù  gli  rivolga  tranquillo  e  pietoso  lo  sguardo. 

Anima  bella,  da  quel  nodo  sciolta 

Che  più  bel  mai  non  seppe  ordir  Natura, 
Pon  dal  ciel  mente  alla  mia  vita  oscura, 
Da  sì  lieti  pensieri  a  pianger  volta. 

La  falsa  opinion  dal  cor  s'è  tolta 

Che  mi  fece  alcun  tempo  acerba  e  dura 

Tua  dolce  vista:  omai  tutta  seci  ra 

Volgi  a  me  gli  occhi,  e  i  miei  sospiri  ascolta. 

Mira  '1  gran  sasso  donde  Sorga  nasce, 

E  vedravi  un  che  sol  tra  l'erbe  e  l'acque 
Di  tua  memoria  e  di  dolor  si  pasce. 
Ove  giace '1^  tuo  albergo  e  dove  nacque 
Il  nostro  amor,  vo'  ch'abbandoni  e  lasce. 
Per  non  veder  ne'  tuoi  quel  eh' a  te  spiacque- 
»  il 

SONETTO  CCLXV  (In  morte  XXXVIII).  306 

Morta  Laura  non  ha  al  mondo  persona  che  altri  si  possa  proporre  per 

esempio  di  santa  vita,  onde  il  P.  ripete  con  la  memoria  Fazioni  di  lei 

piene  di  buon  esempio. 

Quel  Sol  che  mi  mostrava  il  cammin  destro 
Di  gire  al  ciel  con  gloriosi  passi. 
Tornando  al  sommo  sole,  in  pochi  sassi 
Chiuse '1  mio  lume  e'I  suo  career  terrestre; 

Ond'io  son  fatto  un  animai  silvestre, 
Che  co' pie  vaghi,  solitari^  e  lassi 
Porto  '1  cor  grave,  e  gli  occhi  umidi*  e  bassi 
Al  mondo,  eh' è  per  me  un  deserto  alpestre. 

Così  vo  ricercando  ogni  contrada 
Ov'io  la  vidi;  e  sol  tu  che  m'affligi, 
Amor,  vien  meco,  e  mostrimi  ond'io  vada. 

Lei  non  trov'io;  ma  suoi  santi  vestigi, 
Tutti  rivolti  alla  superna  strada. 
Veggio,  lunge  da' laghi  averni  e  stigi. 
*  solitarij     "  humidi 


Rime.  247 

SONETTO  CCLXVI  (In  morte  XXXIX).  307 

Al  Petrarca  dava  il  cuore  di  cantar  le  bellezze  del  corpo  di  Laura,  ma 

venuto   alla   prova   s'è   trovato   ingannato;   che  troppe  erano  in   lei  le 

bellezze  naturali  ed  artificiali. 

lo^  pensava  assai  destro  esser  su  l'ale, 
Non  per  lor  forza  ma  di  chi  le  spiega, 
Per  gir  cantando  a  quel  bel  nodo  eguale 
Onde  Morte  m'assolve,  Amor  mi  lega. 

Trovaimi  all'opra  via  più  lento  e  frale 
D'un  picciol  ramo  cui  gran  fascio  piega; 
E  dissi:  a  cader  va  chi  troppo  sale; 
Ne  si  fa  ben  per  uom^  quel  che '1  Ciel  nega. 

Mai  non  poria  volar  penna  d'ingegno. 
Non  che  stil  grave  o  lingua,  ove  Natura 
Volò  tessendo  il  mio  dolce  ritegno. 

Seguilla  Amor  con  sì  mirabil  cura 
In  adornarlo,  eh' i' non  era  degno 
Pur  della  vista:  ma  fu  mia  ventura. 

1  I     2  huom 

SONETTO  CCLXVII  (In  morte  XL).     308 

Messosi  a  celebrar  Laura  e  a  presentarla  agli  avvenire  perchè  la  onoras- 
sero, gli  era  venuto  fatto  di  celebrare  oscuramente  alcune  delle  sue  virtù; 
ma  volendo  celebrare  le  virtù  più  eccellenti  delPanimo,  è  restato  confuso. 

Quella  per  cui  con  Sorga  ho  cangiat'^  Arno, 
Con  franca  povertà  serve  ricchezze; 
Volse  in  amaro  sue  sante  dolcezze,- 
Ond'io  già  vissi,  or  me  ne  struggo  e  scarno. 

Da  poi  più  volte  ho^  riprovato  indarno 
Al  secol  che  verrà,  l'alte  bellezze^ 
Pinger  cantando,  acciocché^  l'ame  e  prezze;*» 
Né  col  mio  stile  il  suo  bel  viso  incarno. 

Le  lode  mai  non  d'altra,  e  proprie  sue, 
Che'n  lei  fur,  come  stelle  in  cielo,  sparte. 
Pur  ardisco  orabreggiar'  or  una  or  due; 


248  Petrarca. 

Ma  poi  eh'  i'  giungo  alla  divina  parte, 
Ch'  un  chiaro  e  breve  sole  al  mondo  fue, 
Ivi  manca  l'ardir,  l'ingegno  e  l'arte. 

1  0  cangiato      ^  dolcege      ^  o     *  bellege      ^  a  ciò   che      *"  prege 
'  ombreggiare 

SONETTO  CCLXVIII  (In  morte  XLI).  399 

Laura  è  un  miracolo;  e   però  gli  è  impossìbile  descriverne  l'eccellenze. 

L'alto  e  novo  miracol  eh'  a'  dì  nostri 
Apparve  al  mondo,  e  star  seco  non  volse. 
Che  sol  ne  mostrò  '1  Ciel,  poi  sei  ritolse 
Per  adornarne  i  suoi  stellanti  chiostri; 

Vuol  eh' i' dipinga^  a  chi  noi  vide,  e '1  mostri. 
Amor,  che  'n  prima  la  mia  lingua  sciolse. 
Poi  mille  volte  indarno  all'opra  volse 
Ingegno,  tempo,  penne,  earte  e  'nchiostri. 

Non  sono-  al  sommo  ancor ^  giunte  le  rime: 
In  me'l*  conosco;  e  provai  ben  chiunque 
È  infin'^  a  qui,  che  d'amor  parli  o  scriva. 

Chi  sa  pensare  il  ver,  tacito  estime 

Ch'ogni  stil  vince,  e  poi  sospire:  adunque 
Beati  gli  occhi  che  la  vider  vivai 
1  depinga     -  son    ^  anchor    *  il    '  Enfia 

SONETTO  CCLXIX  (In  morte  XLII).     310 

Dice  che  tornando  il  tempo   di  primavera,  ogni  cosa  mostra  allegrezza 

ed  amore;  ma  egli,   per  la  memoria  rinnovellata  della  morte  di  Laura, 

sente  noia  e  dolore,  e  ogni  cosa  gli  pare  piena  di  mestizia. 

Zefiro^  torna,  e '1  bel  tempo  rimena, 
E  i  fiori  e  l'erbe,  sua  dolce  famiglia, 
E  garrir  Progne  e  pianger  Filomena,''' 
E  primavera  candida  e  vermiglia. 

Ridono  i  prati,  e '1  ciel  si  rasserena; 
Giove  s'allegra  di  mirar  sua  figlia; 
L'aria  e  l'acqua  e  la  terra  è  d'amor  piena: 
Ogni  animai  d'amar  ai  riconsiglia.. 


Rime.  249 

Ma  per  me,  lasso,  tornano  i  più  gravi 
Sospiri,  che  daP  cor  profondo  tragge 
Quella  ch'ai  Ciel  se  ne  portò  le  chiavi; 

E  cantare^  augelletti,  e  fiorir  piagge, 
E  'n  belle  donne  oneste^  atti  soavi. 
Sono  un  deserto,  e  fere  aspre  e  selvagge. 
^  Cephiro    ^  philomena    ^  del    *  cantar    ^  honeste 

SONETTO  CCLXX  (In  morte  XLIII).     311 

Per  lo  canto  del  rosignuolo  torna  a  mente  al  P.  la  sua  dura  sorte,   la 

quale  mostra  bene  esser  dura,   poiché  gli  è  sopravvenuta  senza  averla 

pur  potuta  antivedere,    e  per  la  quale  può  comprendere  che  in  questo 

mondo  non  è  cosa  piacente  che  duri. 

Quel  rosignuoP  che  sì  soave  piagne 
Forse  suoi  figli  o  sua  cara  consorte. 
Di  dolcezza  empie  il  cielo  e  le  campagne 
Con  tante  note  sì  pietose  e  scorte; 

E  tutta  notte  par  che  m'accompagne 
E  mi  rammento  la  mia  dura  sorte; 
Ch'altri  che  me  non  ho^  di  cui  mi  lagne; 
Che'n  Dee  non  credev'io  regnasse  Morte. 

O  che  lieve  è  ingannar"  chi  s'assecural 

Que'  duo  bei  lumi,  assai  più  che  '1  Sol  chiari, 
Chi  pensò  mai  veder  far  terra  oscura? 

Or  conosch'"*  io  che  mia  fera  ventura 
Vuol  che  vivendo  e  lagrimando  impari 
Come  nulla  quaggiù  diletta  e  dura. 
'  rosigniuol    ^  o    ^  inganar    *  cognosco 

SONETTO  CCLXXI  (In  morte  XLIV).    312 

Né  per  cosa  che  piaccia  agli  occhi,  né  per  cosa  che  piaccia  agli  oreccki 

è  mai  per  rallegrarsi,  anzi  la  vita  non  gli  giova  e  torrette  di  perderla 

per  riveder  Laura. 

Né  per  sereno  ciel  ir  vaghe  stelle. 
Né  per  tranquillo  mar  legni  spalmati. 
Né  per  campagne  cavalieri  armati, 
Né  pei  bei  boschi  allegre  fere  e  snelle^, 


250  Petrarca. 

Né  d'aspettato  ben  fresche  novelle. 
Né  dir  d'amore  in  stili  alti  ed   ornati, 
Né  tra  chiare  fontane  e  verdi  prati 
Dolce  cantare  oneste^  donne  e  belle; 

Né  altro  sarà  mai  ch'ai  cor  m'aggiunga; 
Sì  seco  il  seppe  quella  seppellire^ 
Che  sola  agli  occhi  miei  fu  lume  e  speglio. 

Noia  m'é  il^  viver  sì  gravosa  e  lunga, 
Ch' i' chiamo 'H  fine  per  lo  gran  desire 
Di  riveder  cui  non  veder  fu  '1  meglio. 
1  honeste    ^  sepellire    *  1    ♦il 

SONETTO  CCLXXII  (In  morte  XLV).     313 

Morta  Laura  e  montata  in  cielo,   desidera  di  morire  per  esser  con  lei 
con  l'anima,  dove  è  sempre  col  cuore. 

Passato  é'I  tempo  omai,  lasso,  che  tanto 
Con  refrigerio  in  mezzo '1  foco  vissi; 
Passato  é  quella  di  eh'  io  piansi  e  scrissi, 

'    Ma  lasciato  m'ha*  ben  la  penna  e '1  pianto. 

Passato  é  '1  viso  sì  leggiadro  e  santo, 

Ma,  passando,  i  dolci  occhi  al  cor  m'ha*  fissi, 
Al  cor  già  mio,  che  seguendo  partissi, 
Lei,  ch'avvolto^  l'avea  nel  suo  bel  manto. 

Ella'l  se  ne  portò  sotterra  e  'n  cielo, 

Ov'*  or  trionfa^  ornata  dell'alloro 

Che  meritò  la  sua  invitta  onestate.^ 
Così,  disciolto  dal  mortai  mio  velo, 

Ch'a  forza  mi  tien  qui,  foss'io  con  loro, 

Fuor  de'sospir,  fra  l'anime  beate! 
^  ma    2  avolto    '  Ove    *  triumpha    *  invida  honestate 

SONETTO  CCLXXIII  (In  morte  XLVI).  314 

Si  duole  prima  d'aver  potuto  pienamente  antivedere  il  fine  de'  suoi  pia- 

ceri  e  non  /'  avere  antiveduto,  quando  si  partì  da  Laura;  poi  commendo 

quel  piacere  ultimo. 

Mente  mia,  che  presaga  de'  tuoi  danni.* 
Al   tempo  lieto  già  pensosa  e  trista, 


Rime.  251 

Si  Intentamente^  nell'amata  vista 
Requie  cercavi  de'  futuri  affanni; 
Agli  atti,  alle  parole,  al  viso,  ai  panni, 
Alla  nova  pietà  con  dolor  mista, 
Potei  ben  dir  se  del  tutto  eri  avvista:^ 
Quest'^è  l'ultimo  dì  de' miei  dolci  anni. 

Qual  dolcezza  fu  quella,  o  miser'^alma! 
Come  ardevamo^  in  quel  punto  eh' i' vidi 
Gli  occhi  i  quai  non  devea  riveder  mail 

Quando  a  lor,  come  a  duo  amici  più  fidi, 
Partendo,  in  guardia  la  più  nobil  salma, 
I  miei  cari  pensieri  '  e  '1  cor  lasciai. 

1  damni    *  Sintentamente    '  avista    *  Questo    ^  misera   •  arda- 
ramo     '  pensar  i 

SONETTO  CCLXXIV  (In  morte  XLVII).  315 

>/■  duole  che  per  la  morte  di  Laura  abbia  perduta  una  futura  gran  ven- 
ura.  Il  P.  quando  morì  Laura,  si  trovava  aver  passato  il  quarante- 
imo  anno,  per  la  qual  cosa  Laura  secura  ornai  d'esser  amata  onesta- 
nenie,  dimesticamente  e  festevolmente  cominciava  ad  usar  col  P.,  il  che 
gli  riputava  somma  felicità,  della  quale,  per  la  morte  di  lei,  rimaneva 

privato. 

Tutta  la  mia  fiorita  e  verde  etade 
Passava;  e 'ntepidir  sentia  già '1  foco 
Ch' arse '1  mio  cor;^  ed  era  giunto  al  loco 
Ove  scende  la  vita,  eh'  alfin  cade. 

Già  incominciava'^  a  prender  securtade 
La  mia  cara  nemica  a  poco  a  poco 
De'  suoi  sospetti,  e  rivolgeva  in  gioco 
Mie  pene  acerbe  sua  dolce  onestade.' 

Presso  era'l  tempo  dov'*  Amor  si  scontra 
Con  Castitate,  ed  agli  amanti  è  dato 
Sedersi  insieme^  e  dir  che  lor  incontra. 

Morte  ebbe  invidia  al  mio  felice  stato. 
Anzi  alla  speme;  e  feglisi  all'  incontra 
A  mezza  via,  come  nemico  armato. 

*  core    ■  incommlndava    *  honestade    *  dove    '  inaeme 


252  Petrarca. 

SONETTO  CCLXXV  (In  morte  XLVIII).  316 

Si  duole  per  la  morte  di  Laura  avere  perduta  felicità,  alla  quale  fosse 

già  vicino. 

Tempo  era  ornai  da  trovar  pace  o  tregua^ 
Di  tanta  guerra,  ed  erane  in  via  forse; 
Se  non  eh'  e'  lieti  passi  indietro  torse 
Chi  le  disagguaglianze-  nostre  adegua. 

Che,  come  nebbia  al  vento  si  dilegua, 
Così  sua  vita  subito  trascorse 
Quella  che  già  co'  begli  occhi  mi  scorse, 
Ed  or  conven  che  col  penser  la  segua. 

Poco  aveva ^  a  'ndugiar,  che  gli  anni  e  '1  pelo 
Cangiavano  i  costumi;  onde  sospetto 
Non  fora  il  ragionar  del  mio  mal  seco. 

Con  che  onesti'^  sospiri  l'avrei  detto 
Le  mie  lunghe  fatiche,  eh'  or  dal  cielo 
Vede,  son  certo,  e  ducisene  ancor-'  meco! 

1  triegua    ^  disaguagliange    ^  avev    *  honesti    ^  anchor 

SONETTO  CCLXXVI  (In  morte  XLIX).  317 

Seguita  pure  il  P.  a  dolersi  ch'allora  ch'egli  credeva  di  poter  aver  qual- 
che requie  e  riposo  dell'  amorose  sue  fatiche  e  sema  alcun  sospetto  poter 
alla  sua  donna  narrar  gli  affanni  per  lei  sofferti,   empiamente  Morte 
l'avesse  spogliato  di  tanta  speranza. 

Tranquillo  porto  avea  mostrato  Amore 
Alla  mia  lunga  e  torbida  tempesta 
Fra  gli  anni  dell' ^  età  matura  onesta,^ 
Che  i  vizii^  spoglia,  e  vertù  veste  e  onore.^ 

Già  traluceva  a'  begli  occhi  'P  mio  core, 
E  l'alta  fede  non  più  lor  molesta. 
Ahi,^  Morte  ria,  come  a  schiantar  se'  presta 
Il  frutto  di'  molt'anni  in  si  poche  crei® 

Pur  vivendo  veniasi  ove  deposto 

In  quelle  caste  orecchie  avrei,  parlando. 
De*  miei  dolci  pensier  l'antica '^  soma; 


Rime,  '  253 

Ed  ella  avrebbe  a  me  forse  risposto*^ 
Qualche  santa  parola,  sospirando, 
Cangiati  i  volti  e  l'una  e  l'altra  coma. 

1  de  la     2  honesta     ^  yjcij     4  honore     ^  il     ^  Ai     'de     ®  bore 
*  antiqua     '<>  resposto 

SONETTO  CCLXXVII  (In  morte  L).     318 

Dimostra  allegoricamente  che  in  lui  non  è  punto  diminuito  l'amore  per 
la  morte  di  Laura. 

Al  cader  d'una  pianta  che  si  svelse 
Come  quella  che  ferro  o  vento  sterpe, 
Spargendo  a  terra  le  sue  spoglie  eccelse,^ 
Mostrando  al  Sol  la  sua  squallida^  sterpe; 

Vidi  un'altra  ch'Amor  obbietto'^  scelse, 
SubbiettC*  in  me  Calliope  ed  Euterpe; 
Che  '1  cor  m'avvinse'^  e  proprio  albergo  felse, 
Qual  per  tronco^  o  per  muro  edera'  serpe. 

Quel  vivo  Lauro,  ove  solean  far  nido 

Gli^  alti  pensieri®  e  i  miei  sospiri  ardenti, 
Che  de'  bei  rami  mai  non  mossen  fronda; 

Al  ciel  traslato,^^  in  quel  suo  albergo  fido 
Lasciò  radici,  onde  con  gravi  accenti 
È  ancor '^   chi  chiami,  e  non  è  chi  risponda.^^ 

^  excelse    2  squalida    '  obiecto    *  Subiecto    ^  mavinse    ®  trunco 
'  hedera    ^  lA    *  penseri     i"  translato    ^^  anchor     12  resp..nda 

SONETTO  CCLXXVIII  (In  morte  LI).    *319 

Si  duole  d'aver  posta  speranza  in  cosa  di  questo  mondo,  per  la  brevità 
della  quale  ammonito,  ora  l'ha  posta  in  cosa  sempiterna.  Aveva  posto 
la  sua  speranza  nelFamor  di  Laura  viva,  or  l'ha  posta  nell'amor  di 
Laura  deificata. 

I  dì  mìei  più  leggier  che  nessun^  cervo, 
Fuggir  com"^  ombra;  e  non  vider  più  bene 
Ch'un  batter  d'occhio  e  poche  ore"  serene, 
Ch'amare  e  dolci  nella  mente  servo. 

Misero  mondo,  instabile  e  protervo! 

Del  tutto  è  cieco  chi  'n  te  pon  sua  spene: 


254  Petrarca. 

Che 'n  te  mi  fu '1  cor  tolto;  ed  or  sei  tene 
Tal  eh'  è  già  terra  e  non  giunge  osso  a  nervo. 

Ma  la  forma  miglior,  che  vive  ancora'* 

E  vivrà  sempre  su  nell'alto  cielo. 

Di  sue  bellezze  ogni  or  più  m'  innamora; 
E  vo,  sol  in  pensar,  cangiando  'l'^  pelo,  | 

Qual  ella  è  oggi  e 'n  qual  parte  dimora; 

Qual  a  veder **  il  suo  leggiadro  velo. 

*  nesun    *  come    '  bore    *  anchora    ^  il    •  vedere 

SONETTO  CCLXXIX  (In  morte  LII).   *320 

Rivede  il  luogo  dove  s'era  allevata  e  cresciuta  Laura  e  ricordatosi  che 
aveva  desiderato  e  sperato  di  vivere  e  di  morire  in  questo  luogo  e  d'es' 
servi  seppellito,  acciocché  la  sepoltura  sua  fosse  calcata  almeno  da' piedi 
suoi,  si  duole  che  la  speranza  torni  fallace  essendo  rrorta  Laura,  e  ap- 
presso si  duole  d^ Amore  che  in  vita  di  Laura  non  l'abbia  mai  se  nor 
tormentato  e  in  morte  ancora  lo  tormenti  senza  poterne  sperare  gwder- 

done  alcuno. 

Sento  l'aura^  mia  antica,^  e  i  dolci  colli 
Veggio  apparir^  onde '1  bel  lume  nacque 
Che  tenne  gli  occhi  miei^  mentr'  al  Ciel  piacque 
Bramosi  e  lieti,  or  li  tien'*  tristi  e  molli. 

O  caduche  speranze  1  o  pensier®  folli! 
Vedove  l'erbe,  e  torbide  son  l'acque, 
E  voto  e  freddo  '1  nido  in  ch'ella  giacque, 
Nel  qual  io  vivo,  e  morto  giacer  volli, 

Sperando  al  fin  delle'  soavi  piante 

E  da' begli®  occhi  suoi,  che '1  cor  m*hann'®arso 

Riposo  alcun  dalle  ^"  fatiche  tante. 
Ho^^  servito  a  signor  crudele  e  scarso; 

Ch'  arsi  quanto  '1  mio  foco  ebbi  davante, 

Or  vo  piangendo  il  suo  cenere  sparso. 

*  Laura     *  anticha     »  apparire     *  mei     '  ten     «  penser     '  dale 
*belli    »  mann    "  dale    "  O 

SONETTO  CCLXXX  (In  morte  LUI).     ♦321 
La  vista  della  casa  di  Laura  gli  ricorda  quant'  ei  fu  felice  e  quanto  i 

misero. 
È  questo  '1  nido  in  che  la  mia  fenice 
Mise  l'aurate  e  le  purpuree  penne; 


R?m#'.  255 

Che  sotto  le  sue  ali  il  mio  cor  unno. 
E  parole  e  sospiri  anco*  ne  elice*? 
O  del  dolce  mio  mal  prima  radice. 

Ov'è'l-  bel  viso  onde  quel  lume  venne, 
Che  vivo  e  lieto,  ardendo,  mi  mantenne? 
Sola^  eri  in  terra:  or  se'  nel  Ciel  felice. 

E  m'  hai*  lasciato  qui   misero  e  solo. 

Tal  che  pien  di  duol  sempre  al  loco  torno 
Che  per  te  consecrato  onoro'*  e  colo; 

Veggendo  a'  colli  oscura  notte  intorno. 
Onde  prendesti  al  Ciel  l'ultimo  volo, 
E  dove  gli"  occhi  tuoi  solean  far  giorno. 
^  ancho    'il    '  Sol     *  mai     »  honoro     •  li 

SONETTO  CCLXXXI  (Var.  arg.  XX).  ♦322 

Ringrazia  Giacomo  Colonna  de'  suoi  sentimenti  affettuosi  verso  di  lui. 

Mai  non  vedranno  le  mie  luci  asciutte 

Con  le  parti  dell'animo   tranquille 

Quelle  note,  ov'  Amor  par  che  sfaville. 

E  Pietà  di  sua  man  l'abbia  construtte: 
Spirto  già  invitto*  alle  terrene  lutte. 

Ch'  or  su  dal  Ciel  tanta  dolcezza  stille. 

Ch*  allo  stil  onde  Morte  dipartille, 

Le  disviate  rime  hai''  ricondutte; 

Di  mie  tenere  frondi  altro  lavoro 

Credea  mostrarte.   E  qual  fero  pianeta 
Ne  'nvidiò  insieme?^  o  mio  nobil  tesoro, 

Chi  'nnanzi  tempo  mi  t'asconde  e  vieta? 

Che  col  cor  veggio,  e  con*  la  lingua  onoro,* 
E  'n  te,  dolce  sospir,  l'alma  s'acqueta. 
'  Invicto    "ai    •  inseme    *  co    '  honoro 

CANZONE  XXIV  (In  morte  III).       *323 

Allegoricamente  descrive  le  virtù  di  lei  e  ne  piange  la  morte  immatura. 

Standomi  un  giorno,  solo,  alla  fenestra. 
Onde  cose  vedea  tante  e  si  novo 


2S6  Petrarca. 

Ch'era  sol  di  mirar  quasi  già  stanco,* 
Una  fera  m'apparve  da  man  destra 
Con  fronte  umana  ^  da  far  arder  Giove 
Cacciata  da  duo  veltri,  un  nero,  un  bianco,'' 
Che  l'uno*  e  l'altro  fianco^ 
Della  fera  gentil  mordean  sì  forte, 
Che'n  poco  tempo  la  menare  al  passo 
Ove  chiusa  in  un  sasso 
Vinse  molta  bellezza  acerba  morte, 
E  mi  fé  sospirar  sua  dura  sorte. 
'  stanche    ^  humana    3  bianche    *  lun    ^  fiancho 

Indi  per  alto  mar  vidi  una  nave 
Con  le  sarte  di  seta  e  d'or  la  vela, 
Tutta  d'avorio  e  d'ebeno  contesta; 
E  '1  mar  tranquillo  e  l'aura  era  soave, 
E  '1  ciel  qual  è  se  nulla  nube  il  vela; 
Ella  carca  di  ricca  merce  onesta.^ 
Poi  repente  tempesta 
Orientai  turbò  sì  l'aere  e  l'onde, 
Che  la  nave  percosse  ad  uno  scoglio. 
O  che  grave  cordoglio! 

Breve  ora'^  oppresse  e  poco  spazio^  asconde 
L'alte  ricchezze  a  nuU'altre*  seconde 
1  honesta    ^  hora    ^  spatio    *  nulaltre 

In  un  boschetto  novo  i  rami  santi 
Fiorian  d'  un  lauro  giovinetto  e  schietto, 
Ch'  un  degli ^  arbor  parca  di  paradiso; 
E  di  sua  ombra  uscian  sì  dolci  canti 
Di  vari  augelli,  e  tanto ^  altro  diletto, 
Che  dal  mondo  m'avean  tutto  diviso. 
E  mirandol  io  fiso, 

Cangioss'  il  cieP  intorno,  e  tinto  in  vista. 
Folgorando  'l  percosse,  e  da  radice 
Quella  pianta  felice 
Subito  svelse:  onde  mia  vita  è  trista, 
Che  simil*  ombra  mai  non  si  racquista, 
*  delli    2  tant    ^  cielo    *  simile 


Rìmff.  257 

Chiara  fontana  in  quel  medesmo  bosco 

Sorgea  d'un  sasso,  ed  acque  fresche  e  dolci 
Spargea,  soavemente  mormorando: 
Al  bel  seggio  riposto,  ombroso  e  fosco 
Ne  pastori  appressavan  né  bifolci, 
Ma  ninfe ^  e  muse,  a  quel  tenor  cantando.  6 

Ivi  m'assisi;  e  quando 
Più  dolcezza  prendea  di  tal  concento 
E  di  tal  vista,  aprir  vidi  uno  speco, 
E  portarsene  seco 

La  fonte  e '1  loco:  ond'ancor^  dogHa  sento, 
E  sol  della  memoria  mi  sgomento. 
^  nimphe    ^  anchor 

Una  strania  fenice,  ambedue  l'ale 
Di  porpora  vestita  e  '1  capo  d'oro, 
Vedendo  per  la  selva,  altera  e  sola, 
Veder  forma  celeste  ed  immortale 
Prima  pensai,  fin  ch'alio  svelto  alloro 
Giunse,  ed  al  fonte  che  la  terra  invola.  6 

Ogni  cosa  alfin  vola: 
Che  mirando  le  frondi  a  terra  sparse 
E'I  troncon  rotto,  e  quel  vivo  umor^  secco, 
Volse  in  se  stessa  il  becco 
Quasi  sdegnando;  e 'n  un  punto  disparse: 
Onde  '1  cor  di  piotate  e  d'amor  m'arse. 
1  humor 

Al  fin  vid'  io  per  entro  i  fiori  e  l'erba 
Pensosa  ir  sì  leggiadra  e  bella  donna. 
Che  mai  noi  penso  eh'  i'  non  arda  e  freme  ; 
Umile^  in  se.  ma 'ncontr'^  Amor  superba; 
Ed  avea  in  dosso  sì  candida  gonna. 
Sì  testa, ^  ch'oro  e  neve  parca  insieme:*  6 

Ma  le  parti  supreme 
Erano  avvolte-^  d'una  nebbia  oscura. 
Punta  poi  nel  tallon  d'un  picciol  angue, 
Bibl.  rom.  12/15.  17 


258  Petrarca. 

Come  fior  collo  langue, 

Lieta  si  dipartio,  non  che  secura. 

Ahi  nuli'®  altro  che  pianto  al  mondo  dura! 

*  Humjle    2  mancontra    '  texta    *  inseme     ^  Eran  avolte     *  Ai 
nulla 

Canzon,  tu  puoi  ben  dire: 

Queste  sei  visioni  al  signor  mio 
Han^  fatto  un  dolce  di  morir  desio. 

1  An 

BALLATA  VII  (In  morte  I).  *324 

Tocca  del  dolore  che  sente  per  la  morie  di  Laura  e  per  lo  suo  soprav- 
vivere e  si  consola  che  Laura  lo  sappia. 

Amor,  quando  fioria 

Mia  spene  e  '1  guiderdon  d'ogni  mia  ^  fede, 
Tolta  m'è  quella  ond'attendea  mercede. 

Ahi^  dispietata  morte  1  ahi^  crude!  vital 
L'una  m'  ha^  posto  in  doglia, 
E  mie  speranze  acerbamente  ha'  spente: 
L'altra  mi  ten  quaggiù  centra  mia  voglia, 
E  lei  che  se  n'  è  gita. 
Seguir  non  posso,  ch'ella  noi  consente: 
Ma  pur  ogni  or  presente 
Nel  mezzo  del  mio*  cor  Madonna  siede, 
E  qual  è  la  mia  vita  ella  sei  vede. 
1  guidardon  ditanta    ^  k\    'a    *  meo 

CANZONE  XXV  (In  morte  IV).       *325 

Propone  di  voler  lodar  Laura  e  teme  di  non  poterlo  fare  se  non  è 
aiutato  da  Amore. 

Tacer  non  posso,  e  temo  non  adopre 
Contrario  effetto^  la  mia  lingua  al  core, 
Che  vorria  far  onore  ^ 
Alla  sua  donna  che  dal  Ciel  n'ascolta. 
Come  poss'  io  se  non  m'insegni,  Amore, 
Con  parole  mortali  agguagliar*^  l'opre 


Rim».  269 

Divine,  e  quel  che  copre 

Alta  umiltate*  in  se  stessa  raccolta? 

Nella  bella  prigione,  ond'^  or  è  sciolta, 

Poco  era  stata  ancor*  l'alma  gentile 

Al  tempo  che  di  lei  prima  m'accorsi; 

Onde  subito  corsi 

(Ch'era  dell'anno  e  di  mia  etate'  aprile) 

A  coglier  fiori  in  quei  prati  d' intorno 

Sperando  agli*  occhi  suoi  piacer  sì  adorno.^ 

1  effecto     2  honore     ^  aguagliar     *  humiltate     '•  pregione  onde 
anchor    '  dimiaetate    *  ali    »  addome 

Muri  eran  d'alabastro  e  tetto  d'oro, 
D'avorio  uscio,  e  fenestre  di  zaffiro. 
Onde  '1  primo  sospiro 
Mi  giunse  al  cor,  e  giugnerà  l'estremo.^ 
Indi'^  i  messi  d'Amor  armati  uscirò 
Di  saette  e  di  foco:  ond'  io  di  loro,  6 

Coronati  d'alloro. 

Pur  com'or  fosse,'  ripensando  tremo. 
D'un  bel  diamante  quadro  e  mai  non  scemo 
Vi  si  vedea  nel  mezzo  un  seggio  altero, 
Ove  sola  sedea  la  bella  donna. 
Dinanzi  una  colonna 
Cristallina,  ed  iv'entro  ogni  penserò 
Scritto,  e  fuor^  tralucea  sì  chiaramente, 
Che  mi  fea  lieto  e  sospirar  sovente. 
*  lextremo    '  Inde    '  come  or  fusse    *  for 

Alle  pungenti,  ardenti  e  lucid'^  arme 
Alla  vittoriosa^  insegna  verde, 
Centra  cu''^  in  campo  perde 
Giove  ed  Apollo  e  Polifemo*  e  Marte 
Ov'  è  '1  pianto  ognor  ^  fresco  e  si  rinverde, 
Giunto  mi  vidi:  e  non  possendo  aitarme  6 

Preso  lasciai*  menarme 
Ond'or  non  so  d'uscir  la  via  ne  l'arte. 
Ma  siccom'uom  talor  che  piange,  e  parte 


260  Petrarca. 

Vede  cosa  che  gli'  occhi  e'I  cor  alletta, 
Così  colei  perch'  io  son  in  prigione,^ 
Standosi  ad  un  balcone, 
Che  fu  sola  a'  suoi  dì  cosa  perfetta, 
Cominciai  a  mirar  con  tal  desio, 
Che  me  stesso  e'I  mio  mal  posi  in  obblio.^ 
1  lucide    2  victoriosa    »  cui    *  poliphema    ^  ognior    «  lassai     '  li 
*  pregione    ^  oblio 

r  era  in  terra,  e  '1  cor  in  paradiso. 

Dolcemente  obbliando^  ogni  altra  cura; 

E  mia  viva  figura 

Far  sentia  un  marmo  e 'mpier  di  maraviglia; 

Quand'-*^  una  donna  assai  pronta  e  secura, 

Di  tempo  antica*  e  giovene  del  viso,  6 

Vedendomi  sì  fiso 

All'atto  della  fronte  e  delle  ciglia, 

Meco,  mi  disse,  meco  ti  consiglia, 

Ch' i' son  d'altro  poder  che  tu  non  credi; 

E  so  far  lieti  e  tristi  in  un  momento. 

Più  leggiera  che  '1  vento  ; 

E  reggo  e  volvo  quanto  al  mondo  vedi. 

Tien  pur  gli^  occhi,  com'«  aquila,  in  quel  sole; 

Parte  dà  orecchi  a  queste  mie  parole 
1  obliando    2  meraviglia    »  Quando    *  anticha    ^  u    e  come 

11  dì  che  costei  nacque,  eran  le  stelle 
Che  producon  fra  voi  fetki  effetti,^ 
In  luoghi  alti  ed  eletti,^ 
L'una  ver  l'altra  con  amor  converse; 
Venere  e'I  padre  con  benigni  aspetti  =^ 
Tenean  le  parti  signorili  e  belle:  ' 

E  le  luci  empie  ^  e  felle 
Quasi  in  tutto  del  ciel  eran  disperse. 
Il  Sol  mai  sì  bel  giorno  non  aperse: 
L'aere  e  la  terra  s'allegrava,  e  l'acque 
Per  lo  mar  avean  pace  e  per  li  fiumi. 
Fra  tanti  amici  lumi. 


Rime.  261 

Una  nube  lontana  mi  dispiacque; 
La  qual  temo  che  'n  pianto  si  risolve,"^ 
Se  pietate  altramente  il  ciel  non  volve. 
^  effectJ     -  electi    ^  aspecti    *  impie    ^  resolve 

Com'ella  venne  in  questo  viver  basso, 
Ch'  a  dir  il  ver,  non  fu  degno  d'averla, 
Cosa  nova  a  vederla, 
Già  santissima  e  dolce,  ancor  ^  acerba, 
Parea  chiusa  in  ór  fin  candida  perla; 
Ed  or  carpone,  or  con  tremante  passo  6 

Legno,  acqua,  terra  o  sasso 
Verde  facea,  chiara,  soave,  e  l'erba 
Con  le  palme  e^  coi  pie  fresca  e  superba; 
E  fiorir  co'  begli  ^  occhi  le  campagne, 
Ed  acquetar  i  venti  e  le  tempeste 
Con  voci  ancor*  non  preste 
Di  lingua  che  dal  latte  si  scompagne; 
Chiaro  mostrando  al  mondo  sordo  e  cieco 
Quanto  lume  del  ciel  fosse  ^  già  seco. 
1  anchor    ^  o    ^  coi  belli    *  anchor    ^  fusse 

Poi  che  crescendo  in  tempo  ed  in  virtute, 
Giunse  alla  terza  sua  fiorita  etate, 
Leggiadria  né  beltate 
Tanta  non  vide  iF  Sol,  credo,  giammai, 
Gli'^  occhi  pien  di  letizia^  e  d'onestate, 
E  '1  parlar  di  dolcezza  e  di  salute.  6 

Tutte  lingue  son  mute 
A  dir  di  lei  quel  che  tu  sol  ne  sai. 
Sì  chiaro  ha  il*  volto  di  celesti  rai, 
Che  vostra  vista  in  lui  non  può^  fermarse: 
E  da  quel  suo  bel  carcere  terreno 
Di  tal  foco  hai  il®  cor  pieno, 
Ch'altro  più  dolcemente  mai  non  arse. 
Ma  parmi  che  sua  subita  partita 
Tosto  ti  fia  cagion  d'amara  vita. 
^  vidal    2  Li    3  letitia    *  al    6  pò    e  ali 


jiìi62  Petrarca. 

D«tto  questo,  alla  sua  volubil  rota 

Si  volse,  in  ch'ella  fila  il  nostro  stame; 
Trista  e  certa  indovina^  de' miei  danni; 
Che  dopo  non  molt'anni. 
Quella  per  eh'  io  ho^  di  morir  tal  fame, 
Canzon  mia,  spense  Morte  acerba  e  rea, 
Che  più  bel  corpo  occider  non  potea. 
1  indivina    ^  q 

SONETTO  CCLXXXII  (In  morte  LIV).  *326 

Consolazione  del  danno  ricevuto  per  la  morte  di  Laura,  che  è  la  gloria 

dì  lei  in  cielo   per  la  vita  eterna  e  in  terra  per  la  fama  de*   buoni. 

Prega  poi  Laura  ad  aver  compassione  dì  luì. 

Or  hai^  fatto  l'estremo^  di  tua  possa, 
O  crudel  Morte,  or  hai  'l'^  regno  d'Amore 
Impoverito,  or  di  bellezza  il  fiore 
E  '1  lume  hai*  spento,  e  chiuso  in  poca  fossa; 

Or  hai*  spogliata  nostra  vita  e  scossa 

D'ogni  ornamento  e  del  sovran  suo  onore  ;^ 
Ma  la  fama  e  '1  valor,  che  mai  non  more, 
Non  è  in  tua  forza:  abbiti  ignude  l'ossa; 

Che  l'altro  ha'l*  Cielo,  e  di  sua  chiaritate, 
Quasi  d'un  più  bel  Sol,  s'allegra  e  gloria; 
E  fia  '1  mondo  de'  buon  sempre  in  memoria. 

Vinca  '1  cor  vostro  in  sua  tanta  vittoria,  ' 
Angel  novo,  lassù  di  me  pietate. 
Come  vinse  qui  '1  mio  vostra  beltate. 
^  ai    *  lextremo    '  ail    *  ai    ^  hcnore    "al    '  Victoria 

SONETTO  CCLXXXIII  (In  morte  LV).  *327 

Per  la  morte   di  Laura  dice  d' esser  condotto  a  tale  che  desidera  di 

morire,  ma  che  essa  Laura  ha  migliorata  condizione,  siccome  quella  che 

abbia  dormito  in  questo  mondo  e  si  sia  svegliata  in  cielo  e  debba  sperare 

in  questo  mondo  per  le  sue  rime  vita  eterna. 

L'aura  e  l'odore  e  '1  refrigerio  e  1'  ombra 
Del  dolce  lauro,  e  sua  vista  fiorita, 
Lume  e  riposo  di  mia  stanca  vita, 
Tolto  ha'  colei  che  tutto '1  mondo  sgombra. 


Rime.  263 

Com«  a  noi  '1^  Sol,  se  sua  soror  l'adombra.. 
Così  l'alta  mia  luce  a  me  sparita, 
lo^  oheggio  a  Morte  incontr'  a  Morte  aita; 
Di  sì  scuri  pensieri*  Amor  m'ingombra. 

Dormito  hai,^  bella  donna,  un  breve  sonno. 
Or  se'  svegliata  fra  gli^  spirti  eletti,' 
Ove  nel  suo  Fattor  ^  l'alma  s' interna. 

E,  se  mie  rime  alcuna  cosa  ponno, 
Consecrata  fra  i  nobili  intelletti,* 
Fia  del  tuo  nome  qui  memoria  eterna. 

^  Tolt  a     2  il    3  I     4  penseri    ^  Dormitai     *  li    '  electi     *  factor 
»  intellecti 

SONETTO  CCLXXXIV  (In  morte  LVI).  *328 

Si  duole  di  non  aver  preveduto  la  morte  di  Laura  e  dalla  tristezza  sua 
e  dall'aspetto  di  lei,  quando  partendosi  la  lasciò. 

L'ultimo,  lasso,  de'  miei  giorni  allegri. 

Che  pochi  ho^  visto  in  questo  viver  breve, 
Giunt'era;^  e  fatto 'P  cor  tepida  neve, 
Forse  presago  de'  dì  tristi  e  negri. 

Qual  ha"*  già  i  nervi  e  i  polsi  e  i  pensieri  egri 
Cui  domestica  febbre  assalir  deve, 
Tal  mi  sentia,  non  sapend'  *  io  che  leve 
Venisse  '1  fin  de'  miei  ben  non  integri. 

Gli'  occhi  belli,  ora*  in  del  chiari  e  felici 
Del  lume  onde  salute  e  vita  piove, 
Lasciando  i  miei  qui  miseri  e  mendici, 

Dicean  lor  con  faville  oneste®  e  nove: 

Rimanetevi  in  pace,  o  cari  amici, 

Qui  mai  più  no,  ma  rivedrenne  altrove. 

^  o    2  Giunto  era    '  factol    *  a    ^  .  enser    «  sappiend    'Li    *  or 
"  honeste 

SONETTO  CCLXXXV  (In  morte  LVII).  *S29 

Si  duole  dell'ordinamento  del  cielo  che  abbia  determinato  contro  quello 

che  sperava;  della  sua  ignoranza  che  non  vedesse  nell'aspetto  di  Laura 

la  morte  sua. 

O  giorno,  o  ora,^  o  ultimo  momento, 

O  stelle  congiurate  a'mpoverirmel 


264  Petrarca. 

O  fido  sguardo,  or  che  volei  tu  dirme, 
Partend'  io  per  non  esser  mai  contento  ? 
Or  conosco  i  miei  danni,  or  mi  risento: 

Ch'i'  credeva  (ahi-  credenze  vane  e'nfirme!) 
Perder  parte,  non  tutto,  al  dipartirme. 
Quante  speranze  se  ne  porta  il  vento! 

Che  già '1  contrario  era  ordinato  in  cielo; 

Spegner  l'almo  mio  lume  ond'  io  vivea; 

E  scritto  era  in  sua  dolce  amara  vista. 
Ma 'nnanzi  agU  occhi  m'era  posto  ^  un  velo, 

Che  mi  fea  non  veder  quel  eh'  i'  vedea, 

Per  far  mia  vita  subito  più  trista. 

^  bora    2  ai    s  pQst 

SONETTO  CCLXXXVI  (In  morte  LVIII).  *330 

È  della  materia  de'  passati  sonetti.  Si  duole  di  non  aver  nell'aspetto 
preveduta  la  morte  di  Laura.  Nella  prima  parte  del  ragionamento  si 
conforta  a  prendersi  degli  occhi  di  Laura  quel  più  che  ne  può,  siccome 
colui  che  più  non  è  per  vedergli.  Nella  seconda  significa  loro  dove  de- 
vono andare,  e  che  di  lui  debba  aviv.nire. 

Quel  vago,  dolce,  caro,  onesto^  sguardo 
Dir  parea:  to'  di  me  quel  che  tu  puoi;^ 
Che  mai  più  qui  non  mi  vedrai  da  poi 
Ch'arai'*  quinci '1  pie*  mosso  a  mover  tardo. 

Intelletto^  veloce  più  che  pardo, 
Pigro  in  antiveder^  i  dolor  tuoi, 
Come  non  vedestu  negli'  occhi  suoi 
Quel  che  ved'ora  ond'  io  mi  struggo  ed  ardo? 

Taciti,  sfavillando  oltra  lor  modo, 

Dicean:  o  lumi  amici,  che  gran  tempo. 
Con  tal  dolcezza  feste  di  noi  specchi. 

Il  Ciel  n'aspetta:  a  voi  parrà  per  tempo; 
Ma  chi  ne  strinse  qui,  dissolve  il  nodo, 
E  '1  vostro,  per  farv'  ira,  vuol  che  'nvecchi. 

1  honesto     2  pQj      3  Chaurai      *  pe      ''  Intellecto      "  antivedere 
'  nelli 


I 


ì 


Rime.  265 

CANZONE  XXVI  (In  morte  V).        *331 

Prova  nelle  due  prime  stanze,  che  morrà  prima  del  giusto  termine  della 
sua  vita,  poiché  morta  è  Laura.  Nelle  tre  ultime  dice  che  non  gli  rin- 
cresce il  morir  innanzi  tempo,  ma  di  non  aver  preveduto  la  morte  di 
Laura  nell'aspetto  quando  si  partì  da  lei ,  per  poter  morire  prima  di 
lei.     Nella  chiusa  conforta  gli  amanti  a  morire  mentre  sono  felici. 

Solea  dalla  fontana  di  mia  vita 

Allontanarme,  e  cercar  terre  e  mari, 
Non  mio  voler,  ma  mia  stella  seguendo; 
E  sempre  andai  (tal  Amor  diemmi  aita), 
In  quelli  esilii,^  quanto  e'  vide,  amari. 
Di  memoria  e  di  speme  il  cor  pascendo.  6 

Or,  lasso,  alzo  la  mano,  e  l'arme  rendo 
All'empia  e  violenta  mia  fortuna. 
Che  privo  m'  ha^  di  sì  dolce  speranza. 
Sol  memoria  m'avanza; 
E  pasco  '1  gran  desir  sol  di  quest'una: 
Onde  l'alma  vien  man,  frale  e  digiuna. 
^  exilij     2  ma 

Come  a  corrier  tra  via,  se  '1  cibo  manca, 
Conven  per  forza  rallentar^  il  corso. 
Scemando  la  virtù ^  che  '1  fea  gir  presto; 
Così,  mancando  alla  mia  vita  stanca 
Quel  caro  nutrimento,  in  che  di  morso 
Die  chi  '1  mondo  fa  nudo  e  '1  mio  cor  mesto,    6 
Il  dolce  acerbo,  e  '1  bel  piacer  molesto 
Mi  si  fa  d'ora  in  ora:'*  onde '1  cammino 
Sì  breve  non  fornir  spero  e  pavento. 
Nebbia  o  polvere  al  vento, 
Fuggo  per  più  non  esser  pellegrino. 
E  così  vada,  s'  è  pur  mio  destino. 
1  rallentare    ^  vertu    *  bora 

Mai  questa  mortai  vita  a  me  non  piacque 
(Sassel  Amor,  con  cui  spesso  ne  parlo) 
Se  non  per  lei  che  fu  '1  suo  lume  e  '1  mio. 
Poi  che  'n  terra  morendo,  al  ciel  rinacque 


266  Petrarca. 

Quello  spirto  ond'  io  vissi,  a  seguitarlo 

(Licito  fosse) ^  è  '1  mio  sommo  desio.  6 

Ma  da  dolermi  ho^  ben  sempre,  perch*  io 

Fui  mal  accorto  a  provveder '^  mio  stato, 

Ch'Amor  mostrommi  sotto  quel  bel  ciglio, 

Per  darmi  altro  consiglio: 

Che  tal  morì  già  tristo  e  sconsolato, 

Cui  poco  innanzi*  era '1  morir  beato. 

1  fusse    "  0    8  proveder    *  inanji 

Negli ^  occhi  ov' abitar''  solea  '1  mio  core, 
Fin  che  mia  dura  sorte  invidia  n'ebbe, 
Che  di  sì  ricco  albergo  il  pose  in  bando, 
Di  sua  man  propria  avea  descritto  Amore, 
Con  lettre  di  pietà,  quel  ch'avverrebbe^ 
Tosto  del  mio  sì  lungo  ir  desiando.  6 

Bello  e  dolce  morire  era  allor  quando, 
Morend'  io,  non  moria  mia  vita  insieme,"* 
Anzi  vivea  di  me  l'ottima^  parte: 
Or  mie  speranze  sparte 

Ha*^  Morte,  e  poca  terra  il  mio  ben  preme; 
E  vivo;  e  mai  noi  penso  eh' i' non  treme. 

^  Nelli    *  habitat    ^  averrebbe    *  inseme    *  optima    ^  A 

Se  Stato  fosse  ^  il  mio  poco  intelletto - 
Meco  al  bisogno,  e  non  altra  vaghezza 
L'avesse,  desviando, ^  altrove  volto. 
Nella  fronte  a  Madonna  avrei  ben  letto:'* 
Al  fin  se'  giunto  d'ogni  tua  dolcezza 
Ed  al  principio  del  tuo  amaro  molto.  6 

Questo  intendendo,   dolcemente  sciolto 
In  sua  presenza^  del  mortai  mio  velo 
E  di  questa  noiosa  e  grave  carne, 
Rotea  innanzi**  lei  andarne 
A  veder  preparar  sua  sedia  in  cielo: 
Or  l'andrò  dietro  ornai  con  altro  pelo. 

1  fusse     -  intellecto     »  disviando     *  lecto     •''  presentia     •  iiiangi 


Rime.  267 

Canron,  s'uom  trovi  in  suo  amor  viver  queto, 
Di':  muor  mentre  se'  lieto: 
Che  morte  al  tempo  è  non  duol,  ma  refugio; 
E  chi  ben  può^  morir,  non  cerchi  indugio. 
1  pò 

SESTINA  IX  (In  morte).  *332 

Accresce  la  infelicità  della  presente  sua  miseria  col  paragonarla  con  la 
passata  felicità  e  desidera  di  morire  per  uscirne.     Questa  è  sestina 

doppia. 

Mia  benigna  fortuna  e  '1  viver  lieto, 

I  chiari  giorni  e  le  tranquille  notti, 

E  i  soavi  sospiri,  e  '1  dolce  stile 

Che  solea  risonar^  in  versi  e 'n  rime. 

Volti  subitamente  in  doglia  e  'n  pianto 

Odiar  vita  mi  fanno  e  bramar  morte. 

Crudele,  acerba,  inesorabile  Morte, 
Cagion  mi  dai  di  mai  non  esser  lieto, 
Ma  di  menar  tutta  mia  vita  in  pianto, 
E  i  giorni  oscuri  e  le  dogliose  notti. 
I  miei*  gravi  sospir  non  vanno  in  rime, 
E  '1  mio  duro  martir  vince  ogni  stile. 

Ov*^  è  condotto^  il  mio  amoroso  stile? 
A  parlar  d' ira,  a  ragionar  di  morte. 
U'  sono  i  versi,  u'  son  giunte  le  rime 
Che  gentil  cor  udia  pensoso  e  lieto? 
Ov'  è  '1  favoleggiar  d'amor  le  notti? 
Or  non  pari'  io  ne  penso  altro  che  pianto. 

Già  mi  fu  col  desir  sì  dolce  il  pianto, 
Che  condia  di  dolcezza  ogni  agro  stile, 
E  vegghiar  mi  facea  tutte  le  notti: 
Or  m'  è  '1  pianger  amaro  più  che  morte. 
Non  sperando  mai  '1  guardo  onesto*^  e  lieto. 
Alto  soggetto'  alle  mie  basse  rime. 

Chiaro  segno  Amor  pose  alle  mie  rime 

Dentro  a'  begli® occhi;  ed  or  l'ha'^  posto  in  pianto 


268  Petrarca. 

Con  dolor  rimembrando»  il  tempo  lieto: 
Ond'  io  vo  col  penser  cangiando  stile, 
E  ripregando  te,  pallida  Morte, 
Che  mi  sottragghi  a  sì  penose  notti. 

Fuggito  è  '1  sonno  alle  mie  crude  notti, 
E  '1  suono  usato  alle  mie  roche  rime, 
Che  non  sanno  trattar  altro  che  morte: 
Così  e  '1  mio  cantar  converso  in  pianto. 
Non  ha^^'l  regno  d'Amor  sì  vario  stile, 
Ch'  è  tanto  or  tristo,  quanto  mai  fu  lieto. 

Nessun  ^^  visse  giammai  più  di  me  lieto. 
Nessun ^^  vive  più  tristo  e  giorni  e  notti: 
E  doppiando  '1  dolor,  doppia  lo  stile. 
Che  trae  del  cor  sì  lagrimose^^  rime. 
Vissi  di  speme;  or  vivo  pur  di  pianto. 
Né  centra  Morte  spero  altro  che  Morte. 

Morte  m' ha^*^  morto;  e  sola  può^*  far  Morte 
Ch'  i'  torni  a  riveder  quel  viso  lieto. 
Che  piacer  mi  facea  i  sospiri  e  '1  pianto, 
L'aura  dolce  e  la  pioggia  a  le  mie  notti; 
Quando  i  pensieri  eletti  ^^  tessea  in  rime, 
Amor  alzando  il  mio  debile  stile. 

Or  avess'  io  un  sì  pietoso  stile 

Che  Laura  mia  potesse  tórre  a  Morte, 
Com'  Euridice  Orfeo ^*^  sua  senza  rime: 
Ch' i' viverci  ancor  ^'  più  che  mai  lieto. 
S'esser  non  può,  qualcuna  ^^  d'este  notti 
Chiuda  omai  queste  due  fonti  di  pianto. 

Amor,  i'  ho  ^^  molti  e  molt'anni  pianto 
Mio  grave  danno  in  doloroso  stile; 
Né  da  te  spero  mai  men  fere  notti; 
E  però  mi  son  mosso  a  pregar  Morte 
Che  mi  tolla  di  qui,  per  farme  lieto 
Ov'-^è  colei  ch'io-'  canto  e  piango  in  rime. 


Rime.  269 

Se  sì  alto  pon  gir  mie  stanche  rime, 

Ch'aggiungan  ^^  lei  eh'  è  fuor  d' ira  e  di  pianto, 

E  fa  '1  ciel  or  di  sue  bellezze  lieto, 

Ben  riconoscerà  '1  mutato  stile, 

Che  già  forse  le  piacque,  anzi  che  Morte 

Chiaro  a  lei  giorno,  a  me  fesse  atre  notti. 

O  voi  che  sospirate  a  miglior  notti, 
Ch'ascoltate  d'Amore  o  dite  in  rime, 
Pregate  non  mi  sia  più  sorda  Morte, 
Porto  delle  miserie  e  fin  del  pianto; 
Muti  una  volta  quel  suo  antico  ^'^  stile, 
Ch'ogni  uom  attrista,  e  me  può^*  far  sì  lieto. 

Far  mi  può^^  lieto  in  una  o  'n  poche  notti; 
E  'n  aspro  stile  e  'n  angosciose  rime 
Prego  che  '1  pianto  mio  finisca  Morte. 
1  resonare     ^  inexorabil     ^  mei      *  Ove     ^  condutto     ^  honesto 
'  sogetto    8  belli     *  la     ^^  a     ^^  Nesun     ^^  lacrimose     ^'  ma     ^*  pò 
^5  penseri  electi    ^®  orpheo    i'  anchor    ^^  pò  qualchuna    i"  o    ^o  Ove 
21  chi    22  agiungan     23  antiquo    24  pò 

SONETTO  CCLXXXVII  (In  morte  LIX).  *333 

Significa  a  Laura  che  è  in  cielo  il  presente  sfato  di  lui,  e  che  la  Morie 
gli  s'avvicina  e  la  prega  che  gli  sia  presta  in  sul  passare. 

Ite,  rime  dolenti,  al  duro  sasso 

Che '1  mio  caro  tesoro^  in  terra  asconde; 

Ivi  chiamate  chi  dal  ciel  risponde, 

Benché  '1  mortai  sia  in  loco  oscuro  e  basso. 

Ditele  eh'  i'  son  già  di  viver  lasso, 

Del  navigar  per  queste  orribili^  onde; 
Ma  ricogliendo  le  sue  sparte  fronde, 
Dietro  le  vo  pur  così  pajsso  passo, 

Sol  di  lei  ragionando  viva  e  morta. 
Anzi  pur  viva,  ed  or  fatta  immortale, 
Acciocché^ '1  mondo  la  conosca  ed  ame. 
Piacciale  al  mio  passar  esser  accorta, 

Ch' è  presso  omai;  siami  all'incontro,  e  quale 
Ella  è  nel  cielo,  a  se  mi  tiri  e  chiame. 
^  thesoro    2  horribili     ^  A  ciò  che 


270  Petrarca, 

SONETTO  CCLXXXVIII  (In  morte  LX).  *334 

Domanda  in  guiderdone  del  suo  amore  che  Laura  gli  apparisca  in  morto 
ed  abbia  compassione  de'  suoi  affanni. 

S'onesto  amor  può^  meritar  mercede, 
E  se  pietà  ancor  può^  quant'ella  suole, 
Mercede  avrò,  che  più  chiara  che  '1  sole 
A  Madonna  ed  al  mondo  è  la  mia  fede. 

Già  di  me  paventosa,  or  sa,  noi  crede, 
Che  quello  stesso  ch'or  per  me  si  vole, 
Sempre  si  volse;  e  s'ella  udia  parole 
O  vedea  '1  volto,  or  l'animo  e  '1  cor  vede. 

Ond' i' spero  che 'nfin  dal^  elei  si  doglia 
De'  *  miei  tanti  sospiri  :  e  così  mostra, 
Tornando  a  me  sì  piena  di  pietate. 
E  spero  eh'  al  por  giù  di  questa  spoglia 
Venga  per  me  con  quella  gente  nostra, 
Vera  amica  di  Cristo  e  d'onestate. 
1  pò    2  anchor  pò    ^  al    *  Di 

SONETTO  CCLXXXIX  (In  morte  LXI).   *335 

Scusa  perchè  non  sia  simile  a  Laura  in  santità  e  perchè  le  virtù  erano 

troppo  eccellenti  in  Laura,  e  perchè  morì  tosto,  e  quindi,  presa  cagione, 

sospira  la  bellezza  degli  occhi  perduta. 

Vidi  fra  mille  donne  una  già  tale, 

Ch'amorosa  paura  il  cor  m'assalse. 

Mirandola  in  immagini^  non  false 

Agli  2  spirti  celesti  in  vista  eguale. 
Niente  in  lei  terreno  era  o  mortale, 

Siccome  a  cui  del  ciel,  non  d'altro,  calse. 

L'alma,  ch'arse  per  lei  sì  spesso  ed  alse. 

Vaga  d' ir  seco,  aperse  ambedue  l'ale. 

Ma  tropp'era  alta  al  mio  peso  terrestre: 
E  poco  poi  m'uscì  'n^  tutto  di  vista; 
Di  che  pensando,  ancor  m'agghiaccio*  e  torpo. 

O  belle  ed  alte  e  lucide  fenestre 
Onde  colei  che  molta  gente  attrista 
Trovò  la  via  d'entrare  in  sì  bel  corpo! 
*  imagini    ^  Ali    "  nusci  in    *  anchor  maghiaccio 


R5m«.  271 

SONETTO  CCXC  (In  morte  LXII).     *33ó 

Tanto  ha  fissa  Laura  nella  mente,  che  se  non  si  ricordasse  della  morfe 
giudicherebbe  lei  essere  veramente  presente  e  viva 

Tornami  a  mente,  anzi  v'  è  dentro,  quella 
Ch'  indi  per  Lete^  esser  non  può^  sbandita, 
Qual  io  la  vidi  in  su  l'età  fiorita, 
Tutta  accesa  de'  raggi  di  sua  stella. 

Sì  nel  mio  primo  occorso  onesta^  e  bella 
Veggiola  in  se  raccolta  e  sì  romita. 
Ch'i' grido:  eli' è  ben  dessa;  ancora*  è  in  vita; 
E  'n  don  le  cheggio  sua  dolce  favella. 

Talor  risponde  e  talor  non  fa  motto. 

r,  com'uom*^  ch'erra  e  poi  più  dritto  estima, 

Dico  alla  mente  mia:  tu  se'  'ngannata: 
Sai  che  'n  mille  trecento  quarantotto, 

Il  dì  sesto  d'aprile,  in  l'ora  prima, 

Del  corpo  uscio  quell'anima  beata. 
1  Lethe    ^  p©    3  honesta    *  anchor    ^  come  huom 

SONETTO  CCXCI  (In  morte  LXIII).  *337 

Tutto  il  colmo  della  bellezza  fu  in  Laura,  qual  morta  si  dee  men  dolere 
il  Petrarca  di  perdere  la  vista,  la  quale  gli  è  staio  data  sol  per  con- 
templar Laura. 
Questo  nostro  caduco  e  fragil  bene, 
Ch'è  vento  ed  ombra  ed  ha^  nome  beltate, 
Non  fu  giammai,  se  non  in  questa  etate, 
Tutto  in  un  corpo;  e  ciò  fu  per  mie  pene. 
Che  Natura  non  voi,  né  si  convene, 

Per  far  ricco  un,  por  gli^  altri  in  povertate: 
Or  versò  in  una  ogni  sua  largì  tate; 
Perdonimi  qual  è  bella,  o  si  tene. 
Non  fu  simil  bellezza  antica^  o  nova; 
Né  sarà,  credo:  ma  fu  sì  coverta, 
Ch'  appena*  se  n'  accorse  il  mondo  errante. 
Tosto  disparve;  onde  '1  cangiar  mi  giova 
La  poca  vista  a  me  dal  ciel  offerta 
Sol  per  piacer  alle  sue  luci  sante, 
la    «  li    »  anticha    *  Chapena 


272  Petrarca. 

SONETTO  CCXCII  (In  morte  LXIV).   *338 

Desidera  di  convertirsi  da  cosa  trascorrevole  ad  eterna. 

0  tempo,  o  ciel  volubil,  che  fuggendo 
Inganni  i  ciechi  e  miseri  mortali; 

O  dì  veloci  più  che  vento  e  strali, 
Or  ab  esperto^  vostre  frodi  intendo. 

Ma  scuso  voi,  e  me  stesso  riprendo: 
Che  Natura  a  volar  v'aperse  l'ali; 
A  ms  diede  occhi:  ed  io  pur  ne'  miei  mali 
Li  tenni;  onde  vergogna  e  dolor  prendo. 

E  sarebbe  ora,  ed  è  passata  ornai. 
Da  rivoltarli  in  più  secura  parte, 
E  poner  fine  agl'infiniti^  guai. 

Né  dal  tuo  giogo.  Amor,  l'alma  si  parte, 
Ma  dal  suo  mal;  con  che  studio,  tu'l  sai: 
Non  a  caso  è  virtute,^  anzi  è  bell'arte. 
1  Ora  ab  experto    2  alinfiniti    ^  vertute 

SONETTO  CCXCIII  (In  morte  LXV).  *339 

Ben  a  ragione  e'  ieneasi  felice  in  amarla,  se  Dio  se  la  tolse  come  cosa  sua. 

Quel  che  d'odore  e  di  color  vincea 
L'odorifero  e  lucido  oriente, 
Frutti,  fiori,  erbe^  e  f rondi;  onde '1  ponente 
D'ogni  rara  eccellenzia"^  il  pregio  avea, 

Dolce  mio  lauro,  ov'abitar^  solca 
Ogni  bellezza,  ogni  virtute*  ardente,^ 
Vedeva  alla  sua  ombra  onestamente^ 
Il  mio  Signor  sedersi  e  la  mia  Dea. 

Ancor ^  io  il  nido  di  pensieri  eletti' 

Posi  in  quell'alma  pianta;  e 'n  foco  e 'n  gelo^ 
Tremando,  ardendo,  assai  felice  fui. 

Pieno  era'l®  mondo  de' suoi  onor  perfetti ;^<^ 
AUor  che  Dio,  per  adornarne  il  cielo, 
La  si  ritolse:  e  cosa  era  da  lui. 

1  herbe     ^  excellentia     ^  ove  habitar    *  vertute     ^  honestamente 
■■'  Anchor    '  penseri  electi     »  gielo    »  il     ^°  honor  perfecti 


MEDl^^ 


8T.    MICHAEL'8 


'^^ 


I 


I 


Rime.  273 

SONETTO  CCXCIV  (In  morte  LXVI).  *340 

Dice  che  niuno  si  duole  della  morte  dì  Laura,  se  non  egli,  sebbene  il 
danno  tocchi  ad  ognuno,   perchè  niuno  la  conobbe  se  non  egli  e  Dio. 

Lasciato  hai,^  Morte,  senza  sole  il  mondo 
Oscuro  e  freddo,  Amor  cieco  ed  inerme, 
Leggiadria  ignuda,  le  bellezze  inferme, 
Me  sconsolato  ed  a  me  grave  pondo: 

Cortesia  in  bando  ed  onestate'^  in  fondo: 
Dogliom'io  sol,  né  sol  ho^  da  dolerme; 
Che  svelt'  hai*  di  virtute-''  il  chiaro  germe. 
Spento  il  primo  valor,  qual  fia  il  secondo? 

Pianger  l'aer  e  la  terra  e  '1  mar  devrebbe 
L'uman  legnaggio,  che  senz'ella,  è  quasi 
Senza  fior  prato,  o  senza  gemma  anello. 

Non  la  conobbe  il  mondo  mentre  l'ebbe: 
Conobbil'  io,  ch'a  pianger  qui  rimasi, 
E  '1  Ciel,  che  del  mio  pianto  or  si  fa  bello. 

^  ai    2  honestate    ^  o    *  ai     "  vertute 

SONETTO  CCXCV  (In  morte  LXVII).   *341 

0  si  scusa  perchè  non  abbia  scritto  lodi  uguali  alle  bellezze  di  Laura,  o 
aggrandisce  le  virtù  di  lei  con  dire  che  /'  intelletto  infusogli  dalla  Na- 
tura e  lo  ingegno  acquistato  per  studio  compresero  le  bellezze  del  corpo, 
non  quelle  dell'animo  di  lei,  onde  la  mano  non  potè  scriverle,  né  la 
lingua  esprimere. 

Conobbi,  quanto  il  Ciel  gli^  occhi  m'aperse, 
Quanto  studio  ed  Amor  m'alzaron  l'ali. 
Cose  nuove'^  e  leggiadre,  ma  mortali, 
Che  'n  un  soggetto  ogni  stella  cosperse. 

L'altre  tante,  sì  strane  e  sì  diverse 
Forme  altere,  celesti  ed  immortali, 
Perchè  non  furo  all'intelletto^  eguali. 
La  mia  debile  vista  non  sofferse. 

Onde  quant'io  di  lei  parlai  né  scrissi. 

Ch'or  per  lodi  anzi  a  Dio  preghi  mi  rende, 
Fu  breve  stilla  d'infiniti  abissi; 
Bibl.  rom.  12/15.  16 


274  Petrarca. 

Che  stilo  oltra  l'ingegno  non  si  stende; 
E  per  aver  uom  gli*  occhi  nel  Sol  fissi, 
Tanto  si  vede  men,  quanto  più  splende. 
1  li     2  nove    '  alintellecto    *  li 

SONETTO  CCXCVI  (In  morte  LXVIII).  =^342 

Non  essendo  consolato  il  Petrarca  dall' apparizioni  di  Laura,  la  invita 
ad  apparirgli.  E  prima  si  maraviglia  che  non  gli  sia  apparita,  non 
potendo  ciò  avvenire  se  non  perchè  il  Cielo  la  ritenga  o  perchè  ella  sia 
sdegnata,  delle  quali  cose  né  l'una  né  l'altra  può  esser  vera,  non  al- 
bergando in  Cielo  né  crudeltà  né  sdegno. 

Dolce  mio  caro  e  prezioso^  pegno, 

Che  Natura  mi  tolse  e  '1  Ciel  mi  guarda, 
Deh^  come  è  tua  pietà  ver  me  sì  tarda, 
O  usato  di  mia  vita  sostegno? 

Già  suo'  tu  far  il  mio  sonno  almen  degno 
Della  tua  vista,  ed  or  sostien  eh'  i'  arda 
Senz' alcun  refrigerio:  e  chi '1  ritarda?'"* 
Pur  lassù  non  alberga  ira  né  sdegno; 

Onde  quaggiuso*  un  ben  pietoso  core 
Talor  si  pasce  degli''  altrui  tormenti. 
Sì  ch'egli^  è  vinto  nel  suo  regno  Amore. 
Tu  che  dentro  mi  vedi,  e  '1  mio  mal  senti, 
E  sola  puoi  finir  tanto  dolore, 
Con  la  tua  ombra  acqueta  i  miei  lamenti. 
1  precioso    ^  De    ^  retarda    *  quagiuso    *  delli    •  chelli 

SONETTO  CCXCVII  (In  morte  LXIX).  *343 

Questo  Sonetto  si  congiunge  di  materia  col  passato.  Aveva  il  Petrarca 
*atta  menzione  a  Laura   che  lo  venisse  a  consolare.  Or  in   questo  rac- 
conta come  fu  racconsolato. 

Deh^  qual  pietà,  qual  angel  fu  sì  presto 
A  portar  sopra  '1  cielo  il  mio  cordoglio? 
Ch'ancor^  sento  tornar  pur  come  soglio 
Madonna  in  quel  suo  atto  dolce  onesto^ 

Ad  acquetar"*  il  cor  misero  e  mesto. 
Piena  sì  d'umiltà,  vota  d'orgoglio,"^ 
E  'n  somma  tal,  eh'  a  morte  i'  mi  ritoglio, 
E  vivo,  e  '1  viver  più  non  m'  è  molesto. 


Rime.  275 

Beata  s'  è,  che  può**  beare  altrui 

Con'  la  sua  vista,  ovver  con^  le  parole 
Intellette^  da  noi  soli  ambedui. 

Fedel  mio  caro,  assai  di  te  mi  dole; 

Ma  pur  per  nostro  ben  dura  ti  fui: 

Dice,  e  cos'altro  d'arrestar ^^  il  Sole. 

'  De    2  Chanchor    ^  honesto    *  acquetare    *  dargoglio    «  pò    '  Co 
**  o  ver  cole    *  Intellecte     ^"  darrestare 

SONETTO  CCXCVIII  (In  morte  LXX).  *344 
Menir'  ef  piange,  Laura  accorre  ad  asciugargli  le  lagrime  e  lo  riconforta. 

Del  cibo  onde  '1  Signor  mio  sempre  abbonda,^ 
Lagrime  e  doglia,  il  cor  lasso  nudrisco; 
E  spesso  tremo  e  spesso  impallidisco 
Pensando  alla  sua  piaga  aspra  e  profonda. 

Ma  chi  ne  prima,  simil,  né  seconda 

Ebbe  al  suo  tempo,  al  letto ^  in  ch'io  languisco, 
Vien  tal  ch'appena"  a  rimirar  l'ardisco, 
E  pietosa  s'asside  in  su  la  sponda. 

Con  quella  man  che  tanto  desiai. 

M'asciuga  gli'^  occhi,  e  col  suo  dir  m'apporta 
Dolcezza  ch'uom  mortai  non  sentì  mai. 
Che  vai,  dice,  a  saver,  chi  si  sconforta? 

Non  pianger  più;  non  m'hai^  tu  pianto  assai? 
Ch'or  fostu  vivo  com'io  non  son  morta. 
*  abonda    2  lecto    ^  chapena    *  li    ^  mai 

SONETTO  CCXCIX  (In  morte  LXXI).  *345 

E'  morrebbe  di  dolore,  s'ella  talvolta  noi  consolasse  co'  suoi  apparimenti. 
Ripensando  a  quel,  ch'oggi  il  cielo  onora, ^ 
Soave  sguardo,  al  chinar  l'aurea  testa. 
Al  volto,  a  quella  angelica  modesta 
Voce,  che  m'addolciva'^  ed  or  m'accora; 
Gran  maraviglia  ho'^  com'io  viva  ancora:* 
Né  vivrei  già,  se  chi  tra  bella  e  onesta,^ 
Qual  fu  più,  lasciò  in  dubbio,  non  sì  presta 
Fosse**  al  mio  scampo  là  verso  l'aurora. 


276  Petrarca. 

O  che  dolci  accoglienze'  e  caste  e  pie! 
E  come  intentamente  ascolta  e  nota 
La  lunga  istoria*^  delle  pene  mie! 
Poi  che  '1  dì  chiaro  par  che  la  percota, 
Tornasi  al  Ciel,  che  sa  tutte  le  vi*"., 
Umida  gli®  occhi  e  l'una  e  l'altra  gota. 
1  honora      ^  madolciva      »  meraviglia  o      *  anchora      ^  honesta 
6  Fusse     7  accoglenge    *  historia    ^  Humida  li 

SONETTO  CCC  (In  morte  LXXII).    *346 

//  dolore  di   averla  perduta  è  sì  iorte,   che  niente  più  varrà  a  miti- 
garlo. 

Fu  forse  un  tempo  dolce  cosa  amore 

(Non  perch'io^  sappia  il  quando);  or  è  sì  amara 
Che  nulla  più.   Ben  sa  '1  ver  chi  1'  impara, 
Com'  ho^  fatt'  io  con  mio  grave  dolore. 

Quella  che  fu  del  secol  nostro  onore,'"^ 
Or  è  del  ciel  che  tutto  orna  e  rischiara; 
Fé  mia  requie  a'  suoi  giorni  e  breve  e  rara, 
Or  m'  ha^^  d'ogni  riposo  tratto  fore. 

Ogni  mio  ben  crudel  Morte  m'ha-^  tolto; 
Né  gran  prosperità  il  mio  stato  avverso*^ 
Può'  consolar  di  quel  bel  spirto  sciolto. 

Piansi  e  cantai;  non  so  più  mutar  verso, 
Ma  dì  e  notte  il  duci  nell'alma  accolto, 
Per  la  lingua  e  per  gli^  occhi  sfogo  e  verso. 
M     2  o    '  honore    *  ma    »  ma    <^  adverso     'Po    *  li 

SONETTO  CCCI  (In  morte  LXXIII).    *347 

Dice  che  la  beatitudine  di  Laura  lo  consola  della  morte  di  lei. 
Spinse  amor  e  dolor  ov'  ^  ir  non  debbe, 
La  mia  lingua  avviata-  a  lamentarsi, 
A  dir  di  lei  per  ch'io  cantai  ed  arsi, 
Quel  che,  se  fosse  =^  ver,  torto  sarebbe; 
Ch'  assai  '1  mio  stato  rio  quetar  devrebbe 
Quella  beata,  e  '1  cor  racconsolarsi 
Vedendo  tanto  lei  domesticarsi 
Con  colui  che,  vivendo,  in  cor  sempr'*ebbe. 


Rime.  277 

E  ben  m'acqueto  e  me  stesso  consolo; 

Né  vorrei  rivederla  in  questo  inferno, 

Anzi  voglio  morir"''  e  viver  solo: 
Che  più  bella  che  mai,  con  l'occhio  interno. 

Con  gli^  angeli  la  veggio  alzata  a  volo 

A'  pie  del  suo  e  mio  Signore  eterno. 
1  ove    2  aviata    ^  fusse    *  sempre    ^  m  rire    ®  li 

SONETTO  CCCII  (In  morte  LXXIV).  *348 

Deificazione  di  Laura.     Pone  prima  V allegrezza  degli  Angeli  e  delle 

Anime  beate.     Poi  V allegrezza  di  Laura  e   la  carità.     Ultimamente  si 

mostra  fermo  di  seguire  la  vita  di  lei. 

Gli  ^  angeli  eletti'^  e  l'anime  beate 
Cittadine  del  cielo,  il  primo  giorno 
Che  Madonna  passò,  le  fur  intorno 
Piene  di  maraviglia^  e  di  pietate. 

Che  luce  è  questa,  e  qual  nova  beltate? 
Dicean  tra  lor;  perch'abito  sì  adorno 
Dal  mondo  errante  a  quest'alto  soggiorno 
Non  salì  mai  in  tutta  questa  etate. 

Ella  contenta  aver  cangiato  albergo, 

Si  paragona  pur  coi  più  perfetti;* 

E  parte  ad  or  ad  or  si  volge  a  tergo 
Mirando  s'io  la  seguo,  e  par  ch'aspetti:^ 

Ond' io  voglie  e  pensier®  tutti  al  ciel  ergo; 

Perch'  io  l'odo  pregar  pur  eh'  i'  m'affretti. 
1  Li     2  electì    ^  meraviglia    *  perfecti     ^  aspecti    ^  penser 

SONETTO  cecili  (In  morte  LXXV).  *349 

Fa  mediatrice  Laura  appresso   a  Dio  ad  impetrargli  grazia  d' andar 

tosto  in  cielo,  scongiurandola  per  la  purità  della  fede  portatale,  mentri 

visse,  e  per  l'affanno  sostenuto  nell'amor  suo. 

Donna,  che  lieta  col  principio  nostro 
Ti  stai,  come  tua  vita  alma  richiede,* 
Assisa  in  alta  e  gloriosa  sede, 
E  d'altro  ornata  che  di  perle  o  d'ostro; 

O  delle  donne  altero  e  raro  mostro. 
Or  nel  volto  di  luì  che  tutto  vede, 


278  Petrarca. 

Vedi  '1  mio  amore  e  quella  pura  fede, 

Per  oh'  io  tante  versai  lagrime  e  'nchiostro  ; 

E  senti  che  ver  te  il-  rnio  core  in  terra 
Tal  iu  qual  ora  è  in  cielo,  e  mai  non  volsi 
Altro  da  te  che '1  Sol  degli  ^  occhi  tuoi. 

Dunque  per  ammendar'^  la  lunga  guerra, 
Per  cui  dal  mondo  a  te  sola  mi  volsi. 
Prega  eh'  i'  venga  tosto  a  star  con  voi. 
^  rechiede    ^  i    s  ^eli    *  amendar 

SONETTO  CCCIV  (In  morte  LXXVI).  *350 

Racconta  i  beni  che  aveva  egli  mentre  viveva  Laura,   de'  quali  ora  pren- 
dono  diletto  in  cielo  Dio  e  gli  angeli,  ed  egli ,   essendone  privato,  ne 
sente  pena  grande.     Si  conforta   nondimeno  con  la  speranza  che   ella 
gì'  impetri  d'  esser  con  lei. 

Da'  più  begli  ^  occhi  e  dal  più  chiaro  viso 
Che  mai  splendesse,  e  da'  più  bei  capelli, 
Che  facean  l'oro  e  '1  Sol  parer  men  belli, 
Dal  più  dolce  parlar'^  e  dolce  riso, 

Dalle  man,  dalle  braccia  che  conquiso, 
Senza  moversi,  avrian  quai  più  rebelli 
Fur  d'Amor  mai,  da'  più  bei  piedi  snelli, 
Dalla  persona  fatta  in  paradiso, 

Prendean  vita  i  miei  spirti:  or  n' ha^  diletto 
Il  Re  celeste,  i  suo' "^  alati  corrieri; 
Ed  io  son  qui  rimase  ignudo  e  cieco. 

Sol  un  conforto  alle  mie  pene  aspetto; 
Ch'  ella,  che  vede  tutt'  i  miei  pensieri,'' 
M'  impetre  grazia^  eh'  i'  possa  esser  seco. 
1  belli    -  parlare    ^  na    ^  suoi    ^  penseri    °  gratia 

SONETTO  CCCV  (In  morte  LXXVII).  *351 

Dimostra  il  desiderio  che  ha  di  morire  per  vedere  Cristo  e  Laura. 
E' mi  par  d'or  in  ora*  udire  il  messo 
Che  Madonna  mi  mande  a  se  chiamando: 
Così  dentro  e  di  for  mi  vo  cangiando, 
E  sono  in  non  molt'anni  s!  dimesso, 


Rime.  279 

Ch'appena-  rioonoeoo  ornai  me  stesso. 
Tutto '1  viver  usato  ho^  messo  in  bando: 
Sarei  contento  di  sapere  il  quando, 
Ma  pur  devrebbe  il  tempo  esser  da  presso. 

O  felice  quel  dì  che,  del  terreno 

Carcere  uscendo,  lasci  rotta  e  sparta 
Questa  mia  grave  e  frale  e  mortai  gonna; 

E  da  sì  folte   tenebre  mi  parta. 
Volando  tanto  su  nel  bel  sereno, 
Ch'  i'  veggia  il  mio  Signore  e  la  mia  Donna. 
1  bora    2  Chapena    ^  o 

SONETTO  CCCVI  (In  morte  LXXVIII).  *352 

Narra  come  Laura  gli  apparisca  spesso  in  sogno,  lo  ascolti  con  pazienza 

gli  dimostri  compassione  con  sospiri  e  con  lagrime,   onde  il  dolore  di 

averle  dato  dispiacere  lo  desta. 

L'aura  mia  sacra  al  mio  stanco  riposo 
Spira  sì  spesso,  eh'  i'  prendo  ardimento 
Di  dirle  il  mal  eh' i' ho^  sentito  e  sento; 
Che  vivend' -  ella,  non  sarei  stato  ^  oso. 

Io*  incomincio  da  quel  guardo  amoroso, 
Che  fu  principio  a  sì  lungo  tormento; 
Poi  seguo,  come  misero  e  contento, 
Di  dì  in  dì,  d'ora  in  ora,''  Amor  m'  ha**  roso. 

Ella  si  tace,  e  di  pietà  dipinta^ 
Fiso  mira  pur  me:  parte  sospira 
E  di  lagrime  oneste^  il  viso  adorna: 
Onde  l'anima  mia  dal  dolor  vinta, 
Mentre  piangendo  allor  seco  s'adira. 
Sciolta  dal  sonno  a  se  stessa  ritorna. 
1  o    2  vivendo    *  stat    *  I     ^  bora    *  ma    ^  depinta    *  honeste 

SONETTO  CCCVII  (In  morte  LXXIX).  *353 

Dice  che  per  ispirazione  di  Laura  conosce  quanto  vaglia  il  mondo,  e  che 

temer  non  dee  la  Morte  che  è  stata  sostenuta  fortemente  da  Cristo  e  da 

Laura  per  suo  esempio. 

Ogni  giorno  mi  par  più  di  mill'anni, 
Ch'  i'  segua  la  mia  fida  e  cara  duce. 


260  Petrarca. 

Che  mi  condusse  al  mondo,  or  mi  conduce 
Per  miglior  via  a  vita  senza  affanni. 
E  non  mi  posson  ritener  gl'^  inganni 
Del  mondo,  ch'il  conosco:  e  tanta  luce 
Dentr'-  al  mio  core  infin  dal  ciel  traluce, 
Ch'  i'  'ncomincio  a  contar  il  tempo  e  i  danni. 

Né  minacce"  temer  debbo  di  Morte, 
Che'l  Re  sofferse  con  più  grave  pena, 
Per  farme  a  seguitar  costante^  e  forte; 
Ed  or  novellamente  in  ogni  vena 
Intrò  di  lei  che  m'era  data  in  sorte, 
E  non  turbò  la  sua  fronte  serena. 
1  1     2  Dentro     ^  minaccie    *  constante 

SONETTO  CCCVIII  (In  morte  LXXX).  *354 

Dacch' ella   morì   ei  non  ebbe  più  vita.  Disprezza  ed  affronta  la  morte 
per  l'esempio  di  Laura  e  di  Cristo. 

Non  può^  far  morte  il  dolce  viso  amaro, 
Ma '1  dolce  viso,  dolce  può^  far  Morte. 
Che  bisogna-  a  morir  ben  altre  scorte? 
Quella  mi  scorge  ond'ogni  ben  imparo. 

E  quei  che  del  suo  sangue  non  fu  avaro, 
Che  col  pie"  ruppe  le  tartaree  porte 
Col  suo  morir  par  che  mi  riconforte. 
Dunque  vien,  Morte;  il  tuo  venir  m'è  caro. 

E  non  tardar,  ch'egli  è  ben  tempo  ornai; 
E  se  non  fosse,-^  e'  fu  '1  tempo  in  quel  punto 
Che  Madonna  passò  di  questa  vita. 

D'allor  innanzi  un  dì  non  vissi  mai: 

Seco  fu'"  in  via,  e  seco  al  fin  son  giunto, 
E  mia  giornata  ho**  co' suoi  pie  fornita. 
1  pò     -  bisogn     *  pe    *  fusse    ^  fui    *  o 

CANZONE  XXVII  (In  morte  VI).       *355 

Apparizione   di  Laura   in  sogno  al  Petrarca  e  narrazione  in  forma  di 

dialogo   degli   affetti   di   lui   e  delle   consolazioni  e  dei  disinganni  che 

ella  gli  apporta. 

Quando  il  soave  mio  fido  conforto. 

Per  dar  riposo  alla  mia  vita  stanca. 


Rime.  281 

Pensi  del  letto  in  su  la  sponda  manca 

Con  quel  suo  dolce  ragionare  accorto; 

Tutto  di  pietà  e  di  paura  smorto, 

Dico:   »onde  vien  tu  ora,  o  felice  alma?«  6 

Un  ramoscel  di  palma 

Ed  un  di  lauro  trae  del  suo  bel  seno; 

E  dice  :   »  dal  sereno 

Ciel  empireo  e  di  quelle  sante  parti 

Mi  mossi,  e  vengo  sol  per  consolarti.  « 

In  atto  ed  in  parole  la  ringrazio^ 

Umilemente,'^  e  poi  domando:^  »or  donde 

Sai  tu  il  mio  stato?  «   Ed  ella:   »le  trist'*  onde 

Del  pianto,  di  che  mai  tu  non  se'  sazio, '^ 

Con^  l'aura  de'sospir,  per  tanto  spazio' 

Passano  al  cielo  e  turban  la  mia  pace.  6 

Sì  forte  ti  dispiace 

Che  di  questa  miseria  sia  partita, 

E  giunta  a  miglior  vita? 

Che  piacer  ti  devria,  se  tu  m'amasti 

Quanto  in  sembianti  e  ne' tuo'*  dir  mostrasti.* 

1  ringratio     -  Humilemente    ^  demando     *  triste    ^  satio     *  Col 
'  spatio    8  tuoi 

Rispondo:   »io  non  piango  altro  che  me  stesso, 
Che  son  rimase  in  tenebre  e'n  martire, 
Certo  sempre  del  tuo  al  ciel  salire 
Come  di  cosa  ch'uom  vede  da  presso. 
Come  Dio  e  Natura  avrebben  messo 
In  un  cor  giovenil  tanta  virtute,^  6 

Se  l'eterna  salute 

Non  fosse-  destinata  al  sùo^  ben  fare? 
O  dell'anime  rare, 
Ch'altamente  vivesti  qui  fra"*  noi, 
E  che  subite  al  ciel  volasti  poi! 
1  vertute    2  fugge    3  tuo     *  tra 

Ma  io  che  debbo  altro  che  pianger  sempre, 
Misero  e  sol,  che  senza  te  son  nulla? 


282  Petrarca. 

Ch'or  foss'^  io  spento  al  latte  ed  alla  culla. 
Per  non  provar  dell'amorose  tempre  1  « 
Ed  ella:   »a  che  pur  piangi  e  ti  distempre? 
Quant'^  era  meglio  alzar  da  terra  Tali,  6 

E  le  cose  mortali 
E  queste  dolci  tue  fallaci  ciance 
Librar  con  giusta  lance, 
E  seguir  me,  s'è  ver  che  tanto  m'ami. 
Cogliendo^  omai  qualcun*  di  questi  rami!« 
1  fuss    "  Quanto    »  Coglendi    *  qualchun 

>  r  volea  dimandar,  «   rispond'^  io  allora, 

>Che  voglion  importar  quelle  due  frondi.  « 

Ed  ella:   »  tu  medesmo  ti  rispondi, 

Tu  la  cui  penna  tanto  l'una  onora.'^ 

Palma  è  vittoria;^  ed  io,  giovene  ancora,* 

Vinsi 'P  mondo  e  me  stessa:  il  lauro  segna        6 

Trionfo,"  end' io  son  degna, 

Mercè  di  quel  Signor  che  mi  die  forza. 

Or  tu,  s'altri  ti  sforza, 

A  lui  ti  volgi,  a  lui  chiedi  soccorso; 

Sì  che  Siam  seco  al  fine  del  tuo  corso.  « 

1  demandar    respond       -  honora       ^  Victoria       *  anchora       ^  il 
'  Triumpho 

»  Son  questi  i  capei  biondi  e  l'aureo  nodo,  « 

Dico  io,^  »ch'ancor  mi  stringe,  e  quei  begli-  occhi 
Che  fur  mio  Sol?«    »Non  errar  con  gli^  sciocchi 
Né  parlar,      dice,   »  o  creder  a  lor  modo. 
Spirito  ignudo  sono,  e 'n  ciel  mi  godo: 
Quel  che  tu  cerchi,  è  terra  già  molt'anni:  6 

Ma  per  trarti  d'affanni, 
M'è  dato  a  parer  tale.  Ed  ancor*  quella 
Sarò,  più  che  mai  bella, 
A  te  più  cara,  sì  selvaggia  e  pia 
Salvando  insieme^  tua  salute  e  mia.  « 
A  Dichio     "  belli     "li    *  anchor    ^  inseme 


Rime.  283 

r  piango;  ed  ella  il  volto 
Con^  le  sue  man  m'asciuga;  e  poi  sospira 
Dolcemente;  e  s'adira 
Con  parole  che  i  sassi  romper  ponno: 
E  dopo  questo,  si  parte  ella  e  '1  sonno. 

CANZONE  XXVIII  (In  morte  VII).    «SSó 

Si  difende  il  Petrarca  dalle  riprensioni  che  gli  erano  date  o  gli  potevano 
esser  date  dal  mondo  del  suo  amore.  Finge  un  giudizio,  nel  quale  egli 
prende  la  parte  del  mondo  ed  accusa  non  se,  ma  in  luogo  di  se  Amore, 
al  quale  attribuisce  la  difesa  sua;  e  fa  giudice  la  Ragione,  la  quali 
non  dà  sentenza,  ma  domanda  proroga,  e  dice  che  la  cosa  non  è  a  la 
ben  manifesta. 

Queir ^  antiquo  mio  dolce  empio  signore 
Fatto  citar  dinanzi  alla  reina 
Che  la  parte  divina 
Tien  ti  nostra  natura  e  'n  cima  sede, 
Ivi,  com'ero  che  nel  foco  affina, 
Mi  rappresento  carco  di  dolore,  6 

Di  paura  e  d'orrore. 

Quasi  uom^  che  teme  morte  e  ragion  chiede; 
E'ncomincio:   »  Madonna,  il  manco  piede 
Giovenetto  pos'  io  nel  costui  regno  : 
Ond' altro  ch'ira  e  sdegno 
Non  ebbi  mai;  e  tanti  e  sì  diversi 
Tormenti  ivi  soffersi, 
Ch'  al  fine  vinta  fu  quella^  infinita 
Mia  pazienza,*  e  'n  odio  ebbi  la  vita. 
1  Quel    *  huom    '  quell    *  patientia 

Così  '1  mio  tempo  infin  qui  trapassato 

È  in  fiamma  e 'n  pene;  e  quante  utili  oneste' 

Vie  sprezzai,  quante  feste, 

Per  servir  questo  lusinghier  crudele! 

E  qual  ingegno  ha^  sì  parole  preste 

Che  stringer  possa  '1  mio  infelice  stato,  6 

E  le  mie  d'esto  ingrato 


284  Petrarca. 

Tante  e  sì  gravi  e  sì  giuste  querele? 
Oh'^  poco  mei,  molto  aloè  con  felel 
In  quanto  amaro  ha*  la  mia  vita  avvezza-'* 
Con  sua  falsa  dolcezza, 
La  qual  m'attrasse  all'amorosa  schiera! 
Che,  s' i'  non  m' inganno,  era 
Disposto  a  sollevarmi  alto  da  terra: 
E' mi  tolse  di  pace  e  pose  in  guerra. 
1  honeste    2  ^    s  O    *  a    ^  avezza 

Questi  m'ha^  fatto  men  amare  Dio 

Ch'  i'  non  devea,*  e  men  curar  me  stesso: 
Per  una  donna  ho"  messo 
Egualmente  in  non  cale  ogni  penserò. 
Di  ciò  m'è  stato  consiglier  sol  esso, 
Sempr'aguzzando  il  giovenil  desio 
All'empia  cote  ond'  io 
Sperai  riposo  al  suo  giogo  aspro  e  fero. 
Misero!  a  che  quel  chiaro  ingegno  altero, 
E  l'altre  doti  a  me  date  dal  Cielo? 
Che  vo  cangiando  '1  pelo, 
Né  cangiar  posso  l'ostinata  voglia: 
Così  in  tutto  mi  spoglia 
Di  libertà  questo  crudel  eh'  i'  accuso. 
Ch'amaro  viver  m'ha^  volto  in  dolce  uso. 
'  a     -  deveva    ^  o    *  a 

Cercar  m'ha^  fatto  deserti  paesi, 
Fiere  e  ladri  rapaci,  ispidi"  dumi, 
Dure  genti  e  costumi. 
Ed  ogni  error  eh' e' pellegrini  intrica; 
Monti,  vaUi,  paludi  e  mari  e  fiumi; 
Mille  lacciuoli  in  ogni  parte  tesi; 
E  '1  verno  in  strani  mesi, 
Con  pericol  presente  e  con  fatica: 
Né  costui  né  quell'altra  mia  nemioa 
Ch'  i'  fugfia,  mi  lasciavan  sol  un  punto. 


Rime.  285 

Onde,  s' ì'  non  son  giunto 
Anzi  tempo  da  morte  acerba  e  dura, 
Pietà  celeste  ha'^  cura 
Di  mia  salute,  non  questo  tiranno. 
Che  del  mio  duol  si  pasce  e  del  mio  danno, 
la    2  hispidi    3  a 

Poi  che  suo  fui,  non  ebbi  ora'  tranquilla. 
Ne  spero  aver;  e  le  mie  notti  il  sonno 
Sbandirò,  e  più  non  ponno 
Per  erbe^  o  per  incanti  a  se  ritrarlo. 
Per  inganni  e  per  forza  è  fatto  donno 
Sovra  miei  spirti;  e  non  sonò  poi  squilla,  6 

Ov'io  sia  in  qualche  villa, 
Ch' i' non  l'udissi.''  Ei  sa  che '1  vero  parlo: 
Che  legno  vecchio  mai  non  rose  tarlo 
Come  questi  '1  mio  core,  in  che  s'annida, 
E  di  morte  lo  sfida. 
Quinci  nascon  le  lagrime  e  i  martiri. 
Le  parole  e  i  sospiri, 
Di  ch'io  mi  vo  stancando,  e  forse  altrui. 
Giudica  tu,  che  me  conosci  e  lui,« 
■^  bora    2  herbe    ^  udisse 

Il  mio  avversario^  con  agre  rampogne 
Comincia:   »o  donna,  intendi  l'altra  parte, 
Che  '1  vero,  onde  si  parte 
Quest'ingrato,  dirà  senza  difetto.^ 
Questi  in  sua  prima  età  fu  dato  all'arte 
Da  vender  parolette,  anzi  menzogne:  6 

Né  par  che  si  vergogne. 
Tolto  da  quella  noia  al  mio  diletto,^ 
Lamentarsi  di  me,  che  puro  e  netto 
Centra  al  desio,  che  spesso  il  suo  mal  vole, 
Lui  tenni,  ond'or  si  dole, 
In  dolce  vita,  eh'  ei  miseria  chiama. 
Salito  in  qualche  fama 


286  Petrarca. 

Solo  per  me,  che '1  suo  intelletto*  alzai 
Ov' alzato  per  se  non  fora  mai. 
'  adversario    '  defecto    '  dilecto    ♦  intellecto 

Ei  sa  che  '1  grande  Atride  e  l'alto  Achille, 

Ed  Annibale  al  terren  vostro  amaro, 

E  di  tutti  il  più  chiaro 

Un  altro  e  di  virtute^  e  di  fortuna, 

Com'a  ciascun  le  sue  stelle  ordinare, 

Lasciai  cader  in  vii  amor  d'ancille:  6 

Ed  a  costui  di  mille 

Donne  elette  eccellenti^  n'elessi  una 

Qual  non  si  vedrà  mai  sotto  la  luna, 

Benché  Lucrezia*  ritornasse  a  Roma; 

E  sì  dolce  idioma^ 

Le  diedi  ed  un  cantar  tanto  soave. 

Che  pensieri  basso  o  grave 

Non  potè  mai  durar  dinanzi  a  lei. 

Questi  fur  con  costui  gì''  inganni  miei. 

^  Hanibal     '■^  vertute     •  electe  excelienti     *  Lucretia     ^  7dioma 
^  penser    ''  li 

Questo  fu  il  fel,  questi  gli  ^  sdegni  e  l' ire, 
Più  dolci  assai  che  di  nuU'altra  il  tutto. 
Di  buon  2  seme  mal  frutto 
Mieto:  e  tal  merito  ha^  chi 'ngrato  serve. 
Sì  l'avea  sotto  l'ali  mie  condutto, 
Ch' a  donne  e  cavalier  piacea '1*  suo  dire;         6 
E  sì  alto  salire 

Il  feci,  che  tra'  caldi  ingegni  ferve 
Il  suo  nome;  e  de'  suoi  detti  conserve 
Si  fanno  con  diletto  in  alcun  loco; 
Ch'or  saria  forse  un  roco 
Mormora dor  di  corti,  un  uom*  del  vulgo: 
r  l'esalto**  e  divulgo 

Per  quel  ch'egli  'mparò'  nella  mia  scola 
E  da  colei  che  fu  nel  mondo  sola. 
1  li     *  bon     *  a    *  il    '  huom    *  exalto     ■  ellimparo 


Rime.  267 

E  per  dir  airestremo'  il  gran  servigio, 
Da  miir  atti  inonesti  l'ho'^  ritratto; 
Che  mai  per  alcun  patto  ^ 
A  lui  piacer  non  poteo  cosa  vile; 
Giovene  schivo  e  vergognoso  in  atto* 
Ed  in  pensier,^  poi  che  fatt'  ®  era  uom  '  ligio      6 
Di  lei,  ch'alto  vestigio 
L'impresse  al  core,  e  fecel  suo  simile. 
Quanto  ha®  del  pellegrino  e  del  gentile, 
Da  lei  tene  e  da  me,  di  cui  si  biasma. 
Mai  notturno^  fantasma 
D'error  non  fu  sì  pien,  com'  ei  ver  noi  ; 
Ch'  è  in  grazia,^^  da  poi 
Che  ne  conobbe,  a  Dio  ed  alla  gente; 
Di  ciò  il  superbo  si  lamenta  e  pente. 

*  extremo    *  Da  mille  acti  inhonesti  lo    ^  pacto    *  acto    '  penser 
^  fatto    '  huom     ^  a    *  nocturno    *"  gratia 

Ancor  ^  (e  questo  è  quel  che  tutto  avanza) 
Da  volar  sopra  '1  ciel  gli  '^  avea  dat'  ali 
Per  le  cose  mortali, 

Che  son  scala  al  Fattor,  chi  ben  l'estima. 
Che  mirando  ei  ben  fiso  quante  e  quali 
Eran  virtù  ti '^  in  quella  sua  speranza,  6 

D'una  in  altra  sembianza 
Potea  levarsi  all'alta  cagion  prima: 
Ed  ei  r  ha^  detto  alcuna  volta  in  rima. 
Or  m'  ha*  posto  in  obblio^  con  quella  donna 
Ch'  i'  li  die'  per  colonna 
Della  sua  frale  vita.«  A  questo,  un  strido 
Lagrimoso  alzo,  e  grido: 
»Ben  me  la  die,  ma  tosto  la  ritolse.* 
Risponde:^  io  no,  ma  chi  per  se  la  volse. 

*  Anchor    »  Ji    »  vertuti    *  a    ^  oblio    «  Responde 

Al  fin  ambo  conversi  al  giusto  seggio, 

Io*  con  tremanti,  ei  con  voci  alte  e  crude. 
Ciascun  per  se  conchiude: 


90  0  Petrarca 

*  Nobile  donna,   tua  sentenza-  attendo,  e 
Ella  allor  sorridendo: 
»Piacemi  aver  vostre  questioni  udite, 
Ma  più  tempo  bisogna  a  tanta  lite.« 
i  I     2  sen  lentia 

SONETTO  CCCIX  (In  morte  LXXXI).  *357 

di  fuma. 

Dicemi  spesso  il  mio  fidato  speglio, 
L'animo  stanco  e  la  cangiata  scorza 
E  la  scemata  mia  destrezza  e  forza: 
Non  ti  nasconder  più;  tu  se' pur  veglio. 

Obbedir^   a  Natura  in  tutto  è  il  meglio; 
Ch'  a  contender  con  lei  il  tempo  ne  sforza. 
Subito  allor,  com'acqua  il  foco  ammorza, 
D'un  lungo  e  grave  sonno  mi  risveglio: 
E  veggio  ben  che'l  nostro  viver  vola, 
E  ch'esser  non  si  può^  più  d'una  volta; 
E  'n  mezzo  '1  cor  mi  sona  una  parola 
Di  lei  eh' è  or  dal  suo  bel  nodo  sciolta. 
Ma  ne' suoi  giorni  al  mondo  fu  sì  sola, 
Ch'  a  tutte,  s' i'  non  erro,  fama  ha     tolta. 

1  Obedir     ^  amorza    ^  pò    *  a 

SONETTO  CCCX  (In  morte  LXXXII).  *358 

lo  conseguirà. 
Volo  con  l'ali  de  pensieri  al  Cielo 

Sì  spesse  volte,  che  quasi  un  di  loro 

Esser  mi  par  c'hann'Mvi  il  suo  tesoro. 

Lasciando  in  terra  lo  squarciato  velo. 
Talor  mi  trema '1  cor  d'un  dolce  gelo, 

Udendo  lei  per  eh'  io  mi  discoloro, 


Rime.  289 

Dirmi:   »amico,  or  t' am' io  ed  or  t'onoro, 
Pero'  hai  costumi  variati  e  '1  pelo.« 

Menami  al  suo  Signor:  allor  m' inchino, 
Pregando  umilemente^  che  consenta 
Ch'  i'  sti'  ^  a  veder  e  l'uno  e  l'altro  volto. 

Risponde:.^  »egli  è  ben  fermo  il  tuo  destino; 
E  per  tardar  ancor ^  vent'  anni  o  trenta, 
Parrà  a  te  troppo,  e  non  fia  però  molte.  •< 
1  chan    2  thesoro    '  humilemente     *  stia    "  Re;ponde     ^  anchor 

SONETTO  CCCXI  (In  morte  LXXXIII).  *359 

Poiché  è  morta  Laura,  la  quale  vivendo,  Amore  il  teneva  prigione,  e  in 
tormenti,  torna  a  Dio,  volonteroso  di  morire. 

Morte  ha^  spento  quel  Sol  eh'  abbagliar ^  suolmi, 
E 'n  tenebre  son  gli^  occhi  interi  e  saldi; 
Terra  è  quella  ond'  io  ebbi  e  freddi  e  caldi  ; 
Spenti  son  i  miei  lauri,  or  querce  ed  olmi: 

Di  ch'io  veggio  '1  mio  ben;  e  parte  ducimi. 
Non  è  chi  faccia  e  paventosi  e  baldi 
I  miei  pensier,^  né  chi  gli^  agghiacci  e  scaldi. 
Né  chi  gli*^  empia  di  speme  e  di  duol  colmi. 

Fuor  di  man  di  colui  che  punge  e  molce, 
Che  già  fece  di  me  sì  lungo  stràzio,' 
Mi  trovo  in  libertate  amara  e  dolce: 

Ed  al  Signor  eh'  i'  adoro  e  eh'  i'  ringrazio,* 
Che  pur  col  ciglio  il  ciel  governa  e  folce, 
Torno  stanco  di  viver,  non  che  sazio.^ 

•^  a     2  abagliar     ^  li     *  penser     ^  li     "gì     ^  stratio     ^  ringratio 
'•'  satio 

SONETTO  CCCXII  (In  morte  LXXXIV).  *360 

Confessa  d'avere  errato  per  lo  spazio  di  ventun  anno,  e  si  pente  e  pro- 
mette di  viver  secondo  Dio  e  gli  chiede  soccorso,  ricordandogli  che  è  sua 
fattura  e  che  si  lenie  dell'errar  commesso. 

Tennemi  Amor  anni  ventuno  ardendo 

Lieto  nel  foco,  e  nel  duo!  pien  di  speme; 

Poi  che  Madonna  e  '1  mio  cor  seco  insieme^ 

Salirò  al  ciel,  dieci  altri  anni  piangendo. 

Bibl.  rom.   12' 15.  19 


290  Petrarca. 

Ornai  son  stanco,  e  mia  vita  riprendo^ 
Di  tanto  error,  che  di  virtute*^  il  seme 
Ha*  quasi  spento;  e  le  mie  parti  estreme,-^ 
Alto  Dio,  a  te  devotamente  rendo, 

Pentito  e  tristo  de'  miei  sì  spesi  anni; 

Che  spender  si  deveano  in  miglior  uso. 

In  cercar  pace  ed  in  fuggir  affanni. 
Signor,  che 'n  questo  career  m'hai®  rinchiuso, 

Trammene'  salvo  dagli®  eterni  danni; 

Ch'  i'  conosco  '1  mio  fallo,  e  non  lo  scuso. 

^  inseme    ^  reprendo    *  vertute    *  A    ^  extreme     ^  mai     "^  Tra- 
mene   8  dali 

SONETTO  CCCXIII  (In  morte  LXXXV).  *361 

Confessa  il  peccato  suo,   mostrando   la  grandezza  sua.     Prega  Dio  che 

l'aiuti,  acciocché  viva  per  l'avvenire  e  muoia  come  cristiano,  rammentando 

la  fidanza  che  ha  in  lui  e  non  in  altro. 

r  vo  piangendo  i  miei  passati  tempi 
I  quai  posi  in  amar  cosa  mortale. 
Senza  levarmi  a  volo,  avend'io^  l'ale 
Per  dar  forse  di  me  non  bassi  esempi.'' 

Tu,  che  vedi  i  miei  mali  indegni  ed  empi, 
Re  del  cielo,  invisibile,  immortale, 
Soccorri  all'alma  disviata  e  frale, 
E '1  suo  difetto*  di  tua  grazia*  adempì; 

Sì  che,  s'  io  vissi  in  guerra  ed  in  tempesta. 
Mora  in  pace  ed  in  porto;  e  se  la  stanza 
Fu  vana,  almen  sia  la  partita  onesta.^ 
A  quel  poco  di  viver  che  m'avanza 

Ed  al  morir  degni  esser  tua  man  presta. 
Tu  sai  ben  che  'n  altrui  non  ho**  speranza. 
1  abbiendio    ^  exempi    ^  defecto    *  gratia    '  honesta    ^  o 

SONETTO  CCCXIV  (In  morte  LXXXVI).  *362 

Ringrazia  Laura  della  salute  sua,  riconoscendola  dalla  durezza  e  dalla 
piacevolezza  di  lei. 

Dolci  durezze  e  placide  repulse. 
Piene  di  casto  amore  e  di  pietate; 


Rime.  291 

Leggiadri  sdegni,  che  le  mie  infiammate 
Voglie  temprare  (or  me  n'accorgo)  e  'nsulse; 

Gentil  parlar,  in  cui  chiaro  refulse 

Con  somma  cortesia  somma  onestate;^ 

Fior  di  virtù,-  fontana  di  beltate, 

Ch'  ogni  basso  pensier"  del  cor  m'avulse; 

Divino  sguardo,  da  far  l'uom  felice, 
Or  fiero  in  affrenar  la  mente  ardita 
A  quel  che  giustamente  si  disdice, 

Or  presto  a  confortar  mia  frale  vita; 
Questo  bel  variar  fu  la  radice 
Di  mia  salute,  che^  altramente  era  ita. 
1  honestate     ^  vertu     ^  psnser    *  ch 

SONETTO  CCCXV  (In  morte  LXXXVII).  *363 

Grandezza  del  danno  ricevuto  per  la  morte  di  Laura.  Prima  pone  i  beni 
e  le  consolazioni ,  che  in  vita  prendeva,  poi  il  danno  che  ne  seguitò. 

Spirto  felice,  che  sì  dolcemente 

Volgei  quegli^  occhi  più  chiari  che '1  sole, 

E  formavi  i  sospiri  e  le  parole 

Vive  ch'ancor"^  mi  sonan  nella  mente, 

Già  ti  vid'  io  d'onesto  foco  ardente 
Mover  i  pie  fra  l'erbe  e  le  viole, 
Non  come  donna  ma  com'angel  sole, 
Di  quella  ch'or  m'  è  più  che  mai  presente; 

La  qual  tu  poi,  tornando  al  tuo  Fattore, 
Lasciasti  in  terra,  e  quel  soave  velo 
Che  per  alto  destin  ti  venne  in  sorte. 

Nel  tuo  partir  partì  daP  mondo  Amore 
E  Cortesia,  e  '1  Sol  cadde  del  cielo, 
E  dolce  incominciò  farsi  la  Morte. 
1  quelli     ^  chanchor    '  del 

SONETTO  CCCXVI  (In  morte  LXXXVIII).  *364 

Domanda  soccorso  ad  Amore  e  d'invenzione  e  di  parole  per  poter  de- 
gnamente celebrar  Laura.    Amore  gli  risponde  e  dice  quello  che  debba 
scrivere,  cioè  che  persona  non  ebbe  mai  tante  virtù  infuse  o  acquistate, 
né  bellezza  tanta  dacché  fu  formata  la  prima  donna. 
Deh^  porgi  mano  all'affannato  ingegno, 
Amor,  ed  allo  stile  stanco  ^  e  frale, 


292  Petrarca. 

Per  dir  di  quella  eh'  è  fatta  immortale 
E  cittadina  del  celeste  regno. 
Dammi,  Signor,  che  '1  mio  dir  giunga  al  segno 
Delle  sue  lode,  ove  per  se  non  sale, 
Se  vertù,  se  beltà  non  ebbe  eguale 
Il  mondo,  che  d'aver  lei  non  fu  degno. 

Risponde:^  quanto '1  Ciel  ed  io  possiamo 
E  1  buon  consigli  e  ii'*  conversar  onesto,^ 
Tutto  fu  in  lei  di  che  noi  Morte  ha^  privi. 

Forma  par  non  fu  mai  dal  dì  ch'Adamo 
Aperse  gli'  occhi  in  prima:  e  basti  or  questo. 
Piangendo  il  dico:  e  tu  piangendo  scrivi. 

^  De    2  stanche     ^  Responde    *  el    ^  honesto    ''a    "li 

SONETTO  CCCXVII  (In  morte  LXXXIX).  *365 

Assomiglia  la  miseria  dello  staio  suo  a  quella  d'un  uccellino,  che  verso 
la  sera  e  verso  l'inverno  andava  piangendo  il  buon  tempo  passato.  Dice 
nondimeno  che  la  sua  è  maggiore,  in  quanto  fuccellino  piange  alla  con- 
sorte, che  forse  è  in  vita,  ed  egli  a  Laura  che  è  morta.  Rivolge  il  par- 
lare  all'uccellino. 

Vago  augelletto  che  cantando  vai, 

Ovver^  piangenda  il   tuo  tempo  passato, 
Vedendoti  la  notte  e  '1  verno  a  lato, 
E  '1  dì  dopo  le  spalle  e  i  mesi  gai  ; 

Se  come  i  tuoi  gravosi  affanni  sai, 
Così  sapessi  il  mio  simile  stato, 
Verresti  in  grembo  a  questo  sconsolato 
A  partir  seco  i  dolorosi  guai. 

r  non  so  se  le  parti  sarian  pari: 

Che  quella  cui  tu  piangi  è  forse  in  vita. 
Di  ch'a  me  Morte  e  '1  Ciel  son  tanto  avari. 

Ma  la  stagione  e  l'ora  men  gradita, 

Col  membrar  de'  dolci  anni  e  degli-  amari,, 
A  parlar  teco  con  pietà  m'  invita. 

»  Over    a  U 


Rime.  293 

CANZONE  XXIX  (In  morte  Vili).     ♦Sóó 

Domanda   alla  Vergine  d'essere  liberalo  daWamor  di  Laura,  nel  quale 
ha  sostenuto  o  sostenne  tanto  affanno. 

Vergine  bella,  che  di  Sol  vestita, 

Coronata  di  stelle,  al  sommo  Sole 

Piacesti  si,  che  'n  te  sua  luce  ascose, 

Amor  mi  spinge  a  dir  di  te  parole: 

Ma  non  so  'ncominciar  senza  tu'  aita, 

E  di  colui  ch'amando  in  te  si  pose.  6 

Invoco  lei  che  ben  sempre  rispose. 

Chi  la  chiamò  con  fede. 

Vergine,  s'  a  mercede 

Miseria  estrema^  dell'umane-  cose 

Giammai  ti  volse,  al  mio  prego  t'  inchina; 

Soccorri  alla  mia  guerra, 

Bench'  i'  sia  terra,  e  tu  del  ciel  regina. 

1  ex  trema    *  humane 

Vergine  saggia,  e  del  bel  numer^  una 
Delle  beate  vergini  prudenti, 
Anzi  la  prima  e  con  più  chiara  lampa, 
O  saldo  scudo  dell'afflitte^  genti 
Centra'  colpi  di  Morte  e  di  Fortuna, 
Sotto  '1  qual  si  trionfa,"  non  pur  scampa;  6 

O  refrigerio  al  cieco  arder  ch'avvampa^ 
Qui  fra'  mortali^  sciocchi; 
Vergine,  que'  begli  *^  occhi. 
Che  vider  tristi  la  spietata  stampa 
Ne'  dolci  membri  del  tuo  caro  figlio, 
Volgi  al  mio  dubbio'  stato, 
Che  consigliato  a  te  vien*  per  consiglio. 

*  numero      -  affliate     ^  triumpha     ''  avampa    ^'  imortali    •  belli 
'  dubio    *  ver. 

Vergine  pura,  d'ogni  parte  intera, 

Del  tuo  parto  gentil  figliuola  e  madre, 
Ch'allumi  questa  vita  e  l'altra  adorni; 


294  Petrarca. 

Per  te  il  tuo  figlio  e  quel  del  sommo  Padre, 
O  fenestra  del  del  lucente,  altera, 
Venne  a  salvarne  in  su  gli  estremi^  giorni; 
E  fra  tutt'  i  terreni  altri  soggiorni 
Sola  tu  fosti  eletta,^ 
Vergine  benedetta, 

Che'l  pianto  d'Eva  in  allegrezza  torni. 
Fammi,  che  puoi,  della  sua  grazia^  degno, 
Senza  fine  o  beata. 
Già  coronata  nel  superno  regno. 
^  li  extremi     "  electa     "  gratia 

Vergine  santa,  d'ogni  grazia  ^  piena. 
Che  per  vera  ed  altissima  umiltate"^ 
Salisti  al  ciel,  onde  miei  preghi  ascolti; 
Tu  partoristi  il  fonte  di  pietate, 
E  di  giustizia '"^  il  Sol,  che  rasserena 
Il  secol  pien  d'errori  oscuri  e  folti: 
Tre  dolci  e  cari  nomi  ha'"*  in  te  raccolti, 
Madre,  figliuola  e  sposa; 
Vergine  gloriosa. 

Donna  del  Re  che  nostri  lacci  ha*'^  sciolti, 
E  fatto  '1  mondo  libero  e  felice, 
Nelle  cui  sante  piaghe. 
Prego  ch'appaghe  il  cor,  vera  beatrice. 

^  gratia     -  humiltate     '  giustitia    ^  ai     °  a 

Vergine  sola  al  mondo,  senza  esempio;' 
Che  '1  Ciel  di  tue  bellezze  innamorasti; 
Cui  né  prima  fu,  simil,  né  seconda; 
Santi  pensieri.'-  atti  pietosi  e  casti 
Al  vero  Dio  sacrato  e  vivo  tempio 
Fecero  in  tua  virginità"  feconda. 
Per  te  può ^  la  mia  vita  esser  gioconda,' 
S'  a'  tuoi  preghi,  o  Maria, 
Vergine  dolce  e  pia, 
Ove  '1  fallo  abbondò •>  la  grazia  abbonda.' 


Rime.  295 

Con  le  ginocchia  della  mente  inchine 

Prego  che  sia  mia  scorta, 

E  la  mia  torta  via  drizzi  a  buon  fine. 

'  exempio   '^  penseri   '  verginità  *  pò  •*  ioconda  ^  abondo   '  grafia 
abonda 

Vergine  chiara  e  stabile  in  eterno. 
Di  questo  tempestoso  mare  stella, 
D'ogni  fedel  nocchier  fidata  guida, 
Pon  mente  in  che  terribile  procella 
r  mi  ritrovo,  sol,  senza  governo. 
Ed  ho^  già  da  vicin  l'ultime  strida.  6 

Ma  pur  in  te  l'anima  mia  si  fida; 
Peccatrice,  i'  noi  nego. 
Vergine;  ma  ti  prego 
Che  '1  tuo  nemico  del  mio  mal  non  rida: 
Ricorditi  che  fece  il  peccar  nostro 
Prender  Dio,  per  scamparne. 
Umana  ^  carne  al  tuo  virginal  chiostro. 
'  o     ^  Humana 

Vergine,  quante  lagrime  ho^  già  sparte, 
Quante  lusinghe  e  quanti  preghi  indarno 
Pur  per  mia  pena  e  per  mio  grave  danno! 
Da  poi  eh'  i'  nacqui  in  su  la  riva  d'Arno, 
Cercando  or  questa  ed  or  quell'^  altra  parte, 
Non  è  stata  mia  vita  altro  ch'affanno,  6 

Mortai  bellezza,  atti  e  parole  m'  hanno  ^ 
Tutta  ingombrata  l'alma. 
Vergine  sacra  ed  alma, 

Non  tardar,  eh'  i'  son  forse  all' ultim'*  anno. 
I   dì  miei,  più  correnti  che  saetta. 
Fra  miserie  e  peccati 
Sonsen  andati,  e  sol  Morte  n'aspetta. 
1  0    "^  quel    ^  manne     *  ultimo 

Vergine,  tale  è  terra  e  posto  ha^  in  doglia 
Lo  mio  cor,  che  vivendo  in  pianto  il  tenne; 


296 


Petrarca. 


E  di  mille  miei  mali  un  non  sapea; 
E  per  saperlo,  pur  quel  che  n'avvenne* 
Fora  avvenuto;'  ch'ogni  altra  sua  voglia 
Era  a  me  morte  ed  a  lei  fama  rea.  6 

Or  tu,  Donna  del  ciel,  tu  nostra  Dea 
(Se  dir  lice  e  conviensi),* 
Vergine  d'alti  sensi, 

Tu  vedi  il  tutto;  e  quel  che  non  potea 
Far  altri,  è  nulla  alla  tua  gran  virtute.  ' 
Por  fine  al  mio  dolore; 
Che  a*  te  onore'  ed  a  me  fia  salute. 
a     "avenne    »  avenuto    *  convensi     ^vertute    «  Cha     '  honore 

Vergine,  in  cui  ho^  tutta  mia  speranza 
Che  possi  e  vogli  al  gran  bisogno  aitarme, 
Non  mi  lasciare  in  su  l'estremo ^  passo: 
Non  guardar  me,  ma  chi  degnò  crearme; 
No  '1  mio  valor,  ma  l'alta  sua  sembianza 
Ch'  è  in  me,  ti  mova  a  curar  d'uom  sì  basso.   6 
Medusa  e  l'error  mio  m'han^  fatto  un  sasso 
D'umor  vano  stillante; 
Vergine,  tu  di  sante 
Lagrime  e  pie  adempì  '1  mio*  cor  lasso; 
Ch'almen  l'ultimo  pianto  sia  devoto, 
Senza  terrestre  limo. 
Come  fu  '1  primo  non  d'insania  vóto. 

'  o    ^  extremo    '^  man    *  meo 
Vergine  umana^  e  nemica  d'orgoglio. 
Del  comune  principio  amor  t'induca; 
Miserere  d'un  cor  contrito,  umile i^ 
Che  se  poca  mortai  terra  caduca 
Amar  con  sì  mirabil  fede  soglio. 
Che  devrò  far  di  te,  cosa  gentile?  (■ 

Se  dal  mio  stato  assai  misero  e  vile 
Per  le  tue  man  resurgo, 
Vergine,  i'  sacro  e  purgo 
Al  tuo  nome  e  pensieri"  e  'ngegno  e  stile, 


Rime.  297 

La  lingua  e  '1  cor,  le  lagrime  e  i  sospiri. 
Scorgimi  al  miglior  guado, 
E  prendi  in  grado  i  cangiati  desiri, 
humana    -  humile    "  penseri 

II  dì  s'appressa,  e  non  pota  esser  lunge, 

Sì  corre  il  tempo  e  vola, 

Vergine  unica  e  sola, 

E  '1  cor  or  coscienza^  or  morte  punge. 

Raccomandami  al  tuo  Figliuol,  verace 

Uomo^  e  verace  Dio, 

Ch'  accolga  il'"^  mio  spirto  ultimo  in  pace, 
conscientia     ■  Homo    "  Chaccolgal 


INDICE  ALFABETICO 

DEL  CANZONIERE 


SONETTI 

No. 

Ahi,  bella  libertà,  come  tu  m'hai, 97 

Al  cader  d'una  pianta,  che  si  svelse 318 

Alma  felice,  che  sovente  torni 282 

Almo  Sol,  quella  fronde  ch'io  sol'amo; ,    .    .  188 

Amor,  che  meco  al  buon  tempo  ti  stavi 302 

Amor,  che'ncende'l  cor  d'ardente  zelo; 182 

Amor,  che  nel  pensier  mio  vive  e  regna 140 

Amor,  che  vedi  ogni  pensiero  aperto 163 

Amor  con  la  man  destra  il  lato  manco 228 

Amor  con  sue  promesse  lusingando 76 

Amor  ed  io  sì  pian  di  maravig'ia 160 

Amor,  fortuna,  e  la  mia  mente  schiva 124 

Amor  fra  l'erbe  una  leggiadra  rete 181 

Amor,  io  fallo,  e  veggio  il  mio  fallire; 236 

Amor  m'  ha  posto  come  segno  a  strale, 133 

Amor  mi  manda  quel  dolce  penserò 168 

Amor  mi  sprona  in  un  tempo  ed  af frena, 178 

Amor,  Natura  e  la  bell'alma  umile, 184 

Amor  piangeva,  ed  io  con  lui  talvolta 25 

Anima  bella,  da  quel  nodo  sciolta 305 

Anima,  che  diverse  cose  tante 204 

A  pie  de'  colli  ove  la  bella  vesta 8 

Apollo,  s'  ancor  vive  il  bel  desio     34 

Arbor  vittoriosa  trionfale, 263 

Aspro  core  e  selvaggio,  e  cruda  voglia 265 

Aura  che  quelle  chiome  bionde  e  crespe 227 

Avventuroso  più  d'altro  terreno,     lOS 

Beato  in  sogno,  e  di  languir  contento, 212 

Benedetto  sia '1  giorno  e'I  mese  l'anno 61 

Ben  sapev'  io  che  naturai  consiglio, 69 


INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE  299 

No. 

Cantai;  or  piango,  e  non  men  di  dolcezza 229 

Cara  la  vita,  e  dopo  lei  mi  pare 262 

Cercato  ho  sempre  solitaria  vita 259 

Cesare,  poi  che  '1  traditor  d'Egitto 102 

Che  fai,  alma?  che  pensi?  avrem  mai  pace? 150 

Che  fai?  che  pensi?  che  pur  dietro  guardi 273 

Chi  vuol  veder  quantunque  può  Natura 248 

(x)me'l  candido  o\è  per  l'erba  fresca 165 

Come  talora  al  caldo  tempo  sole 141 

Come  va '1  mondo!  or  mi  diletta  e  piace 290 

Conobbi,  quanto  il  Ciel  gli  occhi  m'aperse, 341 

Così  potess'io  ben  chiuder  in  versi 95 

Da'  più  begli  occhi  e  dal  più  chiaro  viso 350 

Datemi  pace,  o  duri  miei  pensieri: 274 

Deh  porgi  mano  all'affannato  ingegno, 364 

Deh  qual  pietà,  qual  angel  fu  sì  presto 343 

Del  cibo,  onde  '1  Signor  mio  sempre  abbonda 344 

Del  mar  tirreno  alla  sinistra  riva, 67 

Dell'empia  Babii">nia,  ond' è  fuggita 114 

Dicemi  spesso  il  mio  fidato  speglio, 35' 

Dicesett' anni  ha  già  rivolto  il  cielo 122 

Di  dì  in  dì  vo  cangiando  il  viso  e '1  pelo; 195 

Discolorato  hai.  Morte,  il  più  bel  volto 283 

Dodici  donne  onestamente  lasse, 225 

Dolce  mio  caro  e  prezioso  pegno, 342 

Dolci  durezze  e  placide  repulse, 362 

Dolci  ire,  dolci  sdegni  e  dolci  paci, 205 

Donna,  che  lieta  col  principio  nostro 349 

Due  gran  nemiche  insieme  erano  aggiunte 297 

Due  rose  fresche,  e  colte  in  paradiso     245 

D'un  bel,  chiaro,   polito  e  vivo  ghiaccio 202 

E'  mi  par  d'or  in  ora  udire  il  messo 351 

È  questo  '1  nido  in  che  la  mia  fenice 321 

Era  '1  giorno  eh'  al  Sol  si  scoloraro 3 

Erano  i  capei  d'oro  a  l'aura  sparsi, 90 

Far  potess'io  vendetta  di  colei 256 

Fera  stella  (se'l  Cielo  ha  forza  in  noi 174 

Fiamma  dal  ciel  su  le  tue  trecce  piova, 136 

Fontana  di  dolore,  albergo  d'ira, 138 

Fresco,  ombroso,  fiorito  e  verde  colle 243 

Fu  forse  un  tem.o  dolce  cosa  amore 346 

Fuggendo  la  prigione  ov'Amor  m'ebbe 89 

Ceri,  quando  taior  meco  s'adira 179 

Già  desiai  con  sì  giusta  querela 217 

Già  fiammeggiava  l'amorosa  stella 33 


300  INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE 

No. 

Giunto  Alessandro  alla  famosa  tomba 187 

Giunto  m'ha  Amor  fra  belle  e  crude  braccia 171 

Gli  angeli  eletti  e  l'anime  beate 348 

Gli  occhi  di  ch'io  parlai  sì  caldamente 292 

Gloriosa  Colonna,  in  cui  s'appoggia 10 

Grazie  eh' a  pochi '1  Ciel  largo  destina;     213 

begli  occhi  ond'  i'  fui  percosso  in  guisa 75 

dì  miei  più  legger  che  nessun  cervo, 319 

dolci  colli  ov'  io  lasciai  me  stesso 209 

'  ho  pien  di  sospir  quest'aer  tutto, 288 

'ho  pregato  Amor,  e  nel  riprego 240 

1  cantar  novo  e  '1  pianger  degli  augelli 219 

I  figliuol  di  Latona  avea  già  nove 43 

1  mal  mi  preme,  e  mi  spaventa  il  peggio, 244 

1  mio  avversario,  in  cui  veder  solete 45 

1  successor  di  Carlo,  che  la  chioma 27 

'  mi  soglio  accusare;  ed  or  mi  scuso, 296 

'mi  vivea  di  mia  sorte  contento 231' 

n  dubbio  di  mio  stato,  or  piango  or  canto; 252 

n  mezzo  di  duo  amanti  onesta  altera 115 

n  nobil  sangue  vita  umile  e  queta, 215 

n  qual  parte  del  Ciel,  in  quale  idea 159 

n  quel  bel  viso  eh'  i'  sospiro  e  bramo.  .    .  • 257 

n  tale  stella  duo  begli  occhi  vidi, 260 

o  amai  sempre,  ed  amo  forte  ancora 85 

o  avrò  sempre  in  odio  la  fenestra 86 

o  canterei  d'amor  sì  novamente, 131 

o  mi  rivolgo  indietro  a  ciascun  passo 15' 

o  non  fu'  d'amar  voi  lassato  unquanco 82 

o  pensava  assai  destro  esser  su  l'ale, 307! 

'  sentia  dentr'  al  cor  già  venir  meno 47 

0  son  dell'aspettar  omai  sì  vinto 96 

0  son  già  stanco  di  pensar  sì  come 74  j 

o  son  sì  stanco  sotto  '1  fascio  antico 81 

0  temo  sì  de'  begli  occhi  l'assalto, 39 

'piansi;  or  canto;  che '1  celeste  lume 230 1 

'pur  ascolto,  e  non  odo  novella 254 

te,  caldi  sospiri,  al  freddo  core; !53 

te,  rime  dolenti,  al  duro  sasso 333 

'vidi  in  terra  angelici  costumi 156 

'  vo  piangendo  i  miei  passati  tempi 360  [ 

La  bella  donna  che  cotanto  amavi, 91 

La  Donna  che  '1  mio  cor  nel  viso  porta Ili 

La  gola  e '1  sonno  e  l'oziose  piume 1 

La  guancia,  che  fu  già  piangendo  stanca, 58 

I-'alma  mia  fiamma  oltro  le  belle  beila, 289 1  ' 


INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE  301 

No. 

L'alto  e  novo  miracol  eh'  a'  dì  nostri 309 

L'alto  signor  dinanzi  a  cui  non  vale 241 

L'arbor  gentil  che  forte  amai  molt'  anni, 60 

L'ardente  nodo  ov' io  fui  d'ora  in  ora 271 

Lasciato  hai,  Morte,  senza  sole  il  mondo     340 

La  sera  desiar,  odiar  l'aurora 255 

L'aspettata  virtù,  che'n  voi  fioriva 104 

L'aspetto  sacro  della  terra  vostra 68 

Lasso,  Amor  mi  trasporta  ov'io  non  voglio: 235 

Lasso,  ben  so  che  dolorose  prede 101 

Lasso,  che  mal  accorto  fui  da  prima 65 

Lasso,  eh'  i'  ardo,  ed  altri  non  mei  crede  ; 203 

Lasso,  quante  fiate  Amor  m'assale, 109 

L'aura  celeste  che'n  quel  verde  lauro 197 

Laura,  che  '1  verde  lauro  e  l'aureo  crine 246 

L'aura  e  l'odore  e  '1  refrigerio  e  l'ombra 327 

L'aura  gentil  che  rasserena  i  poggi 194 

L'aura  mia  sacra  al  mio  stanco  riposo .  352 

L'aura  serena  che,  fra  verdi  fronde 196 

L'aura  soave  ch'ai  sol  spiega  e  vibra 198 

L'avara  Babilonia  ha  colmo '1  sacco; 137 

La  vita  fugge  e  non  s'  arresta  un'  ora; 272 

Le  stelle  e '1  cielo  e  gli  elementi  a  prova 164 

Levommi  il  mio  pensier  in  parte  ov'  era 302 

Liete  e  pensose,  accompagnate  e  sole 222 

Lieti  fiori  e  felici,  e  ben  nate  erbe, 162 

L'oro  e  le  perle,  e  i  fior  vermigli  e  i  bianchi, 46 

L'ultimo,  lasso,  de'  miei  giorni  allegri, 328 

Mai  non  fu*  in  parte  ove  sì  chiar  vedessi 280 

Mai  non  vedranno  le  mie  luci  asciutte,     322 

Ma  poi  che  '1  dolce  riso  umile  e  piano 42 

Mente  mia,  che  presaga  de'  tuoi  danni 314 

Mentre  che  '1  cor  dagli  amorosi  vermi 304 

Mia  ventura  ed  Amor  m'  avean  sì  adorno 201 

Mie  venture  al  venir  son  tarde  e  pigre, 57 

Mille  fiate,  e  dolce  mia  guerrera, .' 21 

Mille  piagge  in  un  giorno  e  mille  rivi 177 

Mirando  '1  sol  de'  begli  occhi  sereno, 173 

Mira  quel  colle,  o  stanco  mio  cor  vago: 242 

Morte  ha  spento  quel  Sol  eh'  abbagliar  suolmi, 359 

Movesi  *1  vecchierel  canuto  e  bianco 16 

Né  cosi  bello  il  Sol  giammai    levarsi 144 

Nell'età  sua  più  bella  e  più  fiorita, 278 

Né  mai  pietosa  madre  al  caro  figlio,     285 

Né  per  sereno  cisl  ir  vaghe  stelle, 312 

Non  dall'Ispano  Ibero  all'indo  Idaspe 210 

Non  d'atra  e  tempestosa  onda  marina 151 


302     INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE 

No. 

Non  fur  mai  Giove  e  Cesare  sì  mossi 155 

Non  può  far  Morte  il  dolce  viso  amaro; 354 

Non  pur  queir  una  bella  ignuda  mano, 200 

Non  Tesin,  Po,  Varo,  Arno,  Adige  e  Tebro 148 

Non  veggio  ove  scampar  mi  possa  ornai:     107 

O  bella  man  che  mi  distringi '1  core 199 

O  cameretta,  che  già  fosti  un  porto 234 

Occhi  miei,  oscurato  è '1  nostro  sole; 275 

Occhi,  piangete;  accompagnate  il  core, 84 

O  d'ardente  virtute  ornata  e  calda 146 

O  dolci  sguardi,  o  parolette  accorte, 253 

O  giorno,  o  ora,  o  ultimo  momento,  .    .       329 

Ogni  giorno  mi  par  più  di  mill'  anni, 353 

Oimè  il  bel  viso,  oimè  il  soave  sguardo, .  267 

O  invidia,  nemica  di  vi'tute, 172 

O  misera  ed  orribil  visione! 251 

Onde  tolse  Amor  l'oro  e  di  qual  vena; 220 

O  passi  sparsi,  o  pensier  vaghi  e  pronti, 161 

Or  che'l  ciel  e  la  terra  e '1  vento  tace, 164 

Or  hai  fatto  l'estremo  di  tua  possa, 326 

Orso,  al  vostro  destrier  si  può  ben  porre 98 

Orso,  e*  non  furon  mai  fiumi,  né  stagni, 38 

O  tempo,  o  ciel  volubil,  che  fuggendo 338 

Ove  ch'i' posi  gli  occhi  lassi  o  giri 158 

Ov'  è  la  fronte  che  con  picciol  cenno 299 

Pace  non  trovo,  e  non  ho  da  far  guerra;     134 

Padre  del  Ciel,  dopo  i  perduti  giorni, 62 

Parrà  forse  ad  alcun  che  'n  lodar  quella 247 

Pasco  la  mente  d'un  sì  nobil  cibo,     193 

Passa  la  nave  mia  colma  d'obblio 189 

Passato  è  '1  tempo  omai,  lasso,  che  tanto 313 

Passer  mai  solitario  in  alcun  tetto 226 

Perch'  io  t'  abbia  guardato  di  menzogna 49 

Per  far  una  leggiadra  sua  vendetta 2 

Per  mezz'i  boschi  inospiti  e  selvaggi, 176 

Per  mirar  Policleto  a  prova  fiso 77 

Perseguendomi  Amor  al  luogo  usato 110 

Piangete,  donne,  e  con  voi  pianga  Amore; 92 

Pien  di  quella  ineffabile  dolcezza 116 

Pien  d'un  vago  pensier,  che  mi  desvia .  169 

Piovonmi  amare  lacrime  dal  viso, 17 

Più  di  me  lieta  non  si  vede  a  terra 26 

Più  volte  Amor  m' avea  già  detto:  Scrivi, 93 

Più  volte  già  dal  bel  sembiante  umano 170 

Po,  ben  può'  tu  portartene  la  scorza      1 80 

Poco  era  ad  appressarsi  agii  occhi  miei 51 


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INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE  303 

No. 

Poi  che  la  vista  angelica  serena, 27ó 

Poi  che '1  cammin  m' è  chiuso  di  mercede, 130 

Poi  che  mia  s.:)eme  è  lunga  a  venir  troppo 88 

Poi  che  voi  ed  io  più  volte  abbiam  provato, 99 

Ponmi  ove'l  Sol  occide  i  fiori  e  l'erba, 145 

Oual  donna  attende  a  gloriosa  fama 261 

Qual  mio  destin,  qual  forza  o  qual  inganno 221 

Oual  paura  ho  quando  mi  torna  a  mente 249 

Qual  ventura  mi  fu  quando  dall'  uno 2ó3 

Quand'  io  mi  volgo  indietro  a  mirar  gli  anni 298 

Ouand'  io  movo  i  sospiri  a  chiamar  voi, 5 

Ouand'io  son  tutto  volto  in  quella  parte 18 

Quand' io  veggio  dal  ciel  scender  l'Aurora 291 

Ouand'io  v'  odo  parlar  sì  dolcemente 143 

Ouando  Amor  i  begli  occhi  a  terra  inchina 167 

Quando  dal  proprio  sito  si  rimove 41 

Quando  fra  l'altre  donne  ad  ora  ad  ora 13 

Quando  giugne  per  gli  occhi  al  cor  profondo 94 

Quando  giunse  a  Simon  l'alto  concetto 78 

Quando '1  pianeta  che  distingue  l'ore 9 

Quando  '1  Sol  bagna  in  mar  l'aurato  carro 223 

Quando '1  voler  che  con  duo  sproni  ardenti     .    • 147 

Quando  mi  vene  innanzi  il  tempo  e'I  loco 175 

Quanta  invidia  io  ti  porto,  avara  terra, 300 

Quante  fiate  al  mio  dolce  ricetto, 281 

Quanto  più  desiose  l'ali  spando 139 

Quanto  più  m'avvicino  al  giorno  estremo, 32 

Quel  che  d'odore  e  di  color  vincea 339 

Quel  eh'  infinita  provvidenza  ed  arte 4 

Quel  eh'  in  Tessag;ia  ebbe  le  man  sì  pronte 44 

Quella  fenestra  ove  l'un  Sol  si  vede 100 

Quella  per  cui  con  Sorga  ho  cangiat'  Arno,     308 

Quelle  pietose  rime,  in  ch'io  m'accorsi 120 

Quel  rosigniuol  che  sì  soave  piagne 311 

Quel  sempre  acerbo  ed  onorato  giorno 157 

Quel  Sol  che  mi  mostrava  il  cammin  destro      306 

Quel  vago,  dolce,  caro,  onesto  sguardo .  330 

Quel  vago  impallidir  che  '1  dolce  riso 123 

Questa  Fenice,  dell'aurata  piuma 185 

Quest'anima  gentil,  che  si  diparte,     31 

Questa  umil  fera,  un  cor  di  tigre  o  d'orsa,     152 

Questo  nostro  caduco  e  fragil  bene, v  337 

Qui,  dove  mezzo  son,  Sennuccio  mio, 113 

Rapido  fiume,  che  d'alpestra  vena, 208 

Real  natura,  angelico  intelletto, 23R 

Rimansi  addietro  il  sestodecim' anno     ...   - 118 


304  INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE 

No. 

Ripensando  a  quel,  eh'  oggi  il  cielo  onora, 345 

Rotta  è  l'alta  colonna  e'  1  verde  lauro) 269 

S'  al  principio  risponde  il  fine  e  '1  mezzo 79 

S' Amore  o  morte  non  dà  qualche  stroppio 40 

S'  amor  non  è,  che  dunque  è  quel  eh'  i'  sento? 132 

S' Amor  novo  consiglio  non  n'appo-ta, 277 

Se  bianche  non  son  prima  ambe  le  tempie 83 

Se  col  cieco  desir,  che  '1  cor  distrugge, 56 

Se  lamentar  augelli,  o  verdi  frondi 279 

Se  la  mia  vita  dall'aspro  tormento 12 

Se'!  dolce  sguardo  di  costei  m'ancide, 183 

Se  l'onorata  fronde  che  prescrive 24 

Se '1  sasso  ond' è  più  chiusa  questa  valle, 117 

Se  mai  foco  per  foco  non  si  spense, 48 

Sennuccio,  i' vo' che  sappi  in  qual  maniera 112 

Sennuccio  mio,  benché  doglioso  e  solo 287 

Sento  l'aura  mia  antica,  e  i  dolci  coili     320 

Se  quell'aura  soave  de' sospiri 2S6 

Se  Virgilio  ed  Om°ro  avessin  visto 186 

Se  voi  poteste  per  turbati  segni,      64 

Sì  breve  è  '1  tempo  e'I  persier  sì  veloce 284 

Siccome  eterna  vita  è  veder  Dio, 191 

Signor  mio  caro,  ogni  pensier  mi  tira 266 

S' io  avessi  pensato  che  sì  care 293 

S' io  credessi  per  morte  essere  scarco 36 

S' io  fossi  stato  fermo  alla  spelunca 136 

Sì  tosto  come  avvien  che  l'arco  scocchi 87 

Sì  traviato  è  '1  folle  mio  desio     6 

Solea  lontana  in  sonno  consolarme 250 

Solcano  i  miei  pensier  soavemente 296 

Soleasi  nel  mio  cor  star  bella  e  viva, 294 

Solo  e  pensoso  i  più  deserti  campi • 35 

Son  animali  al  mondo  di  sì  altera 19 

S'  onesto  amor  può  meritar  mercede 334 

Spinse  amor  e  dolor  ov'  ir  non  debba, 347 

Spirto  felice,  che  sì  dolcemente 363 

Stiamo,  Am.or,  a  veder  la  gloria  nostra i92 

S'  una  fede  amorosa,  un  cor  non  finto,. 224 

Tempo  era  omai  da  trovar  pace  o  tregua 316 

Tennemi  Amor  anni  ventuno  ardendo 360 

Tornami  a  mente,  anzi  v'  è  dentro,  quella 336 

Tranquillo  porto  avea  mostrato  Amore 317 

Tra  quantunque  leggiadre  donne  e  belle 218 

Tutta  la  mia  fiorita  e  verde  etade 315 

Tutto '1  dì  piango;  e  poi  la  notte,  quando 216 

Una  candida  cerva  sopra  l'erba 190 


INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE  305 

No. 

Vago  augelletto,  che  cantando  vai, 3ò5 

Valle  che  de'  lamenti  miei  se'  piena, 301 

Vergognando  talor  eh'  ancor  si  taccia 20 

Vidi  fra  mille  donne  una  già  tale, 335 

Vincitor  Alessandro  l'ira  vinse, 232 

Vinse  Annibal,  e  non  seppe  usar  poi 103 

Vive  faville  uscian  de'  duo  bei  lumi 258 

Voglia  mi  sprona,  Amor  mi  guida  e  scorge, 211     - 

Voi  eh'  ascoltate  in  rime  sparse  il  suono 1 

Volo  con  l'ali  de'  pensieri  al  cielo 358 

Zefiro  torna,  e'I  bel  tempo  rimena, 310 

CANZONI 

Amor,  se  vuo'  eh'  i'  torni  al  giogo  antico, 270 

Ben  mi  credea  passar  mio  tempo  ornai 207 

Che  debb'  io  far  ?  che  mi  consigli,  Amore  ? 268 

Chiare,  fresche  e  dolci  aeque, 126 

Di  pensier  in  pensier,  di  monte  in  monte 129 

Gentil  mia  Donna,  i'  veggio 72 

In  quella  parte  dov' Amor  mi  sprona, 127 

Italia  mia,  benché '1  parlar  sia  indamo 128 

l'vo  pensando,  e  nel  pensier  m'assale 264 

Lasso  me,  eh'  i'  non  so  in  qual  parte  pieghi 70 

Mai  non  vo' più  cantar  eom'io  soleva: 105 

Nel  dolce  tempo  della  prima  etade 23 

Nella  stagion  che'I  ciel  rapido  inchina' 60 

O  appettata  in  Ciel,  beata  e  bella  . 28 

Perchè  la  vita  è  breve, 71 

Poi  che  per  mio  destino 73 

Qual  più  diversa  e  nova 135 

Quando  il  soave  mio  fido  conforto, 3d*tf 

Quell'antiquo  mio  dolce  empio  signore 356 

Se'l  pensier  che  mi  strugge, 125 

Si  è  debile  il  filo  a  cui  s'attene 37 

S' i'  'I  dissi  mai,  eh'  i'  venga  in  odio  a  quella 206 

Solea  dalla  fontana  di  mia  vita 331 

Spirto  gentil  che  quelle  membra  reggi 53 

Standomi  un  giorno,  solo,  alla  fenestra, 323 

Tacer  non  posso,  e  temo  non  adopre 325 

Una  donna  più  bella  assai  che  '1  sole, 119 

Verdi  panni,  sanguigni,  oscuri  o  persi 29 

Vergine  bella,  che  di  Sol  vestita, 366 

SESTINE 

A  qualunque  animale  alberga  in  terra, 22 

Alla  dolce  ombra  delle  belle  frondi 142 

Bibl.  rom.  12.15.  20 


306  INDICE  ALFABETICO  DEL  CANZONIERE 

No. 

Anzi  tre  dì  creata  era  alma  in  parte 2U 

Chi  è  fermato  di  menar  sua  vita 80 

Giovane  donna  sott'  un  verde  lauro 30 

L'aere  gravato,  e  l'importuna  nebbia 66 

Là  ver  l'aurora,  che  sì  dolce  l'aura 239 

Mia  benigna  fortuna  e  '1  viver  lieto,  .    .    • 332 

Non  ha  tanti  animali  il  mar  fra  l'onde, 23? 

BALLATE 

Amor,  quando  fioria 32\ 

Di  tempo  in  tempo  mi  si  fa  meri  dura 149 

Lassare  il  velo  o  per  Sole  o  per  ombra, IO 

Occhi  miei  lassi,  mentre  eh'  io  vi  giro 14 

Perchè  quel  che  mi  trasse  ad  amar  prima 59 

Quel  foco  eh'  io  pensai  che  fosse  spento 55 

Volgendo  gli  occhi  al  mio  novo  colore,     63 

MADRIGALI 

Non  al  suo  amante  più  Diana  piacque 52 

Nova  angeletta  sovra  l'ale  accorta 106 

Òr  vedi.  Amor,  che  giovinetta  donna 121 

Perch'ai  viso  d'Amor  portava  insegna, S4 


g  ariani 
1494. 

PONTIFICAI  INSTITUTE  OF  MEDIAEVAL  STUDIES 

59  QUEEN'S  PARK  Cf^ESCENT 

TORONTO-S,    CANADA 


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